lunedì 5 maggio 2014

Jorge Mario Bergoglio: "La croce e la pace"




Tradotte in italiano alcune meditazioni di padre Bergoglio ("La croce e la pace. Meditazioni spirituali")

Reflexiones espirituales. Anticipiamo stralci dal libro "La croce e la pace. Meditazioni spirituali" (Bologna, Emi, 2014, pagine 144, euro 12,90, con introduzione di Antonio Spadaro; in libreria dall’8 maggio) nel quale sono tradotte per la prima volta in italiano alcune meditazioni pronunciate in Argentina da padre Jorge Mario Bergoglio. Quelle riflessioni vennero registrate e pubblicate integralmente nel volume "Reflexiones espirituales sobre la vida apostólica" (Buenos Aires, Ediciones Diego de Torres, 1987). Si tratta delle parti terza e quinta — intitolate rispettivamente: Sobre el conocimiento de sí mismo e Algunos aspectos de la vida religiosa — nelle quali Bergoglio parla soprattutto ai confratelli gesuiti meditando alcuni passi degli Esercizi spirituali di Ignazio. La sesta parte (Signos de inculturación) delle Reflexiones esce sempre in questi giorni con il titolo Chi sono i gesuiti. Storia della Compagnia di Gesù (Bologna, Emi, 2014, pagine 128, euro 11,90) e ne anticipiamo qui sotto un breve stralcio.

Sul campo di battaglia
La nostra appartenenza alla Chiesa acquista la sua consistenza fondamentale là dove nasce la Chiesa: sulla croce. Analogamente, non raggiungeremo una piena appartenenza all’istituto se non la generiamo in questa vocazione alla croce. Lì è avvenuto il “sì” definitivo dell’obbedienza che vince la disobbedienza primordiale. Lì è stato precipitato nell’abisso, una volta per sempre, l’“antico serpente” che genera la ribellione e il peccato. Lì la nostra appartenenza è filiale perché ci facciamo figli nel Figlio. E lì, in piedi, partecipe della spoliazione, ecco la Madre che dà senso alla nostra filiazione. Più ancora, quando ci fondiamo nell’istituto (acquistiamo fondamento in esso), dobbiamo prendere come riferimento essenziale la fondazione dello stesso istituto. Accade la stessa cosa quando vogliamo fondare il nostro cuore su una rinnovata appartenenza alla Chiesa. E poiché la Chiesa nasce e si fonda sulla croce, ogni fondazione a sua volta parteciperà di lei.
Sant’Ignazio, sia negli Esercizi che nelle sue lettere, definisce un’intera dottrina sul senso bellico della nostra vita donata al Signore. Senza questa dimensione non si potrebbe nemmeno concepire la sostanza del suo “servizio” del Re eterno. Proprio all’inizio dei suoi Esercizi fa riflettere sulla cattiva strada che prenderebbero degli Esercizi in cui non si fosse agitati da diversi spiriti. Questo piglio battagliero va accentuandosi nella prima settimana, dove infatti egli parlerà di eliminare i peccati (cfr. Esercizi spirituali, 43) e, raggiunto il «terzo esercizio», prospetterà la strategia contro il nemico: conoscere e aborrire (cfr. Esercizi, 63), atteggiamento ben lontano dalla falsa “comprensività” naturalista o dai compromessi di chi non vuole lottare sul serio e fino in fondo. In questo “terzo esercizio” della Prima settimana, sant’Ignazio forgia un atteggiamento fondamentale per il servizio divino: la capacità di condanna, che è la risposta di un cuore innamorato alla realtà della lotta fra i tre pensieri che essa presuppone in noi (cfr. Esercizi, 32): pensieri, appunto, che sono ispirati da spiriti contrari ed entrano in conflitto.
Nella «chiamata del Re» (cfr. Esercizi, 91-98) si prospetta un’impresa militare e un invito a «quelli che più vorranno lasciarsi coinvolgere e segnalarsi in ogni servizio» (Esercizi, 97): dalla capacità di condanna si passa alla fierezza del cavaliere fedele che «offrirà tutta la sua persona alla fatica», anche «contro la propria sensualità e contro il proprio amore carnale e mondano».
Nella meditazione “sulle due bandiere” (cfr. Esercizi, 136-148), la richiesta iniziale viene definita secondo la raffigurazione di un campo di battaglia: si cerca di riconoscere i tranelli del capitano dei nemici e si riceve «aiuto per guardarmene», si chiede di conoscere la vita vera che nostro Signore mostra e la «grazia per imitarlo». E sarà questo desiderio di imitare il Signore a condurre alla richiesta conclusiva, di tre colloqui, come una logica conseguenza dello sviluppo dell’intera meditazione, ma anche come una sorpresa; la «fatica» proposta nella meditazione sul Regno adesso ha un nome: «Imitarvi nel sopportare ogni ingiuria e ogni vituperio». La metafora militare conduce necessariamente alla croce, la sola che può dare senso a questa guerra.
C’è, dunque, una dimensione di ostilità nel modus vivendi cristiano (tanto più in quello di un religioso desideroso di seguire il suo Signore più da vicino). L’ostilità a cui si sottopone colui che decide di percorrere la strada di Cristo nostro Signore affiora nelle varie persecuzioni che vi fanno la loro comparsa. Il servizio cristiano, quando è autentico, spazza via ogni nostalgia esistenziale basata su canoni da ecloga bucolica.
Sant’Ignazio è stato chiaro: «Incontrare difficoltà non è una novità, anzi cosa ordinaria nelle cose di molta importanza per il servizio e la gloria di Dio». «Le contraddizioni già avute e quelle attuali non sono per noi una novità. Anzi, dall’esperienza che ne abbiamo in altre parti, speriamo che Cristo nostro Signore sarà servito in quella città tanto più, quanto maggiori ostacoli pone colui che procura sempre d’impedire il suo servizio. A tale fine muove gli uni e gli altri, i quali, è da credere, con buone intenzioni e cattive informazioni rigettano quanto, non comprendendolo, reputano degno rigettare».
Le difficoltà a volte vanno oltre il mero fastidio e si rivelano vere persecuzioni: nell’esistenza cristiana lo stato di persecuzione è normale, se si vive con l’umiltà del servo inutile, e lontani da qualsiasi desiderio di appropriazione che porti a proclamarsi «vittime».
Quando contempliamo Cristo in croce, ci rendiamo conto di dovergli la nostra vita perché — e non soltanto per questo — egli ha donato la sua per la nostra. E la gratitudine, quando è genuina, ci mette sullo stesso piano: donare la vita come ha fatto lui («vestire la stessa veste e divisa di Cristo, subire ingiurie, false testimonianze, affronti» per «rassomigliare e imitare in qualche misura il nostro Creatore e Signore Gesù Cristo»).
Su questo preciso punto vengono sbaragliate tutte quelle forme di “comportamentismo” che vorrebbero riassumere l’atteggiamento cristiano in un manuale di galateo. Non è possibile replicare alla generosità di Cristo con un «grazie tante» convenzionale ed educato: bisogna dare la vita, ed essa si dà — da quando il Signore ha segnato la strada — soltanto sulla croce.
Questo «ringraziare» con la propria vita acquista attualità quotidiana nella celebrazione del Ringraziamento per antonomasia, l’eucaristia, che è, al tempo stesso, la memoria della Passione del Signore. L’eucaristia fonda la Chiesa, la alimenta, la mantiene viva. «Ogni volta infatti che mangiate questo pane e bevete al calice, voi annunciate la morte del Signore, finché egli venga» (1 Corinzi, 11, 26); nel celebrare l’eucaristia rendiamo presente l’ora di nascita della Chiesa, che coincide con l’ora della morte del Signore. E il nostro modo di ringraziare è assumerci quella morte, commisurarci a essa. Qui si radica la formalità ultima della nostra appartenenza alla Chiesa.
La memoria della croce è, per così dire, l’ambito dell’esistenza cristiana. Al di fuori di quest’ambito non si darà scelta: correremmo il rischio di cercare percorsi risolutivi che fanno a meno della croce. Ne verrebbero vite religiose tiepide o forme di pastorali poco fondate. Scegliere, invece, la via di Gesù significa abbandonarsi nelle mani del Padre e dare la propria disponibilità ad essere abbandonati dal Padre.
Il senso dell’abbandono nelle mani del Padre, e dell’impressione di abbandono da parte del Padre che è connessa con qualsiasi croce, indica la dimensione escatologica di questa «pietra fondamentale» della nostra vita cristiana.
È la croce a contrassegnare il senso bellico della nostra esistenza. Con la croce non si può negoziare, non si può dialogare: o la si abbraccia o la si respinge. Se scegliamo di respingerla, la nostra vita resterà nelle nostre mani, confinata nei momenti meschini del nostro orizzonte. Se l’abbracciamo, in quella stessa decisione perdiamo la vita, la lasciamo nelle mani di Dio, nel tempo di Dio, e ci verrà restituita soltanto in un altro modo.
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Pettinatori di pecore
Interrogarci sulla capacità che ha la nostra comunità di proiettarsi verso la “frontiera”, e di assumersi nell’intimo i problemi e le persone della “frontiera”, equivale a interrogarci sulla sua ragion d’essere, sul suo potere di richiamo, sul nostro ruolo di pastori o di raffinati “pettinatori” di pecore.
Uno specifico segno evidenzia questa vitalità in una comunità o in un’opera: la loro capacità di radunare e di convocare laici impegnati nella missione che in essa si svolge. Pertanto si verifica una sorta di “circuito dialettico”: diamo forza ai laici per mezzo degli Esercizi spirituali, ma li convochiamo definitivamente tramite istituzioni capaci di assumersi la “frontiera” nel loro intimo e di proiettarsi verso la “frontiera”.
È stata spesso messa in evidenza la difficoltà di “coinvolgere” un laico al quale siano stati dati gli Esercizi spirituali in un’istituzione che lo convochi (...) e altre volte ci sono istituzioni a mezzo servizio perché i laici che vi lavorano non possiedono quegli elementi della nostra spiritualità che li aiuterebbero a progredire verso un’appartenenza più generosa. La nostra cura pastorale deve giungere al punto di non “lasciare per strada” nessuno dei laici, né per difetto di mistica né per difetto di appartenenza. Ciò implica che siamo capaci non soltanto di trasmettere una simile mistica, ma anche di creare istituzioni capaci di provocare appartenenza.
Riepilogando queste riflessioni, affiorano due criteri in qualche modo fondamentali: quello della realtà e quello del discernimento spirituale (in concreto, delle nostre consolazioni o desolazioni o — più in generale — della «varietà di spiriti» di cui sant’Ignazio ci parla così spesso). Due criteri che padre Arrupe utilizza di continuo nel suo Discorso finale ai Padri della recente Congregazione dei procuratori.
La realtà è in sé eloquente. E molte volte — quando ci sono dubbi sull’andamento di un’opera, di un processo, o su un comportamento —, anziché tracciare “castelli in aria” o teorie, o cadere nello spirito del “bisognerebbe”, viene molto bene fare un esame pratico della situazione. Com’era questo aspetto qualche tempo fa? Com’è adesso? In che cosa si è andati avanti, e in che cosa no? E da qui trarre le conseguenze, che saranno reali.
Il discernimento spirituale resta, per noi, quell’arma che sant’Ignazio ci ha dato per riscattare la volontà di Dio dall’ambiguità della vita.
Impariamo a porci davanti alle consolazioni e alle grazie, e a non temerle. Impariamo che qualsiasi sforzo per la giustizia, se non va unito alla gioia e alla pace, non è di buono spirito. Rendiamoci conto che la “contentezza” non equivale alla consolazione. Il demonio cerca di farci stare “contenti” (di quello che abbiamo fatto, dell’idea che ci è venuta, eccetera) per poi spingerci verso il nominalismo del “bisognerebbe...”, sostanzialmente passivo, e da lì verso l’inefficienza. La vera consolazione è sempre realista, si accorge di ciò che si può fare e ha il senso del fattibile; ci porta all’azione e da lì all’efficacia.
Se in una riunione ci sentiamo “contenti” per tutto ciò che abbiamo raggiunto, o se ci sentiamo “contenti” per le quattro o cinque cose che abbiamo detto (specie se nel genere del “bisognerebbe...”), non c’è il minimo dubbio che sia il cattivo spirito a condurci, allo scopo di ammansirci. Se, invece, sentiamo la vera consolazione del Signore e ce ne lasciamo guidare, proveremo di certo che «l’amore si deve porre più nelle opere che nelle parole» (Esercizi spirituali, 230), perché così il nostro frutto, anche se fosse esiguo, sarà vero e fecondo.
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Nei giorni della tiepidezza
Spesso si è fatto riferimento al fenomeno di una certa “diserzione” nella vita spirituale: un lento indebolimento della magnanimità e della prontezza nel servizio, fino ad arrivare a una sorta di “sopore”, senza molti movimenti di spirito significativi, in cui, sebbene il religioso continui a svolgere i compiti abituali e a condurre una “vita religiosa normale”, egli va perdendo, a poco a poco, la sua forza aggressiva, il suo fervore spirituale. Si tratta dello stato di tiepidezza, come lo chiamano i classici della vita spirituale.
È difficile essere fedeli nel dolore e nel trionfo, ma lo è molto di più restarlo quando occorre mantenere la consolazione (in qualunque sua forma) quotidiana. Non soltanto siamo invitati a perseverare vigili e in preghiera sulla croce, e ad accettare umilmente le gioie del trionfo, ma anche a cercare la consolazione e a restare in essa. La consolazione va cercata e mantenuta a ogni costo. Nel tempo di pace la fedeltà si esprime con il continuo cercare il Signore. Nel tempo della pace ordinaria, all’uomo fedele spetta cercare per trovare. Quello infedele o non cerca o cerca soltanto per acquisire o per conservare quanto gli è stato dato, e nient’altro. E che cosa deve cercare chi desidera mantenersi fedele? Semplicemente il Signore e la consolazione (in qualunque sua forma) che accompagna il servizio quotidiano. E cercare la consolazione implica “tentare se stessi”, mettersi alla prova da diversi lati. Significa un continuo e serio esame di coscienza per accorgersi delle mozioni interiori che sopraggiungono nel corso della giornata. Richiede, per esempio, un modo diverso di vegliare rispetto al momento della croce. Implica capacità d’interiorità e occhi spalancati per non assopirsi.
La fedeltà al Signore che è propria di questi momenti di pace consiste in una particolare cura nel mantenere il cuore nella ricerca del Signore, ed essa va unita a un certo senso di resistenza. Questa resistenza può assumere varie forme: pazienza, costanza apostolica, seria disposizione a esaminare la propria coscienza, interiorità, penitenze... Tutte cose che comportano “non dormire sugli allori” e una certa aggressività nel proporsi “cose maggiori” al servizio di Dio.
Possiamo interrogarci sui possibili segni dell’infedeltà in tempo di pace e prosperità. A mio giudizio, l’indizio principale è una specie di stato di scontentezza per cui non si gode interamente delle grazie ricevute, una sorta di tristezza che, senza possedere le caratteristiche della tristezza spirituale, ne possiede qualche elemento: poche aspettative, passività, pigrizia, e così via. Ma, probabilmente, il più chiaro sintomo di questo stato è un certo spirito lamentoso. Quando una persona o un’istituzione, in tempo di pace e prosperità, scopre di trovarsi in questo stato di tiepidezza e d’incertezza, allora deve ricorrere ai valori fondamentali della sua identità. Quando il forte stato d’incertezza e disorientamento configura la tiepidezza in noi, la prima cosa da fare dev’essere recuperare il primo amore, «l’amore al tempo del tuo fidanzamento, quando mi seguivi nel deserto» (Geremia, 2,2). Così recuperata tramite il ricordo, la prima carità ci addita anche la nostra vocazione di seminatori di pace, sottraendoci alla tentazione di essere meri “beneficiari della pace”, atteggiamento che a poco a poco ci porterebbe a perdere tutto ciò che avevamo conquistato con la forza della croce e della risurrezione.
L'Osservatore Romano