lunedì 5 maggio 2014

La domenica “dei 4 Papi” ha dato coraggio al mondo

Intervista al Cardinale che era accanto a Giovanni Paolo II in sala operatoria dopo l’attentato di Agca: «Wojtyla è santo e “magno”»

DOMENICO AGASSO JRROMA
«Chi ha immaginato una Chiesa finita, minoritaria e spiazzata, di fronte alla domenica “dei quattro Papi” si è trovato davanti una forza da cui il mondo può prendere coraggio, rifugio, illuminazione, e anche un mistero che non permette di essere giudicato troppo alla leggera né essere soffiato via da venti improvvisi». Le canonizzazioni di Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II derivano dal Concilio Vaticano II. «Giovanni Paolo II è “magno”». Sono affermazioni di cardinale Elio Sgreccia, nato nel 1928, che nel 1983 ha intrapreso la strada di studioso dei problemi etici della medicina, incaricato dall’Università cattolica. È stato segretario del Pontificio Consiglio per la Famiglia. Nel 1996 è diventato vicepresidente della Pontifica Accademia per la Vita, di cui poi è stato nominato presidente nel 2005, rimanendo in carica fino al 2008. Benedetto XVI lo ha creato cardinale nel 2010.
Si deve a Sgreccia la creazione della fondazione “Ut vitam habeant” - di cui è presidente - per la promozione della pastorale della vita all'interno della comunità cattolica.

Vatican Insider l’ha intervistato.

Eminenza, che significato hanno le canonizzazioni di Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II per la Chiesa? E per il mondo?
«Sono unite dal Concilio Vaticano II: Giovanni XXIII ha avuto il coraggio di aprirlo nella sorpresa generale, e di impostarlo nelle sue finalità; Giovanni Paolo II ha avuto una parte importante nell’attuazione. Entrambi i Pontefici sono legati al Concilio, sinceramente convinti del Concilio e impegnati in esso. Quindi la proclamazione di domenica 27 aprile significa una data che rafforza l’autorevolezza del Concilio, ne definisce anche il volto genuino, sia dell’inizio sia dell’attuazione, e ne stimola l’applicazione, che non è finita».

Che ricordi ha di Giovanni XXIII?
«L’ho incontrato una volta sola. L’impressione che mi ha lasciato è stata di una esplosione di novità, innanzitutto per lo stile semplice con cui si è proposto, per il cambio di stile forte nell’approccio con la gente e nel pronunciarsi davanti alla Chiesa e al mondo intero, nel dire il proposito che risuonava nel suo primo discorso: da quel momento in poi la figura del papa sarà sì sempre stimata per la sua cultura, per la sua sapienza, per la sua formazione teologica, ma soprattutto sarà valutata per la sua pastoralità. Dunque ha configurato il Papa pastore come stile. Ma il suo modo di operare improntato sulla semplicità e immediatezza, oltre che su bontà e pietà, è stato anche tradizionale: dal punto di vista liturgico non ha compiuto “rivoluzioni”, salvo l’autorizzazione del Concilio alla traduzione della Liturgia nelle lingue nazionali; anzi manifestava attaccamento alle forme più popolari della devozione, come il Rosario alla Madonna. Aveva l’animo di un prete tradizionale carico soprattutto di carità pastorale, e nello stesso tempo è stato capace delle più grandi novità. È stato progresso e profezia incarnata in un sacerdote tradizionale, non in conflittualità con la vita spirituale».

Parliamo di Giovanni Paolo II, che Lei ha conosciuto bene: quali aspetti sottolineerebbe della sua santità?
«Innanzitutto la sua pietà. Quando si aveva occasione di andarlo a trovare per partecipare alla Messa che celebrava nella Cappellina nel Palazzo apostolico al mattino presto – ammetteva ogni giorno qualcuno - si entrava e generalmente era lì – dicevano da un’ora – e pregava steso per terra: faceva la sua ora di adorazione introduttiva. Era immerso, e così era anche dopo la Messa, quando si fermava e si concentrava con fede, pietà e devozione davanti all’Eucaristia. È da lì che credo cavasse quella forza che lo ha illuminato nel suo pontificato come lo aveva aiutato a “navigare da solo” in gioventù (aveva perso la madre, il fratello e il padre). Cristo nuovo modello di umanità, in quanto è uomo che dona Se Stesso, è Dio diventato uomo per donare Se Stesso all’umanità: questo è il “cuore” del pontificato di Wojtyla. Così Giovanni Paolo II ha vissuto fino a quella finestra dalla quale il braccio è caduto perché la parola non rispondeva: è la scena-simbolo del suo volersi spingere oltre il limite della donazione.
E oltre alla forza, di Giovanni Paolo II sottolineo il coraggio, che lo ha resto energico da giovane e da Pontefice: mentre usciva dall’Ospedale Gemelli dopo l’attentato, tutti a dire: “Adesso bisogna stare attenti a mille cose, prendere molte più precauzioni per proteggere il Papa”, e invece Wojtyla rispondeva: “Lasciate stare perché tanto se vogliono attentare alla mia vita lo fanno lo stesso”, e non ha voluto cambiare l’organizzazione della sua protezione».

Ecco, a proposito dell’attentato che ha subito il 13 maggio 1981 da Ali Agca: Lei era al fianco di Papa Wojtyla nei successivi momenti drammatici: che cosa ricorda in particolare?
«Sono entrato in sala operatoria e ho visto il Papa privo di sensi. Il suo segretario Dziwisz mi ha pregato di chiedere se potevo rimanere lì al suo posto, perché, anche se desiderava restarvi lui, non si sentiva sicuro di resistere per il tremore che aveva dentro di sé. Mi ha detto che Wojtyla aveva ricevuto l’Unzione degli Infermi. mi sono accantonato in un angolo con i piedi sopra uno sgabello per assistere e pregare. Rammento il Pontefice steso sul tavolo operatorio: si vedeva gocciare il sangue dall’indice della mano sinistra; l’altra mano era stesa sul tavolo: dava l’immagine del crocifisso. Per cinque ore è stato fermo lì. Mi ricordo le frasi che “volavano” tra medici e infermieri: dicevano che si trattava di chirurgia “di guerra”, perché il corpo non era preparato all’intervento chirurgico, dunque tutte le attenzioni di carattere di prevenzione di infezioni erano da prendere nell’immediato e sulla persona “aperta”, perché non si era potuto attuarle prima. C’erano cinque o sei persone attorno, e dopo un’ora/ora e mezza, il chirurgo che lo stava operando, Crucitti, ha alzato la testa per asciugarsi il sudore, e io l’ho interrogato con gli occhi: ha risposto con uno sguardo fiducioso. Così sono andato a tranquillizzare Dziwisz, e ho potuto constatare che nella Chiesa e nel mondo si stava pregando. Nel frattempo stavano arrivando nell’anticamera della sala operatoria politici e personalità, tra cui il presidente della Repubblica italiana Pertini, che sarebbe rimasto in piedi finché non avrebbe visto uscire il Papa: era mattino ormai, e c’è stato un momento in cui Wojtyla è stato svegliato, e in quei brevi attimi ha potuto ricevere il saluto di Pertini. Il commento di Crucitti alla fine dell’intervento è stato: “Abbiamo avuto a che fare una pallottola intelligente”, perché aveva reciso l’arteria femorale, toccato grovigli di nervi, ma nulla di irreparabile è successo. E questo è strano da dire».

Conoscere Giovanni Paolo II Le è stato utile per l’insegnamento nella bioetica?
«Sì. Nella bioetica abbiamo un punto “speciale”: riguarda la morte: in che cosa consiste, qual è il momento della morte, come assistere il morente, dire o non dire la verità. Io ho sempre avuto un’immagine concreta di come affrontare la morte grazie a Giovanni Paolo II: Wojtyla infatti ha sempre agito nella consapevolezza che la sua malattia si andava aggravando da quando l’operazione all’anca non dava risultati perché il parkinson era latente. Sempre più si andava indebolendo invece che guarire. Eppure ha continuato a viaggiare e parlare, incurante della menomazione fisica. Non era più il gigante che si affacciava, era portato in carrozzella, però aveva sempre la stessa tempra. Il rapporto con il dolore, la lettura della “Salvifici doloris”, la consapevolezza della morte: abbiamo avuto una “cattedra speciale” in Giovanni Paolo II. Dire della sua spiritualità e non dire il suo far diventare amore il sacrificio è impossibile. Pietà e amore all’umanità di Cristo, ma dall’altra anche inseguire la sua croce fino in fondo: è un’altra nota fondamentale che non vedo raccontata nelle biografie di giornalisti e amici. Eppure è l’elemento che maggiormente lo colloca tra i santi più grandi. Ecco perché per me Giovanni Paolo II è “magno”».

Con quali parole descriverebbe “il giorno dei quattro Papi” - due Santi e due viventi di cui uno emerito - pensando in particolare al futuro prossimo della Chiesa?
«Un fatto speciale, non sappiamo se si verificherà mai più, un “unicum” che abbiamo vissuto in quella brezza fresca durante la Concelebrazione, alla quale ho partecipato. L’ho interpretata come un congiungimento di componenti in un momento storico nel quale si possono “vedere” tutte le guerre del secolo scorso che hanno gravato sulle spalle dei due Pontefici santi, in particolare Giovanni Paolo II. Oppure ci si può vedere la novità del futuro che deriva dal Concilio, il quale ha creato una fase nuova nella Chiesa. Domenica 27 aprile era tutto congiunto insieme: passato e futuro, figure emblematiche. La Provvidenza ha cucito insieme avvenimenti che nessuno avrebbe saputo comporre così. E chi ha immaginato una Chiesa finita, minoritaria e spiazzata dai dittatori del passato, dalla secolarizzazione, di fronte a quella domenica “dei quattro Papi” si è trovato davanti una forza da cui il mondo, grazie a Dio, può prendere coraggio, rifugio, illuminazione, e anche un mistero che non permette di essere giudicato troppo alla leggera né essere soffiato via da venti improvvisi».

Lei Eminenza presiede la Fondazione “Ut vitam habeant”: come è nata l’idea e quali sono gli obiettivi? 
«Lo scopo principale è favorire – senza disturbare i miei successori che ho formato io stesso - la formazione sulla difesa della vita nella Chiesa, nel clero, ritagliandomi uno spazio da pensionato per aiutare soprattutto sacerdoti e laici impegnati nella pastorale. E allora ho puntato a realizzare “un bagno” di bioetica all’interno della vita ecclesiale, e allo stesso tempo aiutare chi lavora in questo campo a viverlo con fede. Anche perché per capire, leggere e interpretare documenti pontifici come la “Evangelium vitae” occorre un impegno un po’ particolare, e non credo che tra tutti abbiamo raggiunto la piena maturità: allora ho creato questa Fondazione, che ha una duplice finalità: portare i risultati della bioetica nella pastorale, perché prenda atto della loro rilevanza che fornisce indicazioni alla scienza e confutano le spinte di tipo secolarista; e nello stesso tempo portare l’apporto della pastorale alla formazione dei pastori e poi di quel laicato senza il quale la bioetica non si può esprimere. Ecco che occorre formare i laici con le “quattro ‘c’” che derivano dal Concilio: competenza, coscienza, coerenza, capacità di collaborare. Non dobbiamo costruire dei sacrestani, dei catechisti, ma persone che sappiano reggere autorità temporali che sono importanti e che rischiano di essere frantumate e dominate dalla mondanità, dall’ideologia».

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San Romero in due mosse


Murale a San Salvador (da Terre d'America)


Quattro vescovi in Vaticano con un duplice proposito: gli altari nel 2017 e il Papa in Salvador per la canonizzazione

CARLOS COLORADO
La canonizzazione dei due Giovanni (XXIII e Paolo II) può preludere a quella di un Oscar. L’operazione santificazione di Romero, assassinato nel 1980 e spinto sugli altari dalla fama di martirio che non ha fatto che crescere negli anni a seguire, la stanno preparando quattro vescovi di El Salvador che si trovano contemporaneamente in Vaticano con il proposito di ottenere il riconoscimento – già nel 2017, tra tre anni dunque – della santità di Romero. Il piano è audace per due motivi: da una parte perché Romero non è stato ancora beatificato, dall’altra perché pare che i prelati chiederanno a Papa  Francesco di recarsi personalmente nel loro paese per celebrare il magno evento.

I quattro presuli presenti a Roma – incontreranno Papa Francesco il 9 maggio – sono l’arcivescovo di San Salvador José Luis Escobar Alas, il vescovo di Chalatenango José Elías Rauda Gutiérrez (ha presieduto la messa ufficiale per la celebrazione del XXXIV anniversario della morte di Romero), Elías Samuel Bolaños Avelar, vescovo de Zacatecoluca (a lui è toccata la celebrazione nel 2013) e Luis Morao Adreazza (di origine italiana), vescovo anch’egli di Chalatenango, sul cui territorio si trova l’“Universidad Monseñor Romero”.

Non bisogna dimenticare che nel 2017 ricorreranno i cento anni della nascita di Romero, il 17 agosto del 1917, e la chiesa di El Salvador inizierà il conto alla rovescia con la celebrazione di tre anni tematici. Il primo andrà dall’agosto del 2014 allo stesso mese del 2015 e avrà come parola chiave “Romero, uomo di Dio”. L’anno 2015-2016 sarà invece dedicato a “Romero, uomo della Chiesa”, mentre il 2016-2017 avrà come tematica centrale “Romero, Servitore dei Poveri”. Non è affatto escluso che lo stesso triduo possa iniziare con qualche parola del Papa regnante.

I presuli in visita da Francesco sono arrivati in Vaticano “armati” di una lettera firmata da tutti i confratelli di El Salvador, in cui viene espresso l’appoggio unanime alla canonizzazione di Romero in occasione del suo centenario. Ciò che sicuramente costituisce una novità è il fatto che i quattro prelati si trovino a Roma contemporaneamente per parlare al Papa di Romero al di fuori del calendario di visite «ad limina» previsto per la conferenza episcopale di El Salvador.

Papa Francesco sa bene che quella di Romero costituisce la più importante causa di canonizzazione per l’America Latina contemporanea e pare proprio che dietro le quinte sia molto coinvolto per il felice esito: “Esagerando un poco, si potrebbe dire che il Papa è più motivato di noi”, ha affermato in un’intervista alla radio salvadoregna La Chevere l’arcivescovo ausiliario di San Salvador, Gregorio Rosa Chávez. “È meraviglioso che lui non dubiti per niente su chi sia stato Romero e che stia dando ordini in Vaticano affinché tutti collaborino perché il processo si velocizzi”.

Gli ordini di Francesco includono direttive ai vari dicasteri del Vaticano perché inviino tutto il materiale su Romero alla Congregazione per le Cause dei Santi, che di recente si è fatta carico dell’intero archivio riguardante la sua canonizzazione. “La documentazione che mancava è già nelle mani della Congregazione dei Santi”, conferma al giornale salvadoregno ContraPunto Jesús Delgado, ex-segretario di Romero: “Il Papa ha recentemente ordinato che tutto ciò che abbia a che fare con Monsignor Romero, in qualunque congregazione, passi alla Congregazione dei Santi”. I documenti “possono essere di importanza secondaria o terziaria, tuttavia era necessario compiere questo passo. Potrebbe darsi il caso che qualche congregazione abbia ancora dei documenti, come per esempio la Congregazione dei Vescovi”, a detta dello stesso Delgado.

Evidente la volontà di Francesco che si concluda quanto prima la “positio” su Romero, e che tutta la documentazione pertinente sia pronta per essere esaminata dalle commissioni di teologi e cardinali che dovranno approvare il decreto attestante la qualità di martire di Romero. Passo che potrebbe spianare definitivamente la strada per la sua beatificazione già nel marzo del prossimo anno, in occasione del 35º anniversario dell’assassinio. Delgado ritiene quella meta raggiungibile.

Se la beatificazione di Romero dovesse davvero arrivare il prossimo anno, 2015, Rosa Chávez non ha dubbi che a quel punto il vescovo martire potrà finalmente essere canonizzato nel 2017, l’anno del centenario. “Io calcolo che prima del ’17 avremo Romero sugli altari”, commenta Rosa Chávez, “tre anni, al massimo”. Si tratterebbe della canonizzazione più veloce dai tempi di san Francesco di Assisi. Benché il caso di Romero sia all’esame fin dal 1994, la sua positio non è stata ancora presentata alla Congregazione per la Causa dei Santi. Perfino Giovanni Paolo II, la cui canonizzazione si è contraddistinta per rapidità, ha impiegato sei anni (2008-2014) dalla presentazione della positio alla conclusione dell’iter.

Ma la velocità del processo non è l’aspetto più ambizioso del piano triennale per Romero. La lettera che i vescovi consegneranno a Francesco potrebbe contenere infatti un invito al pontefice a visitare El Salvador nel 2017. Dell’invito non c’è conferma, ma neppure smentita: Rosa Chávez si è limitato a dire che “Ci sono altre cose nella lettera che non possono ancora essere rivelate”.

Gli abitanti del Paese centro-americano hanno buoni motivi per sperare. Chi non ricorda la promessa (informale) fatta da Francesco di tornare in America Latina nel 2017? Lo scorso anno, nel Santuario di Aparecida, in Brasile, disse che sarebbe ritornato in Sud America per il trecentesimo anniversario dell’apparizione della Vergine. Guarda caso, il compleanno di Romero cade proprio nel giorno della Festa dell’Assunzione.

(Traduzione dallo spagnolo di Andrea Bonzo)