martedì 1 luglio 2014

Il Papa gesuita



Il  tweet di Papa Francesco: "Vivere come veri figli di Dio significa amare il prossimo e avvicinarsi a chi è solo e in difficoltà. " (1° luglio 2014)

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Libertà e laicità in Papa Francesco. Per comprendere un gesuita

L’anticipazione. Anticipiamo in esclusiva stralci dal libro Il Papa gesuita. «Pensiero incompleto», libertà, laicità in Papa Francesco (Milano, Mondadori Education, 2014, pagine VIII-192, euro 14). Qui sopra parte della «Premessa orizzontale» dell’autore e a fianco un estratto dal capitolo «I gesuiti».
(Vittorio V. Alberti) Perché questo libro non ha in copertina una foto di Papa Francesco? Perché si è ritenuto di interpretare in questo modo, già a partire da qui, ciò che il suo essere gesuita afferma e propone: il fatto, cioè, di non concentrarsi solo o troppo su di lui, di non vederlo come un idolo, una superstar, o addirittura un’icona, un logo che ritrae un one man show. La spiritualità e formazione gesuitica è, infatti, anti-idolatrica in radice. Si contrappone nettamente a ogni culto della personalità e, quindi, a ogni prospettiva individualistica. 
Per fare solo un esempio, nelle regole dell’ordine dei gesuiti, le Costituzioni, è scritto che i gesuiti sono «contenti di portare la tonaca del Signore». Del Signore, appunto. Non la propria. E perché ciò sia reale — perché, cioè, si formino veramente a non fare l’idolo di se stessi — i gesuiti hanno sviluppato un sistema di educazione che tende a «orientare il desiderio», senza reprimere, al tempo stesso, le giuste ambizioni, i talenti, le volontà del singolo. 
Un Papa è un “sacramento”, cioè è un “segno”, un po’ come un cartello stradale che dà la direzione verso un luogo. Così, lo sguardo che ora rivolgerò verso Papa Francesco terrà ben presente l’orizzonte, il luogo verso il quale questo segno dà la direzione, e quindi l’attenzione. Nel cattolicesimo — e molto nei discorsi dei gesuiti — il Papa è, infatti, un segno “visibile” di una realtà più alta e grande: la “centralità di Cristo”, tratto primario della prospettiva ignaziana. Un tratto che fa sì che il gesuita è, come ha detto Francesco, un uomo “decentrato”, nel senso che si propone di «svuotarsi» nella propria individualità per porre al centro della propria esistenza, delle proprie azioni, meditazioni, scelte, riflessioni, il Cristo, che così va inteso come centro della storia e pienamente “presente oggi nel mondo (storia di Dio che entra nella storia degli uomini). Cosa significa? Che la spiritualità gesuitica dispone di essere” ben piantati per terra, nella storia, per cercare Cristo nel mondo storico, attuale, quello nel quale viviamo.
Per quale ragione? Perché il cristiano crede che Cristo sia il Dio che si è fatto uomo. E quindi Cristo stesso, come uomo, ha sperimentato le cadute, le tentazioni, le angosce di ogni essere umano. In questo senso, la spiritualità gesuitica potenzia quella generale cristiana, nel senso che pone l’enfasi in particolare sull’umanità di Cristo. Occorre tenere conto di questa concezione, anche se si è atei o agnostici o, da cattolici, avversi o estimatori di Papa Francesco, per capire ciò che fa e dice questo Pontefice alla luce della sua formazione di gesuita.
Diversamente, si rischia fortemente di andare fuori strada e, dunque, di non afferrare una prospettiva sua propria che, per quanto complicata da tenere sempre presente, non è prescindibile. In altre parole, se intendo accostare Francesco alla sua identità di gesuita, non posso non cercare di assumere, sul piano dell’approccio conoscitivo, prima di tutto la spiritualità del gesuita e soprattutto prenderla seriamente, nel senso che devo scartare ogni pregiudizio di valore, sia esso positivo o negativo. 
Solo così, credo, avrò un orientamento opportuno – per quanto critico – alla questione.
Il segreto è nella domanda
Erano quasi due secoli, 182 anni, che non si aveva un Pontefice proveniente da un ordine religioso. L’ultimo fu il camaldolese Gregorio XVI, eletto nel 1831, e mai c’era stato, in quasi mezzo millennio, un Papa gesuita. Ma perché non c’è mai stato un Papa gesuita? Perché la Compagnia ha sempre svolto una funzione più dedita alla formazione, rispetto a quella di assumere incarichi nel governo della struttura ecclesiastica, incarichi gerarchici della Chiesa istituzionale.
Spesso si sente dire che i gesuiti formino, o abbiano sempre formato, i dirigenti, i capi, i leader. Restando solo all’ambito ecclesiastico, per esempio, più della metà dei cardinali riuniti in conclave ha studiato dai gesuiti che, di fatto, offrono un metodo di formazione che rivela elementi importanti per intendere Francesco.
Il metodo pedagogico gesuitico deriva da quanto a riguardo ha lasciato e trasmesso Ignazio di Loyola. Esso, in sintesi, si propone di favorire e valorizzare la capacità di ciascuno a partire dal suo spazio interiore, sicché l’educazione non è tanto far rispondere un allievo a un sistema di informazioni “preconfezionate”, quanto piuttosto quello di fargli prendere coscienza di sé. Come avviene questo processo? Attraverso gli interrogativi, che poi sono il vero motore dell’apprendimento, il primo impulso della conoscenza.
Ed ecco, proprio in questo, vedo l’elemento pedagogico ignaziano nel pensiero di Bergoglio: nel porre questioni senza chiuderle. Insomma, l’attitudine a concentrarsi molto sulle domande, più che sulle risposte, e in questo vedo anche una certa distinzione con i precedenti Pontefici. Certo, Bergoglio giudica, prende posizioni forti, spesso coraggiose e dirompenti, specie in materia di giustizia e pace, nel senso che intende contribuire a dare una direzione al mondo attuale, ma lo fa senza ridurre, restringere il campo, anche quando ha parole forti di potente condanna, come per esempio sulla corruzione o sui casi di pedofilia.
Nella prima lettera ai Corinzi, Paolo scrive che «l’uomo spirituale giudica ogni cosa». Il giudizio è tutto qui, nel conferire un potere che renda attivi in questo mondo. Così, questo è un invito a non essere passivi osservatori dei processi sociali. Il giudizio di Francesco è aperto, ma c’è. E, per questo, è molto impegnativo.
Questo di affermare tenendo aperta la discussione, cioè, “affermare domandando”, è un procedimento assai complicato da attuare. A riguardo, mi viene in mente Oscar Wilde, secondo il quale le risposte sono capaci di darle tutti, è per le domande che ci vuole un genio.
Credo che venga proprio da questo “metodo delle domande” il modo di dire secondo il quale, un gesuita, a una domanda risponde sempre con un’altra domanda. A questo proposito vorrei riferire una barzelletta che mi raccontò uno di loro: «Un giorno un tale chiede a un gesuita: “Perché voi gesuiti rispondete sempre a una domanda con un’altra domanda?”. E il gesuita: “Chi le ha detto questa falsità?”». Verrebbe da dire che il segreto è nella domanda. Il segreto di tutto, probabilmente. Forse anche quello di chiedersi se Dio esista o no.
Così, restando alle domande, ho cercato qua e là e ho trovato una qualche risposta alla domanda “chi è un gesuita?”. È una persona formata per apprendere a riconoscere qualcosa che a un non credente in Dio può risultare poco digeribile: l’opera di Dio nella vita. Così, il gesuita ha sviluppato tale metodo per riconoscere, «discernere» i segni che Dio produce nella sua esistenza, nella sua vita reale. E, fatto interessante, non si tratta di segni derivanti da una fede astratta, fatta di principi esterni, normativi, ma è un riconoscimento di elementi concreti – il più delle volte sorprendenti – nella vita della persona.

L'Osservatore Romano