martedì 5 agosto 2014

6 agosto. Trasfigurazione del Signore



In quel tempo, Gesù prese con sé Pietro, Giovanni e Giacomo e salì sul monte a pregare. Mentre pregava, il suo volto cambiò d’aspetto e la sua veste divenne candida e sfolgorante. Ed ecco, due uomini conversavano con lui: erano Mosè ed Elìa, apparsi nella gloria, e parlavano del suo esodo, che stava per compiersi a Gerusalemme.
Pietro e i suoi compagni erano oppressi dal sonno; ma, quando si svegliarono, videro la sua gloria e i due uomini che stavano con lui.
Mentre questi si separavano da lui, Pietro disse a Gesù: «Maestro, è bello per noi essere qui. Facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elìa». Egli non sapeva quello che diceva.
Mentre parlava così, venne una nube e li coprì con la sua ombra. All’entrare nella nube, ebbero paura. E dalla nube uscì una voce, che diceva: «Questi è il Figlio mio, l’eletto; ascoltatelo!».
Appena la voce cessò, restò Gesù solo. Essi tacquero e in quei giorni non riferirono a nessuno ciò che avevano visto.
 (Dal Vangelo secondo Luca 9, 28-36)




"Non sapeva quello che diceva": come Pietro con i tre apostoli sul Monte Tabor all'entrare nella nube, anche noi restiamo sovente infilzati a uno stupore pieno di paura; essa ci attanaglia di fronte all'abisso della nostra debolezza, dell'assoluta inadeguatezza, quando la verità ci si spalanca dinanzi e ci lascia di sasso. Quando appare nitida la sproporzione tra quello che dovremmo essere e quello che realmente siamo. Madri, padri, preti, assolutamente impreparati, infarciti di debolezze e peccati. Incoerenti e pieni di contraddizioni, sbigottiti nella paura che ha intontito i tre discepoli alla vista del loro Maestro trasfigurato. Una luce improvvisa, mai vista, lo sfolgorare d'una vita inattesa, proprio lì, da dentro la carne del loro amico. 

Uno squilibrio, un miracolo, s'era dato di nuovo il prodigio di quel giorno quando, sul Sinai, il Santo consegnò a Mosè la Torah. Il cielo era sceso sulla terra, avevano visto Dio, ed erano rimasti vivi. E allora, spontaneo, sorge in Pietro il desiderio di issare subito tre tende, per coagulare quel momento prodigioso e così bello nella precarietà della vita; proprio come nella festa di Succot, quando si preparano le capanne, le tende come segno della permanenza del popolo nel deserto. Dalla stessa "nube" che aveva guidato gli israeliti durante i quarant'anni dell'Esodo, la voce del Padre ripete agli Apostoli quello che aveva annunciato nel deserto: "Questi è il Figlio mio, l’eletto; ascoltatelo!". 

Tra una mormorazione e l'altra, tra le maglie di una debolezza infinita, ogni ebreo aveva fatto l'incomparabile esperienza di poter (e dover) vivere del solo cibo della Parola di Dio, capace di trasformare la roccia in acqua. E quel cibo ora risplendeva nella carne trasfigurata di Gesù. Pietro, attento ai segni come ogni buon ebreo, aveva saputo riconoscere in quell'evento il compimento dell'Esodo del suo Popolo; su quel Monte Dio aveva di nuovo parlato, ed era di una "bellezza" mai contemplata. Era "bello" quel momento, era "bello" starci dentro, era "bella" anche la precarietà, l'infinita distanza tra l'uomo e Dio, perché in Gesù essa era colmata, e benedetta: per questo Pietro non sapeva e non poteva dire altro che di fare tre tende per estendere a tutta l'esistenza la "bellezza" di quel momento; tre tende per entrare ogni giorno nella precarietà strappata al timore, nella debolezza circonfusa di luce, nella carne redenta dall'incorruttibilità. 

Sul Tabor era accaduto quello che appare nelle icone orientali, la cui luce si diffonde dal centro del dipinto, ti attira e ti mette immediatamente in comunione con il soggetto, facendoti suo interlocutore in virtù dello squarcio di luce che ti raggiunge. Non a caso il primo soggetto che devono dipingere gli iconografi è proprio la Trasfigurazione: "La contemplazione delle icone, e in genere dei capolavori dell'arte cristiana, c'introduce in un percorso interiore, che è la via del superamento, e in questa purificazione dello sguardo, che è purificazione del cuore, ci di svela la bellezza, o almeno qualche suo raggio. E la bellezza ci mette in relazione con la forza della verità" (Joseph Ratzinger). Il percorso che siamo chiamati a compiere è, dunque, quello della contemplazione, che si dà nell'ascolto e nella visione concreti di un'esperienza. Sperimentare il perdono, la riconciliazione, la possibilità di ricominciare come una persona nuova, è questa la bellezza che rivela la forza della verità, la forza di Cristo, amore puro, amore infinito, amore bello.

Nell'episodio della Trasfigurazione è svelato, dunque, come una profezia, il miracolo più grande, immagine della vittoria sulla morte che di lì a poco Gesù avrebbe compiuto "nell'esodo di cui discorreva con Mosè ed Elia". La Legge e i Profeti lo avevano annunziato in varie forme, la luce della Pasqua avrebbe brillato nelle tenebre del sepolcro. Lo splendore della vita immortale, la bellezza di Cristo crocifisso e risorto si svelava così, già sul monte Tabor, attraverso la Parola annunciata e ascoltata dai Tre protagonisti di quell'evento unico: Cristo trasfigurato appare sempre nella stoltezza dell'annuncio. Proprio i
l Vangelo, infatti, è la Trasfigurazione, la Buona notizia che ha messo in cammino Abramo verso una terra che non conosceva, qualcosa di assolutamente nuovo, un pezzo di paradiso, la terra promessa qui sulla terra delle lacrime. Il Vangelo è la luce purissima dell'eternità nella carne votata alla morte. 

E' quello che accade nella Chiesa, durante la liturgia e quando viene predicato il Vangelo; essa è il Monte Tabor ove alcuni prescelti misteriosamente, tu ed io come "Pietro, Giovanni e Giacomo" che "Gesù prese con sé", sono chiamati a salire per contemplare la propria vita trasfigurata. E' inutile chiedersi perché tu e non tuo cugino, forse molto più onesto e coerente di te; è un fatto, Gesù sceglie tre tra dodici, e a loro, testimoni di altri segni speciali, rivela per tutti il Destino che tutti attende. Testimoni della Trasfigurazione del Signore ne riverbereranno sulle strade di ogni giorno la luce pasquale nel povero vaso di creta della loro persona, magari con un carattere insopportabile, con mille difetti, ma raggiunta dalla vittoria di Cristo che ne ha fatto una profezia del Cielo. 

Così abbiamo visto che, grazie al potere del Vangelo che ci è stato predicato quel giorno, il nostro matrimonio è stato salvato e ora profuma di Cielo pur tra le pesantezze e le contraddizioni della terra; o come quando in virtù di una confessione che ha toccato il nostro cuore, è sparito il rancore e ci siamo riconciliati con quel parente che avevamo cancellato; o in quella celebrazione dell'eucaristia nella quale siamo entrati chiusi alla vita, preoccupati dei soldi e della salute, e ne siamo usciti trasformati al punto di donarci alla volontà di Dio, e oggi, testimone di quella trasfigurazione della nostra povera carne, è questo bimbetto di quattro anni, che senza il Tabor non sarebbe mai venuto al mondo.

Tutto di noi ci parla di fine, di ineluttabilità, di morte. Prima o poi scenderà la saracinesca sul lavoro, sulla famiglia, sulla nostra stessa vita. E' la realtà alla quale tentiamo di sfuggire e che si ripresenta ad ogni angolo della nostra esistenza. La vita di ogni uomo, infatti, è un "andare a Gerusalemme". Le tende che Pietro, a nome di tutta la Chiesa, voleva costruire, erano la profezia della Croce che lo Spirito Santo gli aveva ispirato. Esse ricordano il cammino che la comunità dei redenti ha da percorrere: nonostante il prodigio contemplato, non è il Tabor la meta, ma Gerusalemme. Non è la Chiesa pellegrina sulla terra il nostro Destino, ma quella Celeste, la Gerusalemme di lassù, libera per l'eternità. 

I segni che il Signore ha compiuto per noi, e quelli che compirà oggi e ogni giorno che ci attende, non sono il capolinea verso il quale è diretta la nostra vita. Per questo non possiamo far dipendere da essi la nostra felicità: vi sono giorni, mesi, forse anni nei quali l'unico segno che ci è dato è quello di Giona, una croce da portare e fauci di balena a nasconderci: una lunga malattia, un figlio che si perde nella droga, un lavoro precario e sottopagato, uno sfratto incombente, o un aspetto del nostro carattere che ci umilia dinanzi a tutti. Le "tende" della precarietà che custodivano il Popolo nel deserto, mentre si avviava alla Terra Promessa. 

Come accade nella liturgia, i segni che lasciano trasparire vivida e pura la luce celeste nella nostra carne, ci indicano e sigillano nell'intimo la Patria per la quale siamo nati; sarebbe stolto fermarsi in essi e farne l'assoluto dell'esistenza: sarebbe come fermarsi sul sentiero che ci conduce alla sommità di una montagna, solo perché in quel punto se ne intravvede la sfolgorante bellezza. Non può saziarci la visione, seppure autentica, reale e da togliere il fiato. Eppure ci accade spesso di voler stringere tra le mani quella luce mai vista, quando, felici per un segno che ci è stato donato, ne vorremmo immediatamente degli altri, con cui saziare la fame di certezze e di pace, nelle relazioni e negli eventi, per trasformare il cammino che ci attende e che costituisce l'essenza della nostra vita, in un sofà comodo su cui sprofondare: "«Tutte le immagini non mi fanno bene, non posso nutrirmi se non della verità. Per questo non ho mai desiderato visioni. Non si possono vedere, sulla terra, il Cielo, gli Angeli tali quali sono, preferisco aspettare dopo la morte» (S. Teresa di Lisieux, Novissima verba, 5 agosto). La piccola Teresa non cercava nel Tabor la sua dimora; per lei non v'era altro cammino che la "piccola via" dell'amore confidente e audace che la faceva abbandonare alle braccia spalancate di Cristo Crocifisso. Suo nutrimento, nella "tenda" della carne, era la Parola che si faceva preghiera e offerta di se stessa; sua dimora terrena, le piaghe crocifisse di Cristo.

Ed è proprio nel cammino che ci conduce alla Croce che l'annunzio del Vangelo apre il cielo della Verità: ogni giorno la "nube" della "presenza - shekinà" di Dio ci attira e ci "copre con la sua ombra", come si è adagiada sulla Vergine Maria generando in Lei il Figlio di Dio, Colui che avrebbe vinto la morte. Il Padre ci ha donato il seme della vita eterna, lo Spirito Santo effuso dal Signore risorto, la sua stessa vita che risplende nella Parola del Vangelo. Ogni giorno, dalla nube che ci fa "paura" perché vi si respira un'aria che i nostri polmoni non possono accogliere senza stordimento, il Padre ci indica "il suo Figlio eletto" e ci invita ad "ascoltarlo": "Shemà Israel, Ascolta Israele!". Solo l'ascolto della sua Parola, l'obbedienza alla predicazione, dilata i polmoni dell'anima, la mente e il cuore per accogliere l'aria rarefatta della nube di Dio, e in essa oltrepassare, giorno dopo giorno, i vincoli e i limiti della carne che vorrebbero imporsi in ogni situazione. Ascoltare è amare l'unico Dio con tutta la mente, tutto il cuore e tutte le forze, l'unico cammino che conduce alla Vita eterna nella storia di ogni giorno, quando restiamo "soli con Gesù" come gli Apostoli al termine della Trasfigurazione. Ascoltare per vivere nell'amore che ci fa cittadini del Cielo mentre dimoriamo sulla terra. 

La nostra vita trasfigurata, infatti, è una vita evangelizzata, illuminata dalla Buona notizia. Il Vangelo annunciato nel paradosso delle nostre debolezze e inadeguatezze. Nel parallelo del Vangelo di Matteo, Gesù dice ai discepoli: "Alzatevi, non abbiate paura". Il suo amore brilla esattamente nella nostra più totale debolezza, la luce della vita immortale risplende in noi dalla ferita più infamante, il suo perdono dov'è abbondato il peccato. "Alzatevi!", infatti, è lo stesso verbo usato a proposito della resurrezione: ci si può rialzare solo se caduti, risuscitare solo se morti. 

La presenza di Gesù nella nostra vita, sottolineando la nostra natura ferita e concupiscente, illuminando anche i peccati su cui vorremmo sorvolare, ci rivela che l'insoddisfazione, la paura e la frustrazione che sperimentiamo, sono accenni alla morte che incombe in noi come salario del peccato. Ma, proprio situandoci nella verità, simboleggiata nel "sonno" che "opprimeva" i tre apostoli, incapaci di sostenere nella carne l'infinito di Dio, Gesù ci tende la sua mano di misericordia per attirarci nella sua trasfigurazione. Non è fuggendo o sperando di saziarci dei segni o sforzandoci per cambiare noi stessi e il mondo che gusteremo la felicità autentica; essa è, invece, un dono della Grazia di Dio che si nasconde nelle ferite gloriose della Croce.

E' questa la notizia che aspetta ogni uomo, capace di trasfigurare in una luce di Pasqua anche l'esistenza più compromessa. La notizia che strappa dalla morte e trasfigura il volto e il cuore del peccatore più incallito. Oggi, e ogni giorno, il Vangelo è la salvezza, è la Vita, è la bellezza. E' vero che il Signore ha salvato il nostro matrimonio, ma è altrettanto vero che esso continua ad essere ferito dalle nostre debolezze, precario e vivo solo in virtù della fedeltà di Dio. "E' bello stare con il Signore", proprio come diceva Pietro, e noi, nell'esperienza della Pasqua, possiamo ripeterlo e annunciarlo, perché stiamo imparando che la via alla Gloria deve passare per la Croce, dallo scorrere delle lacrime che purificano, perché di compunzione, di tenerezza e di stupore; le lacrime che sgorgano dalla "pietra" del cuore squarciata nell'incontro con un amore così grande, così bello, così infinito. 

Dice sant'Efrem: "Un volto lavato da tali lacrime è di una bellezza imperitura". E' bello davvero stare con Gesù, anche in questa tenda che è la nostra carne, con le sue debolezze, con le pesantezze di ogni giorno. E' bello stare con Lui, dimorare nel suo amore, pellegrini e stranieri su questa terra, cercando e desiderando la Patria celeste, il luogo che Lui ci ha preparato. Essa è la tenda eterna, non fatta da mano d'uomo, la vita che non muore, trasfigurata eternamente, appoggiata solo a Cristo, che cammina con noi sin dentro le angosce più profonde, ma che ci infonde il suo Spirito, aria purissima che solo in Cielo si può respirare: "L’Onnipotente diede ai santi come punto d’appoggio se stesso e solo se stesso. Appoggiata senza alcun appoggio... Innalzata più in alto di me stessa non ho altro appoggio che il mio Dio" (Santa Teresa di Lisieux).

Comprendiamo così quale sia il cammino al quale siamo chiamati: quello di un pellegrino che compie l'esodo che lo conduce alla Terra promessa, la Vita eterna con Cristo. Un cammino impregnato di nostalgia, costellato di precarietà e debolezza, ma colmo di speranza sigillata dallo Spirito Santo che spinge a "scavalcare le mura" che mondo, carne e demonio ci issano dinanzi; il cammino di coloro che hanno il cuore ferito dall'amato: "...esseri umani che nutrono in sé un desiderio tanto possente che supera la loro natura, che bramano più di quanto all'uomo sia lecito attendersi, costoro sono stati feriti dallo Sposo, che ha colpito i loro occhi con un raggio della sua bellezza. L'ampiezza della ferita rivela quale sia lo strale, l'intensità del desiderio lascia intuire chi abbia scoccato il dardo» (Cabasilas). 

Questa intuizione è l'esperienza della Trasfigurazione che ci attende ogni giorno. E' vero che seguire il Signore è essere con Lui crocifissi. E' vero che ad ogni passo le stigmate del dolore ci trapassano il cuore. E' vero il male, è vero il peccato, è vera la morte. Ma è vera anche la Trasfigurazione di tutto, è vera la bellezza che supera e dà senso ad ogni cosa: "Nella passione di Cristo... l'esperienza del bello riceve una nuova profondità, un nuovo realismo. Colui che è la "Bellezza in sé" si è lasciato percuotere sul volto, coprire di sputi, incoronare di spine: la sacra Sindone di Torino ci racconta tutto ciò in maniera toccante. Ma proprio in quel volto sfigurato appare l'autentica, estrema Bellezza dell' Amore che ama "sino alla fine", mostrandosi così più forte di ogni menzogna e violenza. Soltanto chi sa cogliere questa bellezza comprende che proprio la verità, e non la menzogna, è l'estrema "affermazione" del mondo... Ma ad una condizione: che assieme a Lui ci lasciamo ferire, fidandoci di quell' Amore che non esita a svestirsi della bellezza esteriore, per annunciare proprio in questo modo la Verità della Bellezza" (Joseph Ratzinger). La bellezza crocifissa, la bellezza trasfigurata, la sua bellezza che è la nostra bellezza, esattamente così come oggi siamo di fronte a noi stessi e a ogni uomo.

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La Trasfigurazione nella tradizione bizantina. Sul monte testimoni del Signore


(Manuel Nin) Nella tradizione bizantina, come nelle altre tradizioni delle Chiese orientali, la Trasfigurazione del Signore è una delle grandi feste dell’anno liturgico. Essa ha una vigilia il 5 e un’ottava fino al 13 agosto. I testi liturgici del giorno prefestivo sono tutti un invito a salire con Cristo sul monte; come se la liturgia, da ottima pedagoga, volesse portare per mano i fedeli a contemplare e vivere il mistero che si celebra nella festa: «Venite, uniamoci a Gesù che sale al monte santo: là udremo la voce del Dio vivente. Venite, apriamo la danza, purifichiamoci, e con fede prepariamoci alla divina ascesa verso l’eccelsa città di Dio. Venite dunque, prepariamoci bene ad accostarci domani al santo monte di Dio per contemplare l’immutabile gloria di Cristo».
I testi dell’ufficiatura della festa accostano questo mistero della vita di Cristo, di cui furono testimoni i tre discepoli dal Signore portati con lui sul Tabor, all’episodio del Getsemani: anche lì infatti erano presenti Pietro, Giacomo e Giovanni. Così i tropari ci portano a contemplare la passione e la croce del Signore e, infine, i testi fanno della trasfigurazione una prefigurazione della risurrezione del Signore stesso.
Diversi tropari situano la trasfigurazione del Signore non soltanto cronologicamente prima dalla croce ma come il mistero che prepara i discepoli, e la Chiesa tutta, alla comprensione della passione stessa di Cristo: «Prima che tu salissi sulla croce, Signore, un monte ha raffigurato il cielo, e una nube lo sovrastava come tenda. Mentre tu ti trasfiguravi e ricevevi la testimonianza del Padre, erano con te Pietro, Giacomo e Giovanni, perché, dovendo essere con te anche nell’ora del tradimento, grazie alla contemplazione delle tue meraviglie non temessero di fronte ai tuoi patimenti: quei patimenti che noi ti preghiamo di poter adorare in pace, per la tua grande misericordia. Prima della tua croce, o Signore».
Nella stragrande maggioranza i testi insistono sul tema della presenza dei tre discepoli, Pietro, Giacomo e Giovanni, gli stessi che il Signore prese in disparte nel Getsemani al momento della sua agonia e della sua preghiera accorata al Padre. Nell’orto i discepoli cadono addormentati, durante la trasfigurazione cadono folgorati dalla gloria di Cristo. I tre che nel Tabor contemplano la divinità di Cristo, nell’orto ne contemplano la piena umanità: «O Signore, prendendo con te i discepoli su un alto monte, davanti a loro ti sei trasfigurato, illuminandoli con bagliori di potenza, volendo mostrare loro, sia per amore degli uomini che per la tua signoria, lo splendore della risurrezione. E il mistero nascosto dall’eternità lo ha negli ultimi tempi manifestato a Pietro, Giovanni e Giacomo la tua tremenda trasfigurazione».
Nella trasfigurazione i discepoli non sono capaci di guardare la gloria divina manifestatasi in Cristo, ma sono capaci di udire la voce del Padre. L’incarnazione del Verbo di Dio li rende capaci di ascoltare e sarà la sua risurrezione dai morti che li renderà capaci di vederlo e confessarlo risorto e glorificato: «A Pietro, Giovanni e Giacomo, i prescelti tra i tuoi discepoli, Signore, hai mostrato oggi sul monte Tabor la gloria della tua forma divina: essi vedevano infatti le tue vesti risplendenti come la luce, e il tuo volto più luminoso del sole; non riuscendo a guardare il tuo insostenibile splendore, caddero a terra, del tutto incapaci di fissarlo. Udivano infatti una voce che dall’alto attestava: Questi è il mio Figlio diletto, venuto nel mondo per salvare l’uomo».
La trasfigurazione del Signore è presentata dalla liturgia bizantina anche come rinnovamento, ricreazione della natura umana caduta a causa del peccato: «Celebrando in questo giorno la santissima e gloriosa trasfigurazione, glorifichiamo Cristo che ha trasformato la nostra natura con il fuoco della divinità e, come all’origine, l’ha resa splendente di incorruttibilità».
Poi il collegamento che i testi stabiliscono tra la teofania sul Sinai e quella sul Tabor porta a vedere la redenzione adoperata da Cristo anche come una nuova creazione della stessa natura umana: «Colui che un tempo aveva parlato con Mosè sul monte Sinai dicendo “io sono colui che è”, trasfiguratosi oggi sul monte Tabor alla presenza dei discepoli, ha mostrato come in lui la natura umana riacquistasse la bellezza archetipa dell’immagine. Salito infatti su questo monte, o salvatore, insieme ai tuoi discepoli, trasfigurandoti hai reso di nuovo radiosa la natura un tempo oscuratasi in Adamo, facendola passare alla gloria e allo splendore della tua divinità».
Alcuni tropari della festa sono vere e proprie professioni di fede nella divinoumanità del Verbo di Dio incarnato: «Tu che sei il Dio Verbo sei divenuto pienamente uomo, congiungendo nella tua persona l’umanità alla pienezza della divinità. Tale ipostasi nelle sue due nature videro Mosè ed Elia sul monte Tabor. Si eclissò il sole sensibile di fronte ai raggi della divinità, quando, sul monte Tabor, ti vide trasfigurato, o mio Gesù. Fuoco immateriale che non consuma la materia del corpo, tale ti sei mostrato a Mosè, agli apostoli e a Elia, o sovrano: uno da due, e in due perfette nature».
Il Verbo di Dio incarnato oggi si trasfigura sul monte Tabor: «Ora si è udito ciò che non è dato udire: il Figlio senza padre della Vergine riceve gloriosa testimonianza dalla voce paterna, quale Dio e uomo egli stesso nei secoli. Nato da nube verginale e fatto carne, trasfigurato sul monte Tabor, Signore, e avvolto dalla nube luminosa, mentre erano con te i tuoi discepoli la voce del genitore ti ha distintamente manifestato quale figlio diletto, a lui consustanziale e con lui regnante».
L'Osservatore Romano