martedì 26 agosto 2014

«Non possiamo dire di amare Dio se non amiamo la povera gente»

Giovanni Paolo I


La sera di trentasei anni fa, dopo un conclave lampo, veniva eletto Papa Giovanni Paolo I. L'attualità del suo magistero

ANDREA TORNIELLICITTÀ DEL VATICANO
«Vuoi essere affabile, misericordioso con i poveri, con tutti i bisognosi?». Era questa una delle domande che il 28 dicembre 1958, nel giorno della sua consacrazione episcopale in San Pietro, Albino Luciani, si sentì rivolgere. «Lo voglio», aveva risposto con voce dimessa. E l'amore per i poveri avrebbe caratterizzato l'episcopato a Vittorio Veneto, a Venezia e nella Città Eterna. Lo si comprende rileggendo qualche passo delle omelie e dei discorsi di questo pastore veneto, che da vescovo di Roma, eletto la sera di trentasei anni fa, sarebbe stato così vicino al modello di Papa parroco incarnato da Pio X.

Luciani, prete lontano mille miglia dal virus del carrierismo ecclesiastico, divenuto vescovo per deciso volere di Roncalli, non era uno che «se la credeva», per usare un'espressione di Papa Francesco. Diceva di sé: «Alcuni vescovi somigliano ad aquile, che planano con documenti magistrali ad alto livello; io appartengo alla categoria dei poveri scriccioli che, nell’ultimo ramo dell’albero ecclesiale squittiscono».

Figlio di un emigrante socialista, nel biglietto che gli scrisse suo padre dalla Francia dandogli il consenso a entrare in seminario si leggeva: «Spero che quando tu sarai prete, starai dalla parte dei poveri, perché Cristo era dalla loro parte». Non fece fatica a mettere in pratica quelle parole.

«Miei fratelli», disse da patriarca di Venezia nel 1974, «non possiamo dire di amare Cristo, se non condividiamo questa passione per la povera gente». Nella città lagunare il suo episcopato era stato segnato subito da due linee di impegno: la conoscenza e la vicinanza ai più poveri - sia materialmente che spiritualmente - e l'attenzione al mondo del lavoro. Rimase sorpreso dal vedere quante persone si accalcavano nella sala d'attesa del patriarcato: bisognosi, disoccupati, sbandati, alcolisti. Non trovarono mai chiusa la sua porta. E lui vendette il suo anello e alcune suppellettili d'oro per donarne il ricavato ai poveri, invitando i parroci a fare lo stesso

Non aveva mai avuto simpatie per il comunismo né per il clero che per apparire à la page leggeva il Vangelo con gli occhiali deformanti dell'ideologia. Ma richiamò la comunità cristiana all'impegno fin dal primo incontro con il Consiglio pastorale diocesano: «È vero che soprattutto i lavoratori devono autonomamente risolvere i propri problemi, ma è anche vero che tutta la comunità cristiana in cui i lavoratori sono inseriti, deve essere accanto a essi. Perché i lavoratori soffrono, quando dei cattolici fratelli si rifiutano di riconoscere che il capitalismo ha gravi colpe e con molta leggerezza chiamano “comunista” ogni lavoratore che si batte con energia per il riconoscimento dei propri diritti».

Sapeva bene che ogni cambiamento della società parte dal cambiamento del cuore dell'uomo: «Non intendo negare ai marxisti – o almeno a molti di loro – una sincera sete di pace e di giustizia. Il problema viene da più lontano. La struttura più profonda non è tra ricchi e poveri, tra dominatori e dominati: è nel cuore dell’uomo inclinato a possedere sempre di più. Bisogna, dunque, preoccuparci anzitutto del cuore». Ma questo non significava mettere a posto le coscienze dei cristiani da salotto o dei benpensanti, anzi: «C’è pericolo - precisava - che noi cristiani ci accontentiamo di avere la spiegazione più giusta del fenomeno discordia, violenza, guerra e ci fermiamo qui. I marxisti sbagliano, trascurando le cause profonde e interne del disagio sociale, ma hanno il merito di lavorare e lavorare molto per la causa. Noi corriamo il rischio inverso: abbiamo la spiegazione giusta, ma scambiamo la spiegazione per soluzione e ce ne restiamo colle mani in mano»

Nel Natale 1976, in un periodo in cui le fabbriche del polo industriale di Marghera erano occupate, disse parole che fotografano perfettamente la realtà attuale: «Sfoggiare lusso, sprecare denaro, rifiutare di investirlo, trafugandolo all’estero, non costituisce solo insensibilità ed egoismo: può diventare provocazione e addensare sulle nostre teste quella che Paolo VI chiama “la collera dei poveri dalle conseguenze imprevedibili”».

Nella sua unica uscita dal Vaticano, durante i 33 giorni del suo brevissimo pontificato, mentre si recava a San Giovanni in Laterano per prendere possesso della sua cattedra episcopale, ricevette il saluto dell'amministrazione capitolina e del sindaco comunista Giulio Carlo Argan. Nel breve saluto di risposta all'indirizzo del primo cittadino di Roma disse che le sue parole gli avevano ricordato una preghiera recitata da bambino con sua madre: «I peccati, che gridano vendetta al cospetto di Dio, sono... opprimere i poveri, defraudare la giusta mercede agli operai». Peccati dei più gravi e funesti perché, detto con il Catechismo di san Pio X, «direttamente contrari al bene dell’umanità e odiosissimi, tanto che provocano, più degli altri, i castighi di Dio». Aveva aggiunto: «Roma sarà una vera comunità cristiana, se Dio vi sarà onorato non solo con l’affluenza dei fedeli alle chiese, non solo con la vita privata vissuta morigeratamente, ma anche con l’amore ai poveri».

E nell'ultima udienza generale, due giorni prima della morte, era tornato a citare passi della “Populorum progressio” di Papa Montini: «I popoli della fame interpellano oggi in maniera drammatica i popoli dell’opulenza. La Chiesa trasale davanti a questo grido di angoscia e chiama ognuno a rispondere con amore al proprio fratello... A questo punto alla carità si aggiunge la giustizia, perché – dice ancora Paolo VI – “la proprietà privata non costituisce per alcuno un diritto incondizionato e assoluto. Nessuno è autorizzato a riservare a suo uso esclusivo ciò che supera il suo bisogno, quando gli altri mancano del necessario”. Di conseguenza “ogni estenuante corsa agli armamenti diviene uno scandalo”».