domenica 31 agosto 2014

Perché entrare in clausura quando si può fare tanto bene nel mondo?





Al Meeting di Rimini il racconto di una suora trappista

Madre Cristiana Piccardo, monaca cistercense della stretta osservanza, è l’autrice del libro presentato al Meeting di Rimini dal titolo “La storia, maestra di Fede, di Speranza, di Carità (edizioni Lindau). Racconta in soli quattro capitoli tutto quanto ha visto e vissuto quando era badessa a Vitorchiano, monastero trappista in Lazio, e in seguito a Humocaro in Venezuela, partendo dagli anni che precedono il Concilio Vaticano II. A presentare il volume è stato chiamato don Gianluca Attanasio della Fraternità dei Missionari di San Carlo Borromeo. Attanasio è un prete milanese inviato come missionario a Torino e conosce il monastero di Vitorchiano ormai da più di venticinque anni.

Così racconta la sua esperienza: “Sono andato la prima volta a Vitorchiano quando avevo vent’anni, avevo già sentito la chiamata a essere prete. Eppure la clausura mi sembrava assurda. Questo pregiudizio mi ha impedito di incontrare le monache. Perché entrare in clausura oggi quando si può fare tanto bene nel mondo?” Gianluca diventa prete e con don Massimo Camisasca, fondatore della Fraternità, ritorna a Vitorchiano: “Sono rimasto folgorato dalla letizia e dalla gioia che splendeva sul loro volto. Sono più contente di me, mi sono detto, anche se la loro vita è lavoro e preghiera restando sempre nello stesso posto, in un mondo in cui viaggiare è quasi un obbligo”. In seguito incontra più volte le monache: ragazze belle, che hanno studiato, che avevano una carriera. “Ma che cosa vivono queste donne?” si chiede padre Attanasio. E la risposta: “Guardano e cercano il volto di Cristo che dà loro la felicità”.

Il libro è un racconto di madre Cristiana alle novizie. La monaca parla del cammino di Vitorchiano, monastero dal quale sono partite in diversi tempi monache che hanno fondato altri monasteri nel mondo: in Venezuela, in Perù, in Argentina, nelle Filippine (da cui è sorto un monastero a Macao, in Cina). Il libro, spiega don Gianluca, può essere letto tenendo conto di alcune parole che ne rappresentano la chiave di lettura. “La prima parola è esperienza, perché il rapporto con Cristo di queste monache è un’esperienza reale”. La seconda è tradizione, anzi “tradizione viva”. Madre Cristiana racconta il suo primo incontro con madre Pia, la badessa di allora, monaca fedele alle regole e appassionata a Cristo. È stata lei a insegnarle che la vita religiosa è una vita a due, la monaca e Gesù Cristo, contraria in radice alla solitudine.

La monaca nel suo racconto rievoca i tempi precedenti al Concilio Vaticano II, in cui la vita monastica era silenzio, preghiera, digiuno, ma anche individualismo. “Il Concilio ha fatto irruzione segnando un passaggio da un’osservanza delle regole a una vita di comunione”, commenta don Attanasio, che prosegue: “Si scopre la sorella e il volto della sorella diventa un bisogno, la comunione investe tutta la vita”. L’incontro di madre Cristiana con don Luigi Giussani provoca un cambiamento enorme a Vitorchiano. Con l’ingresso in monastero di molte ragazze di Gs e poi di Cl, si incontrano due generazioni di monache: le vecchie contadine con le giovani che venivano dalla scuola. Eppure la comunione è totale. Com’è stato possibile? “Basta uno sguardo”, dicono.

La terza chiave di lettura del libro è la missione. Notevole l’esempio del monastero sorto nella Repubblica Ceca. In una nazione atea e da molto tempo senza religione, le nove monache partite da Vitorchiano in tre anni sono diventate diciotto.
Il libro è scritto con un linguaggio poetico e in un mondo spesso segnato da divisioni e disumanità fa conoscere un esempio di vita di pace e di comunione. Perché, osserva don Gianluca, “se non esistono luoghi dove diventano vita quotidiana, come si fa a predicare la pace e la fratellanza?”

Chiude l’incontro il moderatore Camillo Fornasieri, direttore del Centro culturale di Milano: “Il cuore con cui vivono queste suore è lo stesso cuore dei preti delle baraccopoli, genera comunione e costruisce un luogo in cui è possibile vivere”.

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Al Meeting di Rimini le periferie della Chiesa di papa Francesco

Ultime battute al Meeting di Rimini e molta attenzione alle nuove sfide che la Chiesa deve affrontare nei prossimi anni studiando i documenti del continente di papa Francesco, cominciando da una lettura attenta dell’Esortazione apostolica ‘Evangelii Gaudium’: ‘Cosa chiede Francesco alla sua Chiesa?’, a cui hanno risposto il vescovo di Perugia, card. Gualtiero Bassetti, e il segretario della Pontificia Commissione per l’America Latina, Guzmán Carriquiry, che ha affermato:
“Quella che un tempo era considerata una periferia ha fatto irruzione nella cattolicità… E’ un’occasione storica che non si può ignorare con papa Francesco stiamo vivendo una rivoluzione evangelica che passa anche da una visione politica del vangelo che possa aiutare i popoli ad incamminarsi verso democrazie più mature”.
Il card. Bassetti ha iniziato il proprio intervento partendo dalla citazione di ‘Tracce d’esperienza cristiana’, in cui don Giussani raccolse le sue catechesi a Gioventù Studentesca: ‘E’ stato per l’uomo. L’uomo con i suoi interrogativi, la sua solitudine, i suoi desideri, i bisogni che nessuno gli ha mai potuto né per intero spiegare né risolvere, per quest’uomo è vissuta una persona che all’umanità tutta ha preteso dare se stessa come risposta. Tale persona è Gesù Cristo, e Gesù Cristo vive ancora’.
Tale prospettiva aperta dalla carne di Cristo può cambiare la vita del cristiano: “Per prima cosa, ci dobbiamo domandare: qual è l’uomo verso cui andare? Di quali uomini e di quali donne ci parla l’Esortazione Apostolica di Francesco? Porsi questa domanda è fondamentale e la risposta è tanto semplice, quanto impegnativa. Le periferie esistenziali e materiali sono luoghi abitati dall’uomo così ‘come è’ (nel bene e nel male), non ‘in astratto’, cioè dall’ ‘uomo come dovrebbe essere’. Noi non dobbiamo cercare la compagnia dell’uomo ‘come dovrebbe essere’, ma dell’uomo e della donna così come essi sono, anche quando non condividono le nostre posizioni”.
Di seguito ha enucleato le sfide a cui l’Esortazione Apostolica ci chiama: “Oggi, sul soglio di Pietro, siede un figlio prediletto dell’America Latina. Un figlio di quel ‘continente della Speranza’, come lo definì San Giovanni Paolo II, che fu evangelizzato attraverso una ‘straordinaria epopea missionaria’, come evidenziò Benedetto XVI, e che oggi con le sue contraddizioni, i suoi colori, la sua povertà e le sue speranze, ‘guida’ la Chiesa e si fa portatrice di un nuovo annuncio. Un annuncio in cui non si può non ravvisare il ‘segno indelebile di Maria’ e l’eredità  spirituale della Vergin Morena e di Nostra Signora de Aparecida.
Un annuncio, che proprio per questo particolare profilo genetico, non può non essere gaudioso, materno, sapiente, pieno di comprensione verso i ‘piccoli’ e intimamente caratterizzato dalla sobrietà. Una sobrietà che, a me pare, la società europea sembra aver smarrito a favore di uno stile di vita in cui l’essere umano assume, sempre più spesso, le sembianze di un individuo che vive per se stesso, costretto a godere’ come se fosse preda di una sorta di schiavitù consumistica, dei beni che vorticosamente egli stesso produce”.
Tali sfide della Chiesa latino-americana devono essere da sprone per i cristiani europei, chiamati ad una nuova missione evangelizzatrice nella strada del Concilio Vaticano II: “La presente fase di ricezione del Concilio Vaticano II è marcata da questo pontificato che porta al centro il respiro delle periferie. Non a caso i cardinali sono andati a scegliere il papa ‘dalla fine del mondo’:
portando le periferie al centro è come se la Chiesa si fosse dotata di una lente di ingrandimento attraverso la quale tutti possono contemplare e lasciarsi sorprendere da ciò che il Signore ha seminato durante 50 anni nel cammino delle Chiese e nella vita di tanti ‘discepoli-missionari’: frutti che ora vanno raccolti in una sorta di ‘sinfonia sinodale’, fra centro e periferie, fra Chiesa Universale e Chiese locali! Ebbene, il dono-impegno che il Signore fece alla Chiesa attraverso il Concilio Vaticano II si chiama ‘Conversione pastorale’…
Sulla conversione pastorale vorrei ricordare che ‘pastorale’ non è altra cosa che l’esercizio della maternità della Chiesa. Essa genera, allatta, fa crescere, corregge, alimenta, conduce per mano. Serve, allora, una Chiesa capace di riscoprire le viscere materne della misericordia. Senza la misericordia c’è poco da fare oggi per inserirsi in un mondo di ‘feriti’, che hanno bisogno di comprensione, di perdono, di amore”.
Però per comprendere il magistero di papa Francesco non si può ignorare il documento della conferenza di Aparecida (svoltasi dal 13 al 31 maggio 2007), letto attraverso la testimonianza di mons. Filippo Santoro, arcivescovo di Taranto, che collaborò col cardinale Jorge Mario Bergoglio nella commissione incaricata di redigere il documento finale dal titolo ‘Discepoli e Missionari di Gesù Cristo, affinché in Lui abbiano vita’:
“Parlare di Aparecida, oggi, in una fase non più eurocentrica, assume un significato particolare. I lavori di questa Conferenza sono stati affrontati con un approccio che ha ribaltato l’impostazione di tipo sociologico tradizionale e ha introdotto un nuovo metodo di riflessione pastorale basato sulla tripartizione vedere, giudicare, agire”.
Attrazione, missionarietà e bellezza sono state alcune delle parole chiave dell’intervento del vescovo di Taranto, “perché la Chiesa si sviluppa non per proselitismo, ma per attrazione… Anche noi, oggi, dobbiamo rivivere l’esperienza che ha generato Aparecida, scoprire la bellezza della reale vicinanza dei pastori al proprio gregge, e non solo riprendere in modo intellettualistico alcuni temi”.
Però l’attrazione si esercita attraverso una presenza nella realtà delle 20 ‘villas miserias’, le grandi baraccopoli alla periferia di Baires, dove nel 1974 padre Mugica fu assassinato dalla delinquenza organizzata che attanaglia le vite di tanti disperati, pregando e lavorando con gli ultimi. La loro  storia è raccontata dal libro ‘Preti dalla fine del mondo. Viaggio tra i curas villeros di Bergoglio’,  scritto da Silvina Premat, giornalista de La Nacion di Buenos Aires.
Nate dalla grande crisi degli anni Trenta, le villas a lungo sono state trascurate dalla stessa Chiesa fino a quando, racconta nel libro il primo ‘curato’ padre Botan, “ci andammo a vivere per una questione di fede. Ai villeros non avremmo dato istruzioni ma li avremmo resi protagonisti”. Nel 1969, i sacerdoti che si erano uniti a padre Botan si diedero uno statuto e nel 2009 il cardinal Bergoglio li costituì in vicariato:  “Questi sacerdoti sono una risposta ai problemi di quella gente attraverso la luce del Signore e la fede della Chiesa”.
I curas aprono la porta a tutti, così come chiese loro Bergoglio: “Accogliete tutte le vite così come vengono” e da lì sono nate così scuole, asili, orfanatrofi, laboratori per insegnare un mestiere, scuole di calcio e di baseball, gruppi di esploratori. Spostandoci di qualche migliaia di chilometri più a Nord l’impegno dei cristiani non cambia, come ha ben evidenziato il documentario ‘Las Patronas’, girato da Javier Garcìa, raccontando la storia di un gruppo di donne messicane, contadine, che non hanno fatto finta di niente davanti al treno merci che passa dal loro villaggio e porta migliaia di persone dai Paesi del CentroAmerica fino al confine con gli Stati Uniti.
In uno spezzone del documentario così ha raccontato Norma Romero, anima delle Las Patronas: “Un giorno ci siamo avvicinate al treno e gli uomini ci gridavano: ‘Madre abbiamo fame’. Sono tornata a casa e ho detto: ‘Dobbiamo dargli del cibo’. Non sapevamo chi fossero”. Erano migrantes che affrontavano un viaggio di venti giorni sotto il sole, la pioggia, verso la speranza.
Alcuni non mangiavano da cinque giorni, erano stanchi, affamati. La famiglia di Norma si mette all’opera: vengono preparate bottiglie d’acqua, riso, tortillas. Cuociono i fagioli con il pomodoro ‘per farli migliori’. Poi vanno ai binari: “Quando il macchinista ci ha viste e il treno ha iniziato a fischiare la gente si è affacciata. Abbiamo iniziato a lanciare il cibo e l’acqua”. Era il 1995. Dopo tanti anni i migrantes sanno che sul loro cammino ci sono ancora Las Patronas.