martedì 27 maggio 2014

8 – Diario dalla Terra Santa. Portare un pezzo di Gerusalemme a casa


14099243540_a76dbda6c1
di Costanza Miriano    foto di  Leonora Giovanazzi
La sera del quinto giorno di viaggio avrei tanto voluto andare al Santo Sepolcro per trascorrere la notte lì, finalmente in silenzio, finalmente senza ressa e rumore e confusione: chiude alle 9 e riapre alle 4 di notte, ed è possibile chiedere di stare lì, a porte chiuse. Io mi ero prenotata. Ma, lo confesso, sono una donna di poca fede, e non ce la faccio. Senza contare che, stanchezza a parte, attraversare la città vecchia alle quattro di notte a piedi – le macchine non passano, impossibile prendere un taxi – per tornare in albergo ci mette un po’ pensiero. A mia discolpa vorrei dire che siamo al sesto giorno di un viaggio pienissimo e senza soste, con una media di tre o quattro ore dormite per notte, e i bagagli da fare. Mi arrendo, lo confesso.
La sveglia suona comunque alle sei, non proprio tardissimo, e la luce su Gerusalemme tinge tutte le pietre di rosa. Una meraviglia questa pietra con cui è costruita tutta la città vecchia, che cambia colore con il sole. La visione lirica è subito turbata da uno sguardo alla camera, nella quale probabilmente mentre dormivo è esplosa una piccola intifada tra i miei calzini sporchi e i libri (vuoi partire senza quattro agili volumetti da leggere?). Il che probabilmente spiega come lo spazzolino sia potuto finire in frigo, forse ieri ho preso l’acqua dopo avere lavato i denti, poco prima di svenire dal sonno. In quelle tre orette in cui ho chiuso gli occhi il contenuto della valigia ha colonizzato la camera dell’albergo, prendendo possesso di tutti gli angoli. Radunare tutto è un’impresa, e non basta salire sulla valigia per chiuderla, ci devo proprio saltare sopra, e giocarmi quel che restava dello smalto trasparente per tirare la lampo (mi sono concessa una settimana senza unghie rosse, il brivido della trasgressione).14262744616_575eb9e6cf_o
Allo scopo di dare un definitivo, letale, tocco di aroma al bagaglio vado a fare un’ultima corsetta – infilare una maglietta bagnata di sudore in un valigia che verrà riaperta dodici ore dopo in certi paesi è punito con la reclusione fino a sei mesi – e decido di seguire le frecce per il monte Scopus, quello da cui si vede il panorama più bello. Ovviamente manco la svolta decisiva, perché mi ritrovo in un quartiere popolare, ed è comunque istruttivo buttare lo sguardo su come vive la gente nelle zone non turistiche.
Doccia, caffè e sono pronta per andare con Leonora alla messa delle 8 al Santo Sepolcro: l’appuntamento è alle sette e mezza, e praticamente sono le sette e trenta sul mio fuso, cioè le 7,40 reali, ma siccome Leonora vive a Milano alle 7,35, dopo avermi bussato invano (sono sotto la doccia), parte. La raggiungo correndo perché ormai è acclarato che io sono le gambe, ma lei è la mente, e senza di lei mi perdo. E poi sei giorni di messe insieme sono il minimo per sancire l’inizio ufficiale di un’amicizia certificata e incrollabile, non possiamo mancare proprio oggi, la sesta.
14099313167_9758ed5314Alle 8 e 4, puntuali come orologi slavi, siamo lì. Per chi – come me fino a tre giorni fa – non sa come è fatto il Santo Sepolcro, bisogna sapere che ci sono diverse comunità religiose che se lo contendono, e quindi vengono celebrati insieme riti cristiani copti, siriani, ortodossi e cattolici, mentre le chiavi ce le hanno i musulmani, se ho capito bene, perché lì avevano costruito anche loro un luogo di culto, non ricordo in quale secolo. Così la messa, celebrata da un coreano in un inglese educatissimo e sommesso, è un po’ diciamo animata dagli ortodossi che cantano lì accanto, intorno all’altare costruito sopra il buco nel quale fu piantata la croce di Cristo, sulla roccia del Golgota, quella che si spaccò al momento della morte. Gli ortodossi sono piuttosto rumorosi con i loro canti, e le fedeli, soprattutto se anziane, hanno sempre un gran da fare con delle buste plasticose e molto fruscianti che aprono e chiudono in continuazione per tirare fuori panni e reliquie con le quali toccano le icone e le pietre. Sempre per chi come me non lo sapeva, sotto il Golgota, al piano inferiore della chiesa, c’è la tomba nella quale Giuseppe di Arimatea depose il corpo di Gesù, e lì, intorno alla tomba, c’è una chiesetta nella chiesa, un po’ come la Porziuncola o Loreto, ma molto più piccola. All’ingresso del complesso, quello che racchiude tutte le cappelle, la prima cosa che si incontra è la pietra della deposizione, quella sul quale il corpo di Gesù fu appoggiato dopo la morte. Va bene, non si capisce molto dalla mia descrizione, ma io ci ho provato: ricordo che io fino alla settimana scorsa immaginavo tutto diverso, prima di arrivare, pensavo che avrei trovato una tomba come quella del film di Zeffirelli e intorno una chiesa grande, luminosa e spaziosa. Non credevo che avrei trovato un groviglio di cappelle e icone e candele e lampade regolato in modo complessissimo tra diverse confessioni (a un certo punto per farli smettere di litigare nel 1852 stabilirono che dovesse valere lo status quo, nulla doveva più essere toccato o spostato, ed è per questo che c’è da allora una scala appoggiata a una finestra, scala che nessuno può togliere).
Queste liti intorno a Gesù non mi sconvolgono, mi ricordano che l’uomo è una creatura fatta di fango e portata al male – uno solo è buono, ed è Gesù. E mi confermano anche che il fascino di Gesù è universale. Tutti, anche quelli che lo considerano solo un profeta, avvertono in qualche modo che questa “è roba buona”, che qui c’è qualcosa di grossissimo. E non mi scandalizzano neanche le signore rumorose che devono toccare e baciare e segnarsi e pregare agitandosi tanto. Alla fine noi siamo fatti un po’ così, a volte abbiamo bisogno di segni, di emozioni, di cose che possiamo toccare.
Siamo tutti sulle tracce di qualcosa, noi che siamo qui, qualcosa che fatichiamo a trovare nella confusione, nel rumore, nella folla. Eppure sono certa che non sia sbagliato cercare qui. Anche nelle nostre vite ordinarie a casa, a Roma, a Milano c’è confusione, rumore, folla. Con Gesù è così. Lui non si impone, sta alla porta e bussa, e aspetta il nostro sì, perché la nostra libertà è vera. A volte è una fatica questa libertà, bisogna fare proprio la fatica di trovare spazio per Gesù, di cercarlo nella confusione, di mettere le cose bene in fila nelle nostre vite. A volte siamo così intelligenti e organizzati nelle cose a cui teniamo, ma nella vita spirituale improvvisiamo. Eppure il nostro quotidiano è come Gerusalemme, nasconde il tesoro, solo che bisogna cercarlo, fare spazio, fare silenzio, buttare tutto quello che non serve anche se non è male in sé, solo per il fatto che ci distrae da Lui. E Lui, il tesoro, lo possiamo cercare in tutte le Gerusalemme del mondo, anche quelle vicino, più spesso dentro casa nostra.14306003793_436d8feea8
Per l’ultimo giro nella città andiamo al muro del pianto, cioè nell’unica parte del tempio rimasta dopo la distruzione del 70 dC. Non mi spericolo a fare l’archeologa, ma dico solo che a metà del grande spazio bisogna superare un altro controllo, dopo quello dei metal detector. Si entra nell’area delle moschee, e i musulmani controllano che i visitatori non portino né libri né segni esteriori di altre fedi. A me fanno mettere uno scialle, a Leonora anche un pareo a coprire i pantaloni al ginocchio (la foto di lei con i due drappi che la coprono, le scarpe da ginnastica e il cappellino da baseball potrebbe valermi svariate migliaia di euro, se decidessi di ricattarla). Per usare un eufemismo direi che non sono affatto ospitali, e le donne riunite in circolo e coperte – alcune hanno anche i guanti, solo una fessura libera per gli occhi – ascoltano una di loro che predica con un tono molto arrabbiato. Ogni tanto un Allah hu Akhbar gridato fortissimo più volte risuona nell’aria. D’altra parte qui siamo a casa loro e bisogna rispettare le loro regole, anche se la reciprocità chiesta più volte da Benedetto XVI vorrebbe che anche loro facessero lo stesso con noi.
Nell’ultimo giretto al mercato faccio il mio gioco preferito: cercare il negozio più brutto e vedere se trovo qualcosa di comprabile. Rimango folgorata da una gonna verde militare e turchese. Veramente le amiche milanesi alla domanda “ma è talmente brutta da risultare bella, oppure fa proprio schifo?” decretano all’unanimità che fa proprio schifo. È il segno. La compro.
14285871585_98b4cb3b9eSeguendo il cardo che divide la città nei quattro quartieri – musulmano cristiano ebraico e armeno – andiamo a pranzo in un posto dove vanno quelli che abitano nel quartiere ebraico, non i turisti. La maglietta sporca di sangue del proprietario la trovo un po’ inquietante, e anche le unghie nere, ma bisogna ammettere che dai piatti viene un profumo incredibile: tutto il cibo qui in Israele è profumatissimo di erbe e spezie.
Un ultimo saluto alla Città Santa e alla Porta di Jaffa saliamo sul pulmino che ci porta all’aeroporto di Tel Aviv. L’ospitalità è stata così incredibile che ogni tanto tutti e cinque ci chiediamo se per caso non si siano sbagliati a invitare proprio noi. Al Ben Gurion una signorina della El Al ci accompagna facendoci passare per le corsie preferenziali, e questa volta i controlli di sicurezza sono velocissimi. E se la El Al è sempre super professionale con tutti, questa volta ci sentiamo davvero dei principi, anche se abbiamo solo un biglietto economy.
Mettiamo insieme quello che ci è avanzato – “io ho ventiquattro soldi”, “io sette”, “io quindici” (il soldo come è noto è la valuta locale) – e facciamo merenda tutti insieme con i biscotti intinti nel latte. D’altra parte siamo in modalità gita delle medie – primi anni di superiori al massimo – e ci salutiamo grati di questa amicizia che ci ha lasciato questo viaggio, un regalo nel regalo (ormai manca solo di fare la pipì insieme mentre l’amica ti tiene la porta). Ci imbarchiamo, si torna a casa, e anche lì siamo pieni di regali, tutti e cinque. Vederli dall’alto, dalla collina del Getsemani, ce li ha resi ancora più belli.