sabato 23 agosto 2014

Verso l’assemblea sinodale.



 Una questione di metodo   

(Maurizio Gronchi) In vista della terza assemblea generale straordinaria del sinodo dei vescovi, che si terrà dal 5 al 19 ottobre prossimi, può essere di qualche utilità richiamare alcuni elementi provenienti dalla tradizione ecclesiale, per introdurci al clima sinodale, che coinvolge non solo i rappresentanti delle conferenze episcopali, ma l’intero popolo di Dio, chiamato ad accompagnare i futuri lavori con la preghiera, in attesa di indicazioni pastorali per proseguire il cammino. Ed è proprio la figura della “comunità di cammino”, che traduce il termine grecosynodía, usato da Luca per la carovana in cui Maria e Giuseppe cercano Gesù dodicenne, rimasto tra i dottori nel Tempio a occuparsi delle cose del Padre suo, a farci riflettere.
Benedetto XVI, riguardo alla scomparsa di Gesù dalla compagnia di Maria e Giuseppe, scrive: «Luca usa per essa la parola synodía, “comunità di cammino”, il termine tecnico per la carovana. In base alla nostra immagine, forse troppo gretta, della Santa Famiglia, questo fatto ci stupisce. Ci mostra, però, in modo molto bello, che nella Santa Famiglia libertà e obbedienza erano ben conciliate l’una con l’altra. Il dodicenne era lasciato libero di decidere se mettersi insieme con coetanei e amici e rimanere durante il cammino in loro compagnia. Alla sera, però, lo attendevano i genitori» (L’infanzia di Gesù, p. 141).
Prendendo spunto da questo brano, due temi s’intrecciano in modo significativo, pensando alla futura assemblea sinodale: la ricerca della presenza di Gesù — che mai abbandona la sua Chiesa, alla quale è unito indissolubilmente, come alla propria famiglia — e la libertà e obbedienza con cui la Chiesa si pone in relazione con lui, per lasciarsi condurre dallo Spirito verso la comprensione della verità tutta intera (cfr. Giovanni, 16, 13). Per quanto possa sembrare scontata la percezione di Gesù nella Chiesa, in realtà, si tratta sempre di porsi nuovamente in ascolto della sua parola che, nel fluire del tempo, è mediata dalla tradizione ecclesiale.
Fin dai primi tempi in cui la Chiesa si è trovata a prendere decisioni su problemi nuovi, non direttamente affrontati in dettaglio da Gesù, è sorta l’esigenza di formulare la dottrina e le indicazioni per il retto agire; si è così andato formando quel deposito articolato con cui la Chiesa stessa ha custodito la fedeltà al suo Signore, nel cambiare dei tempi e delle culture. Dapprima i sinodi e poi i concili hanno provveduto a elaborare risposte coerenti con la sacra Scrittura, facendo sì che alla rivelazione scritta si aderisse attraverso quella trasmessa. Il magistero, quindi, non superiore alla parola di Dio, ma al suo servizio, «piamente ascolta, santamente custodisce e fedelmente espone quella parola, e da questo unico deposito della fede attinge tutto ciò che propone a credere come rivelato da Dio» (Dei Verbum, 10).
Naturalmente, non a tutti appare sempre coerente questo processo di sviluppo, tra continuità e novità, come pure oggi avvertiamo nei dibattiti intorno al Vaticano II e, in certo senso, anche dai timori che si affacciano in vista dell’imminente assemblea sinodale. Grazie al contributo di autori antichi, come Vincenzo di Lérins, e moderni, come John Henry Newman, è comunemente condiviso il concetto di sviluppo dogmatico, secondo il quale non cambia la dottrina, mentre matura la sua più piena comprensione, per il bene del popolo di Dio, grazie allo Spirito. Per tale ragione, Giovanni XXIII, aprendo il Vaticano II, precisava: «Altro è infatti il deposito della fede, cioè le verità che sono contenute nella nostra veneranda dottrina, altro è il modo con il quale esse sono annunziate, sempre però nello stesso senso e nella stessa accezione. Va data grande importanza a questo metodo e, se è necessario, applicato con pazienza; si dovrà cioè adottare quella forma di esposizione che più corrisponda al magistero, la cui indole è prevalentemente pastorale» (Gaudet Mater Ecclesia, 6, 5).
In verità, si è giunti a questa serena e impegnativa consapevolezza grazie alle esperienze sinodali e conciliari antiche, in cui il rapporto tra dottrina e pastorale appariva non sempre armonico e lineare. L’esempio più recente è appunto quello del Vaticano II, al quale talvolta si obietta di essere stato pastorale, come se ciò significasse privare di valore dottrinale i suoi documenti. Tale opposizione, in effetti, non sussiste. Attingendo ancora alle radici della fede cristiana, potremmo forse dire che lo stile di Gesù, testimoniato dai vangeli, sia stato più pastorale che dottrinale? Oppure, sarebbe ragionevole sostenere che san Paolo — il quale neppure ha conosciuto il Gesù terreno — con le sue lettere e il suo insegnamento ha deformato il cristianesimo in cattolicesimo? Forse che la professione di fede in Gesù figlio di Dio salvatore proclamata a Nicea (325) quale versante concettuale della verità di fede riduce o deforma la sostanza viva del Vangelo? O non piuttosto rende accessibile, secondo un linguaggio adeguato ai tempi, ciò che si crede?
Nella sua instancabile ricerca della piena comprensione del mistero di Gesù, la “comunità di cammino” dei primi secoli raggiunse un vertice insuperabile al concilio di Calcedonia (451): il modo con cui si formulava il contenuto — Gesù è vero Dio e vero uomo — diventava anche una preziosa indicazione di metodo. Ovvero, mentre si affermava l’unione delle due nature nell’unica persona del Figlio di Dio, si offriva anche un’indicazione ermeneutica illuminante ogni altra questione di fede: distinguere senza separare, unire senza confondere.
Come il divino e l’umano sussistono in Gesù senza confusione, senza separazione, senza mutamento, senza divisione, così la Chiesa — «per una non debole analogia col Verbo incarnato» (Lumen gentium, 8) — imparava a mantenere la duplice fedeltà a Dio e all’uomo, affrontando ogni volta nuove questioni. Con la libertà di utilizzare linguaggi diversi da quelli delle sacre Scritture, attraverso i tempi e in contesti differenti, la dottrina ha raggiunto la sua formulazione grazie alle esigenze pastorali che richiedevano un orientamento sicuro, in obbedienza sia alla rivelazione di Dio che al bene del suo popolo.
Distinguere senza separare e unire senza confondere, pertanto, potrebbe essere il metodo da applicare anche al rapporto tra dottrina e pastorale. La pazienza che tale metodo richiede è una virtù cardinale, in quanto, nell’incedere faticoso della Chiesa dinanzi alle nuove sfide, non tutto appare subito chiaro né riconoscibile con immediato consenso. Esempi antichi e nuovi mostrano che la pazienza attinge a una verità proclamata da Gesù, umanamente molto condivisibile: «Qui infatti si realizza il detto: uno semina e uno miete» (Giovanni, 4, 37).
Forse ciò può valere come rasserenante indicazione alla vigilia del sinodo, alla luce di antecedenti significativi, pur con le debite distinzioni che occorrono tra la natura dei concili e quella dei sinodi, ovviamente. Ciò che il cosiddetto concilio di Gerusalemme seminò riguardo all’apertura della Chiesa ai pagani (cfr. Atti degli apostoli, 15) portò frutto solo più tardi, grazie all’azione di Pietro e all’apostolato di Paolo; ciò che Giovanni XXIII seminò riguardo alla riconciliazione col popolo d’Israele, portò frutto con la dichiarazione Nostra aetate, promulgata dopo la sua morte, alla fine del Vaticano II. Non sempre, dunque, quanto si avverte come via da percorrere viene effettivamente subito realizzato da chi lo ha intuito. Non trattandosi semplicemente di maggioranza, è allo Spirito, che parla a tutta la Chiesa, che si deve l’ascolto, e ciò avviene con la pazienza propria del discernimento comunitario, secondo quanto Paolo VI, istituendo il sinodo dei vescovi, indicava tra le sue finalità: «Rendere più facile la concordanza di opinioni almeno circa i punti essenziali di dottrina e circa il modo di agire nella vita della Chiesa» (Apostolica sollicitudo, 15 settembre 1965).
Nell’imminenza dell’assemblea sinodale, che si prepara ad annunciare con nuovo vigore la bellezza del vangelo della famiglia, a rispondere alla sua speranza e a curare le sue ferite, merita ricordare con fiducia quanto scritto nella premessa dell’Instrumentum laboris: «Dinanzi a questa urgenza, l’episcopato, cum et sub Petro, si pone in docile ascolto dello Spirito Santo, riflettendo sulle sfide pastorali odierne». Perciò, occorre unirci a questa “comunità di cammino” con la preghiera e la pazienza di cui si nutre la fede nell’“impigro amore” con cui Cristo Gesù conduce la sua Chiesa, la quale continua a custodirlo con la libertà e l’obbedienza imparate dalla Santa famiglia di Nazaret, come «casa paterna dove c’è posto per ciascuno con la sua vita faticosa» (Evangelii gaudium, 47).
L'Osservatore Romano