venerdì 22 agosto 2014

«Fa’ silenzio, càlmati!»

L'ultima bufala sul Papa...
La quotidiana e ricerca di qualunque appiglio utile per attaccare Papa Francesco da parte di quegli ex papisti che appena due anni fa s’indignavano per qualunque mancanza di rispetto verso Benedetto XVI mentre ora bombardano con sarcasmo e talora con disprezzoil suo successore, sta raggiungendo livelli comici.
E’ vero, non c’è proprio nulla da ridere, pensando a ciò di cui si parla. Hanno pesantemente criticato il Papa (meglio Bergoglio, come lo definiscono, senza mai ricordare una volta il nome pontificale di Francesco, dato che per qualcuno di costoro il vero Papa è l’emerito) per i suoi presunti “silenzi” circa l’Iraq, con le stesse identiche motivazioni per le quali esattamente mezzo secolo fa, pochi anni dopo la sua morte, venne messo alla berlina Pio XII. Dimenticano di rileggersi le dichiarazioni analoghe fatte dai predecessori negli ultimi decenni in casi di persecuzioni, guerre, emergenze umanitarie (scoprirebbero che il Papa quando interviene in questi casi, evita sempre di additare con nome e cognome i “cattivi” e la loro eventuale appartenenza religiosa, si vedano gli interventi di Papa Wojtyla sul Kosovo).
Finiscono per mettere erroneamente sullo stesso piano gli appelli papali lanciati in occasioni di crisi internazionali e di emergenze umanitarie con un passaggio dell’importante discorso accademico di Papa Ratzinger dedicato al dialogo tra fede e ragione (la lectio di Ratisbona): frasi che vennero distorte e male interpretate, sulle quali lo stesso Benedetto XVI volle fare chiarezza spiegandone il significato con una lettura che nulla concesse ai desiderata dei fautori dello “scontro di civiltà”.
L’ultima – nel senso della più recente – puntata di questa “guerra” contro il successore di Pietro combattuta con la carta e il web s’inventa un’opposizione tra l’allora cardinale Jorge Mario Bergoglio, arcivescovo di Buenos Aires, e Papa Benedetto, proprio sul caso Ratisbona. La presunta “notizia”, “scoperta” dal Telegraph, è stata subito rilanciata sui social network da quanti si sentono investiti della missione di cantargliele al Papa qualunque cosa dica, faccia o non faccia.
I fatti sono questi: padre Guillermo Marcó, giornalista, incaricato dei rapporti con la stampa dell’arcidiocesi di Buenos Aires, nel 2006, dopo il discorso di Benedetto XVI a Ratisbona, si fece intervistare dal “Newsweek” (nella sua versione in lingua spagnola), criticando Ratzinger: disse di non sentirsi rappresentato da quelle parole sull’islam, affermò di ritenere quello di Ratisbona un passo indietro rispetto all’atteggiamento di Giovanni Paolo II. L’intervista fece ovviamente scalpore, anche in Vaticano. Marcó spiegò di aver rilasciato l’intervista non in quanto incaricato dei media della diocesi, ma come presidente dell’Istituto per il dialogo interreligioso. Leggendola appare del tutto evidente che il sacerdote parlava a titolo personale (“quelle parole non MI rappresentano”), senza alcun mandato della diocesi né tantomeno dell’allora arcivescovo di Buenos Aires.
Ciononostante, visto il comprensibile imbarazzo che quell’intervista – e anche altre dichiarazioni – avevano provocato, padre Marcó, venne rimosso dal suo incarico di responsabile dei rapporti con la stampa, per volere del cardinale Bergoglio, e destinato altrove. Una circostanza che quanti hanno scovato e rilanciato la presunta notizia si guardano dal raccontare, perché rovinerebbe questa nuova pretestuosa accusa.
Attribuire al futuro Papa le parole di Marcó, per contrapporlo a Benedetto XVI è dunqueun’operazione propagandistica. Non dissimile da quelle messe in atto da Horacio Verbitsky, che per anni ha cercato di attribuire a Bergoglio una qualche vicinanza con il regime argentino durante la dittatura (venendo peraltro magistralmente smentito dalla documentata inchiesta di Nello Scavo, pubblicata col titolo “La lista di Bergoglio”). O da quella infelice tentata subito dopo l’Habemus Papam del 13 marzo 2013 dal regista americano Michael Moore, che twittò la foto di un anziano prelato mentre dava la comunione a Videla dicendo che si trattava del nuovo Papa e fu sbugiardato nel giro di pochi minuti. A. Tornielli
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Decisamente troppo lungo questo articolo,  ma spiega bene perché dobbiamo fidarci del Papa. Solo per chi ha tempo libero sufficiente e studi adeguati.. Tutti gli altri possono benissimo continuare a obbedire al Papa senza la fatica di leggere...

Gesù_dormiente_nella_barca_-_Icona_russa
di Giovanni Marcotullio
Non vorrei scatenare alcuna zuffa mediatica, ma sento di dover prendere la parola in merito alle sterili polemiche in cui i cattolici si stanno dividendo in queste ore e in queste giornate. Ci vorrebbe una parola distesa e distensiva, chiara e chiarificatrice, e se ci penso troppo smetto subito di scrivere. Però io devo scrivere, e mentre sento l’esigenza bruciante di dire cose che mi vengono da dentro spero che avvenga il miracolo: che quanto brucia in me rinfreschi fuori di me, e che lo sdegno che mi si accende nelle ossa spenga i toni accesi delle voci che, per dirla con il Borromeo manzoniano (un altro vescovo modernista, a quanto pare), vorrebbero esortare «il generale ad avere paura».
Perché di questo si parla (fin troppo), e fa molta tristezza vedere che sono in preda al panico personaggî che in altre situazioni si erano già dimostrati calmi e lucidi, fiduciosi e quindi forti.
Il Papa starebbe smarrendo la bussola. Il Papa l’avrebbe smarrita da un pezzo. Addirittura Bergoglio, il Vescovo di Roma, non sarebbe mai stato Papa, perché Benedetto XVI avrebbe rinunciato all’episcopato romano soltanto, e non al papato. Oppure no, Bergoglio è Papa, e anzi il problema è proprio che i Papi sono due – cosa che ha certamente a vedere con la (prossima) fine dei tempi (lo suffragano anche svariate rivelazioni private!). Nessuna delle sciocchezze che ho elencato sopra, purtroppo, è priva di autore e – come esige lo spirito di contesa e di divisione – di seguaci, di partigiani, di zelanti divisori del corpo di Cristo. Ricostruire la storia di ognuna di esse sarebbe inutilmente lungo e non attiene a quanto mi preme dire qui; d’altro canto il loro elenco (lungi, purtroppo, dal potersi dire esaustivo) risulta utilmente ricapitolativo delle tendenze velatamente scismatiche ed ereticali che serpeggiano “en angeli lucis” tra i media – cattolici e non.
La mia tristezza si accresce quando vedo che accorti intellettuali cattolici sbandano reiteratamente, su questa pista, al punto da giungere a suffragare le proprie sciagurate prospettive con le letture di “intellettuali” dichiaratamente non credenti, e cui per ciò stesso manca l’orizzonte ermeneutico fondamentale della vita della Chiesa (che è la fede che spera e diventa fattiva nell’amore). «Ma perch’io non proceda troppo chiuso», come direbbe il Poeta, chiariamo che sto parlando di Antonio Socci e di Massimo Cacciari. E qui è subito necessario che io mi fermi, per sgombrare il campo da sospetti che risulterebbero tanto fastidiosi quanto inutili: nessuna ostilità, nemmeno la più piccola antipatia mi offusca la vista quando guardo a Socci e a Cacciari, che anzi considero menti acute e interlocutori di livello. Nessun problema, anzi, a dichiararmi subalterno a loro per cultura ed erudizione1, ma come dopo Elifaz, Bildad e Sofar osa prendere la parola anche il giovane Eliu (Iob 32-37), così faccio pure io, che spero di condividere con Eliu l’età e con Daniele (Dan 13) l’esito dell’intervento.
Quanto a Socci, in più, aggiungo alla stima e alla riverenza dovute alla sua già consueta acutezza anche l’affetto del correligionario e la cura che un membro del corpo di Cristo deve a un altro membro evidentemente piagato. Le sofferenze che hanno messo e mettono alla prova la sua vita sono note a tutti, per cui non è d’uopo che farvi cenno. Tale cura, del resto, può doversi esprimere nelle forme di una cauterizzazione, e so che su questo egli stesso sarebbe d’accordo con me – dal momento che è lui il primo a supporre di dover cauterizzare il capo della Chiesa visibile.
E tale cauterizzazione, che Socci dispensa appassionatamente da molti mesi ormai, trova il suo ultimo casus nella sofferenza di molte altre membra del corpo di Cristo, ossia i cristiani iracheni perseguitati dall’ISIS e costretti all’esodo. Proprio in seguito alla conferenza stampa rilasciata dal Santo Padre sul volo di ritorno da Seoul a Roma, l’altro ieri, Socci ha dato corso, sulla carta diLibero, alla sua vena più amara:
Prima, per settimane, un’evidente reticenza, quasi imbarazzo a parlarne. Perfino l’iniziativa di preghiera della Cei del 15 agosto scorso è stata passata sotto silenzio dal Papa che evidentemente ha in antipatia la Chiesa italiana. Ora, finalmente, dopo una ventina di giorni di massacri di uomini, donne e bambini, e dopo mille pressioni (anzitutto da parte dei vescovi di quella terra e dei diplomatici vaticani), papa Bergoglio si è deciso a pronunciare la fatidiche parole, sia pure in modo assai felpato: “è lecito fermare l’aggressore ingiusto”.
A questo duro J’accuse Socci era arrivato dopo aver commemorato la franca parresia di Caterina da Siena davanti al Papa e alla sua corte – è triste pensare che egli ardisca evidentemente di doverla emulare davanti a un novello Gregorio XI (o magari a un Leone X?) – e dopo aver lamentato come il servilismo dominante impedisca che uomini liberi (come lui, evidentemente) ardiscano di prendere criticamente la parola nel consesso ecclesiale. In un dolente amarcord richiama e converso le lettere adamantine con cui Giovanni Paolo II appoggiò la necessità di un intervento in Iraq…
Ma non c’è più Giovanni Paolo II e purtroppo nemmeno Benedetto XVI.
È difficile riconoscere nell’autore di queste parole l’ansiosa vedetta che annuncia al mondo i risvolti apocalittici di una chiesa con due Papi, ed è altrettanto difficile riconoscere nella romantica nostalgia per le dichiarazioni sprezzanti del pericolo il coinvolgente apologeta della causa di Pio XII (e dell’utilità fattiva del suo silenzio di copertura)2. Irriconoscibile, poi, è la penna di chi, in quello stesso articolo (di pochi mesi fa), promuoveva la benedettiana ermeneutica della continuità contro le letture discontinue del passaggio Pio XII-Giovanni XXIII3: si direbbe “una continuità a senso unico”, quella che presiede alle letture di Socci, ma non so quanto Gadamer troverebbe virtuoso un simile circolo ermeneutico.
E difatti la lettura dei fatti offerta da Socci risulta gravemente parziale, financo monca e sfigurata. Qualcosa del genere ha già detto mons. Toso:
Ha precisato [il Papa, n.d.r.] che l’ingiusto aggressore va fermato e ha fatto capire che il come ciò possa avvenire deve essere deciso non tanto da un solo Stato, quanto piuttosto dalla comunità internazionale. In sostanza, il Pontefice si è posto non solo nel solco della più recente Dottrina sociale della Chiesa, ma anche della comunità internazionale. Per risolvere i conflitti e le aggressioni ingiuste, è indispensabile riferirsi a regole comuni, rinunciando definitivamente all’idea di ricercare la giustizia mediante il ricorso alla guerra, muovendosi solitariamente e isolatamente. La Carta delle Nazioni Unite ha interdetto, lo sappiamo bene, non solo il ricorso alla guerra ma anche la sola minaccia di essa. Occorre, in sostanza, imboccare vie alternative: va cioè coltivata la multilateralità come via che offre maggiori garanzie di giustizia, anche nel caso che si debba attuare il principio di responsabilità di proteggere etnie e gruppi che sono minacciati di morte, come sta avvenendo in Iraq, da gruppi terroristici4.
Ma l’ha già detto, Socci: c’è tanto servilismo, in giro, tanta adulazione. Se non risparmia il Papa, che fiducia pregiudiziale dovrebbe avere per il Segretario del Pontificio Consiglio di Giustizia e Pace?
Cosicché viene amaramente da chiedersi se egli vuole salvare la faccia (propria) o la vita di quegli innocenti. Qual è infatti il modo per “fermare” una banda di assassini crudeli senza usare le armi? Cosa propone papa Bergoglio per “fermare” quei carnefici? Un tressette col morto? Un thè [sic!] con monsignor Galantino?
Sarcasticamente, invece, viene da chiedersi: ma come, il tè col Segretario della CEI! Ma non gli era “antipatica” la Chiesa italiana? Ma non c’è bisogno di amarezze ulteriori, a leggere gli argomenti sconnessi del già lucido intellettuale senese. E giù, Socci, a citare (con la sua “continuità a senso unico”) il domenicano spagnolo Francisco de Vitoria, e a richiamarlo dal cuore del XVI secolo senza usarci però la bontà di citarne anche solo uno stralcio. Ma non c’è bisogno, perché le citazioni arrivano, e sono (o sarebbero) ben più autorevoli di quelle di un teologo perso nella “Spagna di spada e di croce”: contro le elusive dichiarazioni bergogliane vengono branditi nientemeno che il Discorso all’ONU di Benedetto XVI e la Evangelium Vitae di Giovanni Paolo II. È vero che il “de bello iusto” è stato un caso scolastico ampiamente eviscerato (è il caso di dirlo) per secoli e secoli nelle facoltà teologiche, cattoliche e non. È pure vero che, se il rimprovero mosso a Papa Francesco era quello di non aver usato l’espressione “guerra giusta”, esso cadrebbe nel vuoto. O peggio, perché neanche Benedetto XVI, nell’occasione in cui ha ricordato “il principio della ‘responsabilità di proteggere’” (bellamente appulcrato da Socci nel proprio pezzo), ha mai usato l’espressione “guerra giusta”. Ha però usato la parola “guerra”:
Il discernimento, dunque, mostra come l’affidare in maniera esclusiva ai singoli Stati, con le loro leggi ed istituzioni, la responsabilità ultima di venire incontro alle aspirazioni di persone, comunità e popoli interi può talvolta avere delle conseguenze che escludono la possibilità di un ordine sociale rispettoso della dignità e dei diritti della persona. D’altra parte, una visione della vita saldamente ancorata alla dimensione religiosa può aiutare a conseguire tali fini, dato che il riconoscimento del valore trascendente di ogni uomo e ogni donna favorisce la conversione del cuore, che poi porta ad un impegno di resistere alla violenza, al terrorismo ed alla guerra e di promuovere la giustizia e la pace5.
Non solo, dunque, una Weltanschauung “saldamente ancorata alla dimensione religiosa” porterebbe – secondo Benedetto XVI – a resistere alla guerra e a promuovere la giustizia e la pace, ma gli organismi sovranazionali aiuterebbero – sempre secondo Benedetto XVI – a scongiurare il rischio che gli interessi di “singoli Stati, con le loro leggi ed istituzioni” conducano a “conseguenze che escludono la possibilità di un ordine sociale rispettoso della dignità e dei diritti della persona”.
Con Giovanni Paolo II gli è andata persino peggio, a Socci, in quanto oltre ad affermare il principio della legittima difesa come “grave dovere per chi è responsabile per la vita degli altri”6, e anzi ben prima di arrivare a questo (al n. 27), il Papa aveva dichiarato:
Tra i segni di speranza va pure annoverata la crescita, in molti strati dell’opinione pubblica, di una nuova sensibilità sempre più contraria alla guerra come strumento di soluzione dei conflitti tra i popoli e sempre più orientata alla ricerca di strumenti efficaci ma «non violenti» per bloccare l’aggressore armato. Nel medesimo orizzonte si pone altresì la sempre più diffusa avversione dell’opinione pubblica alla pena di morte anche solo come strumento di «legittima difesa» sociale, in considerazione delle possibilità di cui dispone una moderna società di reprimere efficacemente il crimine in modi che, mentre rendono inoffensivo colui che l’ha commesso, non gli tolgono definitivamente la possibilità di redimersi7.
Socci potrebbe dunque rivolgere le sue domande sarcastiche a S. Giovanni Paolo II stesso, perché le parole di Bergoglio, pur pronunciate a braccio sull’aereo, richiamano l’enciclica del 1995 con un’esattezza perfino impressionante. Per di più, la data ci ricorda pure che questa dichiarazione, magisteriale, seguiva di due anni quella del 1993, citata da Socci, che magisteriale non era.
Sembra dunque, in definitiva (seppure restando, come su un campione unico, a questo solo episodio della faida tra cattolici), che la “continuità a senso unico” pregiudichi seriamente la correttezza delle analisi di Socci. E solo la tristezza eguaglia lo stupore per un intellettuale che non vede la propria smentita negli stessi testi che cita.
Ma veniamo a Cacciari – e qui converrà essere più brevi (soprattutto visto che buona parte di quanto vale per Socci vale pure per lui) –: riportando sul suo blog l’articolo sopra citato, infatti, Socci aveva fatto precedere al proprio testo due righe estratte da un’intervista di Repubblica a Cacciari.
A chi però continua a dire o pensare – chiosa Socci – che sia un mio puntiglio, quasi frutto di un pregiudizio, segnalo anche l’intervista che oggi il filosofo Massimo Cacciari ha dato alla Repubblica. Le persone che riflettono colgono la realtà.
E segue una sintesi dell’intervista menzionata, composta di citazioni da essa tratte:
Si tratta di una svolta radicale nella teologia politica della Chiesa… ma questo è un bel problema… Francesco considera legittimo un intervento nella misura in cui viene deciso dall’Onu – siamo in presenza di una laicizzazione dell’idea cattolica di “guerra giusta”… La posizione di Francesco è fragilissima. La sua è una posizione che potrebbe sostenere un Renzi o una Merkel. Se mi permette, io dal Papa mi aspetto qualcosa di più, ossia che mi dica che bisogna intervenire sulla base di valori considerati assoluti8.
Si capisce a prima lettura che, stando alla sintesi operata da Socci, buona parte dell’argomentazione di Cacciari viene smontata sulla base delle stesse citazioni addotte poco sopra. In più stupisce molto che Cacciari accusi, in proprio, una diserzione del concetto di “giustizia”:
R. «Con quelle parole papa Francesco ha abbandonato completamente l’idea cattolica di “guerra giusta”. Quando io stabilisco che la guerra deve essere fondata sul diritto internazionale, il cui organo effettivo è rappresentato dalle Nazioni Unite, non ha più senso parlare di “guerra giusta”. La categoria di giusto non ha a che fare con il diritto positivo».
D. «Sta dicendo che il giusto ha a che fare con valori assoluti?».

R. «Ma certo. La dignità teorica e teologica della “guerra giusta” è fondata su valori assoluti e irrelativi, che non vengono decisi dalle Nazioni Unite».
E uno è tentato di dire che il discorso fila, e si stupisce al pensiero che il Papa abbia davvero potuto sostenere qualcosa del genere. Per fortuna il testo integrale della conferenza stampa è riportato per intero (senza scontare neppure i solecismi della lingua parlata). Lì si legge chiaramente che alla comunità delle nazioni spetta (unicamente) riconoscere il giusto e l’ingiusto, non “deciderli”:
Una sola nazione non può giudicare come si ferma questo, come si ferma un aggressore ingiusto. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, è stata l’idea delle Nazioni Unite: là si deve discutere, dire: «È un aggressore ingiusto? Sembra di sì. Come lo fermiamo?». Ma soltanto quello. Niente di più9.
Ciò che ora stupirebbe, di primo acchito, sarebbe l’ingenuità di un filosofo che non riconoscesse implicita (ma non per questo meno presente) l’idea di giustizia nell’aggettivo “ingiusto”, che il Papa usa largamente (citando, come s’è visto, gli esiti più maturi della dottrina sociale della Chiesa). Ma Cacciari non è un ingenuo, e sarebbe un’ingenuità il ritenerlo tale. Per un istante, l’ingenuità e il buonsenso, nonché una lodevole preparazione, hanno la meglio nella giornalista (è straordinario che io mi trovi a elogiare una firma di Repubblica), che ha osservato:
Anche Wojtyla aveva sostenuto negli anni Novanta la necessità dell’intervento militare come extrema ratio. E davanti all’assedio di Sarajevo usò la stessa formula di Francesco: «Fermiamo gli aggressori ingiusti».
La replica di Cacciari avrebbe dell’imbarazzante, come se non volesse/potesse capitolare davanti alla critica di ciò che per lui sembra essere un assunto non passibile di smentita da parte dei fatti:
Ma la sua era ancora un’idea tradizionale di “guerra giusta”. Wojtyla è stato l’ultimo grande papa medioevale, che ha chiuso un secolo straordinario. La sua storia appartiene alle tragedie del Novecento. È stato il papa che ha sfidato l’impero comunista. Francesco è il papa gesuita che percepisce con grande realismo il tramonto dell’Occidente. E teme che il conflitto iracheno possa rendere difficile l’evangelizzazione soprattutto in quelle zone.
Fallita la dimostrazione, Cacciari si dà alla suggestione: affermazioni non suffragate da alcunché, aggettivi e sostantivi roboanti (“straordinario”, “tragedie”), e poi un ultimo grande gioco di prestigio prima dell’unica affermazione ragionevole – che il conflitto possa rendere difficile l’evangelizzazione in loco10 –: «Francesco è il papa gesuita che percepisce con grande realismo il tramonto dell’Occidente». È vero, Francesco l’ha scritto senza mezzi termini:
Sebbene sia vero che alcune culture sono state strettamente legate alla predicazione del Vangelo e allo sviluppo di un pensiero cristiano, il messaggio rivelato non si identifica con nessuna di esse e possiede un contenuto transculturale. Perciò, nell’evangelizzazione di nuove culture o di culture che non hanno accolto la predicazione cristiana, non è indispensabile imporre una determinata forma culturale, per quanto bella e antica, insieme con la proposta evangelica. Il messaggio che annunciamo presenta sempre un qualche rivestimento culturale, però a volte nella Chiesa cadiamo nella vanitosa sacralizzazione della propria cultura, e con ciò possiamo mostrare più fanatismo che autentico fervore evangelizzatore. [EG 117]
Lo ha opportunamente ricordato, giusto ieri, una brillante Stefania Falasca su Avvenire. Anche a lei però – o forse più giustamente al/la titolista del suo pezzo – si può rimproverare di aver cercato il sensazionalismo facile (così di moda, quando si scrive su Francesco…), in quanto sarebbe ingiusto considerare Francesco l’artefice dell’archiviazione dell’equazione “cristiani=occidente”11. Per chi conosca un minimo la storia del dogma cristiano (e della Chiesa) sarebbe difficile trovare un documento magisteriale che sostenga con peso e fermezza una simile equazione12, ma se si volesse a tutti i costi dedicare un titolo di giornale a un “archiviatore”, questo titolo andrebbe dedicato a Benedetto XVI. Proprio lui, che porta il nome di una delle radici più profonde dell’Occidente, proprio lui è l’archiviatore di quella equazione mai veramente esistita. O chi è stato che, appena eletto, ha dato disposizione che tra i titoli “tradizionali” riservati al Vescovo di Roma non comparisse più quello di “Patriarca d’Occidente”13? E perché mai lo avrebbe fatto? Risponde soltanto una (laconica) nota del Pontificio Consiglio per l’Unità dei Cristiani:
Attualmente il significato del termine «Occidente» richiama un contesto culturale che non si riferisce soltanto all’Europa Occidentale, ma si estende dagli Stati Uniti d’America fino all’Australia e alla Nuova Zelanda, differenziandosi così da altri contesti culturali. Ovviamente tale significato del termine «Occidente» non intende descrivere un territorio ecclesiastico né esso può essere adoperato come definizione di un territorio patriarcale. Se si vuole dare al termine «Occidente» un significato applicabile al linguaggio giuridico ecclesiale, potrebbe essere compreso soltanto in riferimento alla Chiesa latina. Pertanto, il titolo «Patriarca d’Occidente» descriverebbe la speciale relazione del Vescovo di Roma a quest’ultima, e potrebbe esprimere la giurisdizione particolare del Vescovo di Roma per la Chiesa latina. Di conseguenza, il titolo «Patriarca d’Occidente», sin dall’inizio poco chiaro, nell’evolversi della storia diventava obsoleto e praticamente non più utilizzabile. Appare dunque privo di senso insistere a trascinarselo dietro14.
L’equivalenza ecclesiastica, storicamente fondata, tra cristianesimo e Occidente, vale dunque unicamente per la chiesa latina, la quale è ben lungi dall’identificare in sé l’intero mistero della Chiesa Cattolica, in cui sussiste – secondo le parole della Costituzione Dogmatica Lumen Gentium –
l’unica Chiesa di Cristo, che nel Simbolo professiamo una, santa, cattolica e apostolica e che il Salvatore nostro, dopo la sua resurrezione, diede da pascere a Pietro (cfr. Gv 21,17), affidandone a lui e agli altri apostoli la diffusione e la guida (cfr. Mt 28,18ss), e costituì per sempre colonna e sostegno della verità (cfr. 1 Tm 3,15)15.
Ma tutto questo ci porta un po’ fuori dal nostro argomento, rientriamo dunque nel seminato. Com’è che si fa carico a Francesco, e in forma di forte biasimo, di un “merito” che, semmai, va attribuito a Benedetto XVI? Ed è stato un colpo di testa, quello di Benedetto, quanto al “Patriarcato d’Occidente”? La questione non può essere qui dibattuta, ma nessuno avrà scordato la grande lezione che nel 2004 l’ancora cardinal Ratzinger diede ad Ernesto Galli Della Loggia, il quale cercava di trascinare il porporato tedesco su posizioni che si direbbero “teocon”. Vale la pena richiamarne un assaggio:
La Chiesa sostanzialmente non può riconoscersi nella categoria “occidente”. Sarebbe sbagliato storicamente, empiricamente, ideologicamente.
Storicamente, sappiamo che il cristianesimo è nato nell’incrocio di Europa, Asia e Africa, e questo indica anche qualcosa della sua essenza interna. È nato in un incontro delle culture come capacità, possibilità e sfida di una sintesi delle culture e come possibilità di trascendere le culture in qualcosa che è l’essere umano come tale e che precede e trascende le culture. Ai suoi inizi, l’espansione del cristianesimo andava ugualmente a oriente, verso Cina, India, Persia, Arabia, e a occidente. Purtroppo, dopo la nascita dell’islam gran parte di questa cristianità orientale è scomparsa. Ma non del tutto, perché esistono elementi di queste cristianità storiche che testimoniano la sua universalità, e anche la cristianità europea si divide in occidentale e orientale. Quindi l’estensione della Chiesa riferita alla nostra cultura è molto grande e si dettaglia in diverse culture.
Empiricamente, non solo abbiamo questa grande eredità storica, ma il cristianesimo è presente, con minoranze di forza spirituale riconosciuta, in tutti i continenti. Sempre più l’asse della cristianità si sposta verso i nuovi continenti, verso Africa, Asia, America latina. L’Europa è ancora una fonte essenziale per lo sviluppo del cristianesimo, tuttavia comincia a emarginarsi proprio con la discussione sulla sua identità.
Teologicamente, perché la Chiesa, per sua essenza, dovrebbe trascendere le culture, essere il fatto che non è legato a una cultura determinata ma aiuta l’esodo dal carcere di una cultura e la comunicazione delle culture. È quanto gli Atti degli Apostoli dicono sul giorno di Pentecoste, sulla presenza di tutte le culture conosciute e di tutte le lingue. È come la carta costituzionale che indica come dovrebbe essere l’essenza di una Chiesa che parla in tutte le lingue, abbraccia, unisce le culture e allo stesso tempo ne rispetta le diverse ricchezze. Non è un comportamento politico dettato dal bisogno di non perdere la simpatia per la Chiesa in Africa, Asia o America latina, ma è un comportamento teologico. La Chiesa non può riconoscersi semplicemente come occidente, ma deve sempre di nuovo trascendere la sua definizione occidentale e estendersi realmente verso l’universalità, soprattutto trascendendo se stessa verso il divino, che è l’unica realtà che può creare una comunicazione delle culture. È vero, a volte la Chiesa si comporta in modo politico, ma è anche giusto che avvenga16.
Difficile vedere delle reali distanze (se non appena terminologiche) tra questa lucida sintesi e i passi della Evangelii Gaudium di Francesco citati sopra (e in nota). Restano da capire due cose, e non presumo di poter fare altro che porre queste due domande: la prima riguarda l’ermeneutica della “continuità a senso unico”, che credo di aver visto e mostrato in Socci (ma valga come eponimo, ce ne sono tanti che fanno come lui, e senza il suo pathos). La seconda riguarda l’incredibile ingenuità di personaggî come Cacciari (e Galli Della Loggia – ma continuiamo a prenderli per eponimi), ovvero il fatto che non si può credere che essi siano ingenui come sembrano.
Quanto alla prima domanda, confesso che per me resta la più misteriosa, benché semplice: opto rapidamente per la nostalgia dell’Arcadia, di un tempo (mai esistito) in cui la verità “era più vera e più chiara”, «quando Berta filava…», i Papi facevano il loro vero mestiere e il gelato sapeva davvero di latte. Eppure mi resta oscuro il perché… perché un uomo che ha incontrato e ri-conosciuto il Cristo, da cui si è scoperto conosciuto e amato… perché costui dubita della sua fedeltà e perde con la docilità e l’obbedienza (quell’atteggiamento portante della psicologia e dell’intera persona del Figlio di Dio) la serena sicurezza che “non praevalebunt”.
La seconda è più complessa ma pure più facile quanto alla via di una possibile risposta: perché dei non credenti potrebbero mai interessarsi tanto a come la Chiesa dei cristiani vede se stessa e il mondo? Perché sono uomini di buona volontà, forse, e magari anche in ricerca personale. Senza dubbio, è possibile. Eppure l’ultima risposta di Cacciari alla giornalista di Repubblica merita un momento di attenzione in più. Ribatte secco alla sua domanda sull’accenno del Papa alla terza guerra mondiale, quasi si fosse stancato della conversazione (non è infrequente, con Cacciari). Poi riprende l’argomento, e lo chiude, con un riferimento a un argomento che lo appassiona da decennî:
Però il pontefice ha voluto avvertirci: guardate che le guerre stanno dilagando, non possiamo assistere impotenti alle stragi quotidiane. Manca il katéchon, la forza per tenere a freno stermini e genocidi. Il Papa si richiama a questa forza.
“Papa” e “katéchon” sono parole che già altre volte, in altre interviste (divenute celebri), Cacciari ha pronunciato in un’unica frase. «Era un giorno del settembre del 1993» scrive Maurizio Blondet nella prima pagina de Gli Adelphi della dissoluzione17 – i libri di storia ricordano che i bombardamenti in Iraq c’erano stati già in estate. «Il Papa deve smettere di fare il katéchon!». E subito dopo spiegava allo stupefatto interlocutore:
Katéchon è Ciò-che-trattiene […]. Ciò che trattiene l’Anticristo dal manifestarsi pienamente18.
E l’ancor più stupefatto Blondet si chiedeva:
Come si può chiedere al Papa di non opporsi al male? Mi domandai anche: perché Cacciari desidera accelerarel’avvento dell’Anticristo?19
Ora, in questa sede non possiamo trattenerci oltre su questo punto, ma il richiamo a Blondet, data l’analogia di una intervista in merito al Papa e alla guerra, ci serve a rilanciare delle domande. Cosa è cambiato, dal 1993 al 2014? Certo, l’11 settembre, Bin Laden e mille altre cose, a cominciare dai Papi. Cacciari dice che allora era Vescovo di Roma “l’ultimo grande papa medievale”, ma quanto a parole e fatti s’è visto che quello attuale ripercorre fedelmente – checché ne dicano i varî Socci e gli strilloni di Repubblica – le dottrine e le linee-guida dei suoi predecessori (seppure con le variazioni del caso). Dunque cosa è cambiato? Giovanni Paolo II ammise l’uso della forza in Iraq come extrema ratio, e con ciò stava facendo il katéchon (?); Francesco demanda alla società delle Nazioni la responsabilità di intervenire in Iraq per “fermare l’aggressore ingiusto”, e con ciò manca ilkatéchon (?). E perché mai? E se manca il katéchon, Cacciari è dunque finalmente soddisfatto? Dovrebbe esserlo, se la manifestazione piena dell’Anticristo è praticamente iniziata…
Un momento, ma queste sono le tesi farneticanti di Socci (valga per eponimo, c.s.). E come si può ammettere che Cacciari non fosse avveduto delle flagranti contraddizioni in cui cadeva il suo argomento – se n’è accorta anche la giornalista di Repubblica (!)? Non sarà piuttosto che quell’analisi approssimativa e volutamente confusa avrà avuto un altro scopo – magari quello di disorientare quanti, sulla barca di Pietro, sono già per altro inclini al panico? Certamente, aumentando la discordia e le sconnessioni tra le membra del corpo di Cristo, il katéchon – ossia l’argine che la stessa Chiesa, «come sacramento universale di salvezza»20, oppone al dilagare del mysterium iniquitatis – rischia di veder ridotta la sua efficacia, e la Rivelazione pubblica di Dio non lo nasconde: l’Anticristo si manifesterà e sembrerà prevalere, pur essendo destinato alla sconfitta finale.
Ma non sarà, dicevo, che le analisi improbabili di Cacciari (valga per eponimo, c.s.) intendano per l’appunto contribuire culturalmente a produrre quel fenomeno che, stando alle cose stesse, non sembra sussistere?
C’è sempre qualcuno in agitazione, sulla barca di Pietro. C’è sempre stato. Fin da quella notte sul mare di Galilea ingrossato (Mc4, 35-41). C’è sempre qualcuno che corre verso poppa a preoccuparsi che Dio faccia il suo lavoro. Ed effettivamente basta il soffio delle Sue labbra per placare l’insondabile instabilità del mare. Ma l’esperienza non finisce lì:
Perché siete così paurosi? Non avete ancora fede?
Di fatto Gesù continuò a porsela, la domanda, anche pensando al proprio ultimo avvento (Lc 18, 8).
Ma la pose perché qualcuno tornasse a poppa a “svegliarlo”?
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Post scriptum: in devoto tributo ai tanti cristiani perseguitati per la loro fede, i quali vengono perciò chiamati “confessori della fede” (e pure in ossequio ai tanti non cristiani che sono loro compagni nella persecuzione – di cui la Chiesa si occupa amorosamente ogni giorno nella divina liturgia), riporto le parole del Papa circa i martiri di Corea (spero che Socci non le trovi fuori luogo per i martiri di Iraq). In esse risplende l’alta e dolorosa gloria che la Chiesa trae dallo scontro storico tra il mistero dell’iniquità e «coloro che seguono l’Agnello ovunque egli vada» (Apoc 14, 4).
Ho pensato tutto questo. La dignità che loro hanno e anche quanto hanno sofferto, no? E la sofferenza è un’eredità. Noi diciamo … i primi Padri della Chiesa dicevano che il sangue dei martiri è seme di cristiani. Voi coreani avete seminato tanto, tanto. E per coerenza, no? Si vede adesso il frutto di quella semina dei martiri.



1 Lo stesso valga per analoghi intellettuali che condividono le loro tesi, come i noti Gnocchi e (il compianto) Palmaro.
2 «Quello che Pio XII – con la sua Chiesa – fece per salvare la vita a tanti ebrei braccati e minacciati di sterminio non ha eguali» (http://www.antoniosocci.com/2013/09/i-lati-sconosciuti-di-papa-giovanni-e-wojtyla/).
3 «Paolo VI […] introdusse contemporaneamente le cause di beatificazione di Roncalli e di Pio XII, sempre per far capire che non si poteva contrapporre papa Giovanni ai predecessori» (ibid.).
6 Al n. 55. È una citazione dal Catechismo della Chiesa Cattolica (2265), di poco precedente l’Enciclica e alla cui stesura aveva lavorato non poco l’allora cardinal Ratzinger.
10 Ragionevole, sì, ma iuxta modum: proprio perché l’evangelizzazione è anzitutto opera di Dio, di Cristo e del suo Spirito, mentre si assume la necessità di ogni sforzo umano per facilitare la diffusione dell’evangelo, si accoglie la sicura eventualità, annunciata da sempre, che essa passerà, che dovrà passare per il mistero pasquale di Cristo. Così lo ha scritto Francesco: «Dal cuore del Vangelo riconosciamo l’intima connessione tra evangelizzazione e promozione umana, che deve necessariamente esprimersi e svilupparsi in tutta l’azione evangelizzatrice. L’accettazione del primo annuncio, che invita a lasciarsi amare da Dio e ad amarlo con l’amore che Egli stesso ci comunica, provoca nella vita della persona e nelle sue azioni una prima e fondamentale reazione: desiderare, cercare e avere a cuore il bene degli altri» (178). E prima aveva già detto: «L’evangelizzazione è compito della Chiesa. Ma questo soggetto dell’evangelizzazione è ben più di una istituzione organica e gerarchica, poiché anzitutto è un popolo in cammino verso Dio. Si tratta certamente di un mistero che affonda le sue radici nella Trinità, ma che ha la sua concretezza storica in un popolo pellegrino ed evangelizzatore, che trascende sempre ogni pur necessaria espressione istituzionale» (111). Quanto alla difficoltà che una guerra pone allo Spirito di Dio, si ricorderà, anche l’esperto Berlicche aveva messo in guardia il giovane Malacoda da facili entusiasmi…
12 Anche i teologi carolingî – pungolati da un cocente senso di inferiorità di fronte all’Impero d’Oriente, ben più antico (e legittimo) del nascente Sacro Romano Impero – dovevano pur sempre fare i conti con la maestà che la grande Irene dispiegava nel far canonizzare la dottrina damascena dell’iconodulia contro gli iconoclasti. E Leone III non si mostrava entusiasta dei loro tentativi di emulazione (quali l’innesto del Filioque nel simbolo niceno-costantinopolitano)…
13 Cf. Annuario Pontificio del 2006.
15 Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione Dogmatica sulla Chiesa Lumen Gentium, 8.http://www.vatican.va/archive/hist_councils/ii_vatican_council/documents/vat-ii_const_19641121_lumen-gentium_it.html.
16 Ernesto Galli Della Loggia, Joseph Ratzinger, Storia, politica e religione. Testo completo del dibattito:http://www.totustuus.it/modules.php?name=News&file=article&sid=834.
17 M. Blondet, Gli Adelphi della dissoluzione, Ares, Milano 1994, 5.
18 Ibid.
19 Ivi, 6.
20 Lumen Gentium 48.