domenica 13 luglio 2014

Pianto e speranza fianco a fianco



Il pensiero imprescindibile del Serafico. 

(Inos Biffi) «Sono confitto con Cristo sulla croce»: inizia con le parole della Lettera ai Galati (2, 19) il prologo del Lignum vitae di san Bonaventura. Essere confitto con Cristo sulla croce comporta — scrive il Dottore Serafico — una completa e concreta configurazione nell’anima e nel corpo al Crocifisso: «Chi veramente ama Dio, chi vuol essere un autentico discepolo di Cristo, e desidera conformarsi perfettamente al Salvatore universale crocifisso per lui, con tutto l’impegno del suo animo deve soprattutto proporsi di muoversi portando sempre la croce di Cristo nella mente e nella carne, se veramente intende sentire in se stesso la predetta parola dell’Apostolo».
In questa prolungata e appassionata meditazione Bonaventura (di cui la Chiesa celebra la memoria il 14 luglio) si sofferma sui diversi misteri di Cristo: dalla loro prefigurazione alla loro consumazione. Considerando, in particolare, la Cena, l’estatico teologo ci presenta «Gesù, pane consacrato».Tra le cose meravigliose «degne di essere specialmente ricordate si trova l’ultimo banchetto della santissima cena», nel quale «l’Agnello immacolato che toglie i peccati del mondo viene distribuito in cibo, sotto la specie del pane, contenente ogni dolcezza e la soavità di ogni sapore»: banchetto nel quale «rifulsero la mirabile dolcezza della bontà di Cristo», «lo stupendo esempio della sua umiltà», «la larghezza della sua munificenza».
L’ammirato sguardo del santo di Bagnoregio prosegue sui successivi eventi del Salvatore: dalla vendita da parte del traditore e l’orazione nell’orto dell’agonia fino alla morte e alla sepoltura. La meditazione del Serafico non regge alla pura narrazione. Erompe di continuo in preghiera e in gemito: «E tu, o uomo perduto, causa di tutta questa confusione e di tutto questo strazio, come potresti non prorompere in pianto?».
Un pianto accompagnato dalla speranza: «O anima, per quanto peccatrice, se non aborrisci di seguire le orme del Signore Dio, che per te patisce»; «considera, o uomo redento, chi è e quanto grande e di che genere sia colui che per te pende dalla croce, la cui morte vivifica i morti, la cui dipartita è pianta dal cielo e dalla terra mentre le dure pietre vengono spaccate come per naturale compassione»; «Dio mio, Gesù buono, benché io sia affatto immeritevole e indegno, fa’ che, pur non avendo meritato di essere presente nel corpo, mediti tuttavia di sperimentare con animo fedele quell’affetto e quella compassione che sentirono per te, Dio mio, crocifisso e morto per me, la tua innocente Madre e la penitente Maddalena nell’ora stessa della sua passione».
Né manca poi la comunione con la gioia del Risorto, quando «quel corpo gloriosissimo, sottile, agile e immortale fu rivestito di tanto splendore, da apparire veramente più fulgido del sole, esemplare della bellezza dei corpi umani destinati alla risurrezione». La Chiesa sarà chiamata alla condivisione delle sofferenze di Cristo, e quindi alla purificazione dei peccati. «Come Dio ha abbandonato il capo della Chiesa, Cristo, ai flutti delle sofferenze, così ha permesso che il suo corpo, cioè la Chiesa, fosse tribolato nella prova e nella purificazione sino alla fine del mondo. Così passeranno attraverso molte tribolazioni i patriarchi, i profeti, gli apostoli, i martiri, i confessori e le vergini e tutti quanti i fedeli graditi a Dio; così anche tutte le elette membra di Cristo sino al giorno del giudizio», sino alla gloria del Regno «nel quale col Re regnano tutti i giusti, la cui legge è la verità, la pace, la carità, la vita, l’eternità».
Ossia con Gesù, «raggio fontale», «dall’origine eterna, dall’essenza incorruttibile, la cui conoscenza dona la vita, la cui scrittura si imprime indelebilmente, la cui visione è desiderabile, la cui dottrina è facile, la scienza dolce, la profondità imperscrutabile, le parole inenarrabili». Egli è «il fine di tutte le cose». Ed ecco i nuovi accenti dell’anima orante: «Tu solo basti, tu solo salvi, tu solo sei buono e soave per quelli che ti cercano, speranza degli esuli, fortezza di quanti tribolano, dolce conforto degli spiriti in ansia».
Dallo stile esuberante ed enfatico che distingue Bonaventura — viene spontaneo il confronto con la lucida ed essenziale sobrietà della scrittura di Tommaso d’Aquino — risalta in tutta la sua forza incomparabile la figura del Cristo, umile, paziente e glorioso, nel quale converge e dal quale irraggia la sacra dottrina, destinata a divenire esperienza e “sentimento”.
La teologia di san Bonaventura presenta, in modo tutto particolare, l’impronta della pazienza e della gloria del Salvatore. Chi vuole insegnare la sacra dottrina non la potrà trascurare. Anche se non la seguirà. La teologia, infatti, non nasce oggi, per la bravura di un teologo apparso come astro improvviso nel cielo teologico e persuaso di essere un genio: la teologia va ricercata e fatta emergere dal corso di tutta la tradizione della Chiesa, dal momento che ne costituisce una dimensione permanente. Il che, per altro, non comporterà una ripetizione di modelli del passato ma, al contrario, un ripensamento o un oltrepasso con rinnovato vigore mentale.
Così fece esattamente Bonaventura, per non dire, tra gli altri, dell’Aquinate e prima ancora dell’incomparabile Agostino, e di tutta una ghirlanda di dottori, che hanno lasciato luminosi modelli ai quali attingere stimolo e ispirazione.
L'Osservatore Romano