lunedì 28 aprile 2014

Due nuovi papi in paradiso.

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Giovanni Maria Vian (*): Canonizzazione programmatica


Un avvenimento senza precedenti che ha interessato moltissime persone, non solo cattoliche, e che certo passerà alla storia: questo è stata la canonizzazione di Angelo Giuseppe Roncalli e di Karol Wojtyła. Mai infatti un vescovo di Roma aveva proclamato simultaneamente la santità di due suoi predecessori, figure entrambe molto popolari e vicine nel tempo: solo nove anni sono trascorsi dalla morte di Giovanni Paolo II e cinquantuno da quella di Giovanni XXIII.

E vi è stata un’altra circostanza eccezionale: Francesco ha invitato alla sobria e solenne liturgia Benedetto XVI, che vi ha preso parte con naturale semplicità, circondato visibilmente dall’affetto e dalla riconoscenza di tanti e abbracciato con tenerezza dal suo successore.
Così già alla vigilia si era diffuso nei media l’annuncio del “giorno dei quattro Papi”. Sintesi senza dubbio efficace, ma che non racchiude l’essenziale: la comprensione e la lettura della santità di due figure che sono ora, anche formalmente, venerate nella Chiesa e in questo modo ancor più riconosciute al di fuori dei suoi confini visibili. L’esemplarità cristiana di questi due sacerdoti, vescovi e Papi — in questo modo ne ha condensato le vite il loro successore — è stata infatti colta nel suo nucleo più profondo dal sentimento dei fedeli. Al di là della stessa risonanza, senza dubbio eccezionale, di un avvenimento che interpella comunque tutti.
Certo, nella vita esemplare dei testimoni di Cristo sta sempre il senso autentico di ogni proclamazione formale di santità, ma la canonizzazione di figure così note e amate appare oggi programmatica. A indicarlo è stato il loro successore Francesco con una meditazione sulle letture bibliche di cui ha impressionato la spoglia essenzialità. Come l’apostolo Tommaso, «quell’uomo sincero», i due nuovi santi che intercedono per la Chiesa e per il mondo hanno saputo riconoscere nelle piaghe di Cristo risorto — ha detto il Papa — «il segno permanente dell’amore di Dio per noi». E sono stati uomini di coraggio, che hanno dato testimonianza della bontà e della misericordia di Dio.
Roncalli e Wojtyła, figure simbolicamente unite dal concilio, hanno attraversato la contemporaneità e vissuto da cristiani le tragedie di un tempo tremendo: le inutili stragi delle guerre mondiali, l’empia disumanità dei totalitarismi nazista e comunista, le tenebre atroci della shoah, sino ai fondamentalismi e alla globalizzazione del materialismo pratico nei primi anni del nuovo secolo. Per questo sono oggi riconosciuti santi due uomini dai quali traspariva la fede in Dio. Nella docilità allo Spirito Giovanni XXIII, nel servizio alla famiglia come nucleo ineliminabile dell’umanità Giovanni Paolo II, secondo la visione essenziale in cui Francesco ha sintetizzato l’eredità che i due Papi hanno lasciato.
L'Osservatore Romano

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Due nuovi papi in paradiso. Riassunto delle precedenti puntate

SANTITÀ PAPALE
Tradizioni liturgiche e agiografiche della Chiesa di Roma considerano martiri tutti i successori di Pietro sino all’età di Costantino, e santi tutti quelli sino al primo trentennio del VI secolo; e come santi sono tradizionalmente venerati altri 20 Pontefici succedutisi sino al sesto decennio del IX secolo: in totale 72 su 105, compreso però il primo degli apostoli. Dopo Niccolò I (858-867), comprendendo le canonizzazioni del 27 aprile 2014, su 157 Papi soltanto otto figurano tra i santi e nove tra i beati.
Se si guarda alla successione dei riconoscimenti del culto colpisce la loro concentrazione in età contemporanea. In particolare, sei conferme di culto si collocano tra il 1870 e il 1898 – cioè alla vigilia della presa di Roma e nel primo trentennio successivo al crollo del potere temporale – mentre è Pio XII a beatificare e canonizzare Pio X e poi a beatificare Innocenzo XI nel 1956. Durante il giubileo del 2000, infine, Giovanni Paolo II beatifica in un’unica cerimonia Pio IX e Giovanni XXIII e ora Francesco canonizza Roncalli e Wojtyła, beatificato nel 2011 da Benedetto XVI.
La santità papale sembra dunque per l’età più antica tanto tradizionale quanto idealizzata. E addirittura mitizzata per il martirio, storicamente accertato solo per alcune figure di Pontefici dei primi tre secoli, anche se in seguito non mancano altri Papi martiri, come Silverio e Martino I. Nei secoli XI e XII, proprio quando la santità papale sembra divenuta molto meno frequente, questa dimensione agiografica sostiene ideologicamente i progetti di riforma e rilancio del papato. Mezzo secolo dopo l’affermazione del “Dictatus papae” (1075) di Gregorio VII – secondo la quale «il romano Pontefice, se sia stato ordinato canonicamente, per i meriti del beato Pietro senza dubbio diviene santo» – nell’oratorio lateranense di San Nicola, voluto da Callisto II (1119-1124), i grandi Papi santi della tradizione Leone e Gregorio aprono la serie dei Pontefici riformatori contemporanei, cioè quelli succedutisi tra il 1061 e il 1119, che sono denominati appunto “santi”.
La rarefazione successiva della santità papale rende più evidente il suo rilancio da parte di Pio IX e soprattutto di Leone XIII. Questi confermano culti locali – o ristretti agli ordini religiosi di appartenenza – di Pontefici medievali. Nel 1892 Papa Pecci fa traslare le spoglie di Innocenzo III dalla cattedrale di Perugia a San Giovanni in Laterano, in un sepolcro in corrispondenza del quale viene poi eretto il suo stesso monumento funebre. E questo proprio quando l’affermazione del papato (sia sul piano della dottrina sia nel contesto internazionale) e la devozione papale si manifestano come reazione alla perdita del potere temporale.
Il cambiamento decisivo nelle cause papali contemporanee arriva però con Pio XII, perché dal riconoscimento del culto di Papi cronologicamente molto lontani si passa alla ripresa di cause molto più vicine nel tempo. Innanzi tutto quella di Pio X (1903-1914): i processi locali erano stati aperti dieci anni dopo la morte del Pontefice che lo stesso Pacelli aveva servito in Segreteria di Stato; la causa, introdotta nel 1943, fu portata rapidamente a termine con la beatificazione (1951) e la canonizzazione (1954), oltre due secoli dopo quella dell’ultimo Papa proclamato santo (Pio V, nel 1712). Seguì la beatificazione di Innocenzo XI (1676-1689), predisposta già nel 1691 ma presto bloccata, e riaperta nel 1944 per volere di Pio XII, che beatificò il suo predecessore seicentesco nel 1956.
Meno di un decennio più tardi, nel 1965, Paolo VI, di fronte alla contrapposizione tra le figure dei suoi due immediati predecessori, Pio XII e Giovanni XXIII, e alla proposta di canonizzare il secondo al di fuori delle procedure già due anni dopo la morte, annuncia l’avvio simultaneo per via ordinaria di entrambe le cause, senza nasconderne la motivazione: «Sarà così assecondato il desiderio, che per l’uno e per l’altro è stato in tal senso espresso da innumerevoli voci; sarà così assicurato alla storia il patrimonio della loro eredità spirituale; sarà evitato che alcun altro motivo, che non sia il culto della vera santità e cioè la gloria di Dio e l’edificazione della sua Chiesa, ricomponga le loro autentiche e care figure per la nostra venerazione e per quella dei secoli futuri».
Di fatto frenate dal provvedimento di Papa Montini, le due cause papali procedono piuttosto lentamente e finiscono per intrecciarsi con quella di Pio IX, i cui processi informativi erano iniziati già nel 1907 ma che era stata introdotta nel 1954, nel quinquennio di esaltazione agiografica del pontificato racchiuso tra le due beatificazioni di Pio X e Innocenzo XI celebrate da Papa Pacelli. Fino all’esito della duplice beatificazione giubilare del 3 settembre 2000, nella quale tuttavia Pio IX prende il posto di Pio XII.
Nella storia di questa nuova santità papale s’iscrive poi l’introduzione di nuove cause di canonizzazione: di Paolo VI nel 1993, di Giovanni Paolo I nel 2003 e dello stesso Giovanni Paolo II nel 2005, meno di due mesi dopo la morte. Wojtyla è poi beatificato nel 2011 e ora canonizzato insieme a Giovanni XXIII. In una proposta nuova della santità papale, certo non consueta nella tradizione medievale e moderna, ma che agli inizi del XXI secolo sembra oltrepassare i confini visibili della Chiesa cattolica per rivolgersi anche a mondi in apparenza lontani. (g.m.v.)
(Da “L’Osservatore Romano” del 27 aprile 2014)
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(*): Giovanni Maria Vian, direttore de “L’Osservatore Romano”, filologo e storico della Chiesa, autore di questa nota, è anche l’autore delle note a piè di pagina che accompagnano nell’Annuario Pontificio l’elenco di tutti i pontefici della storia.
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Quattro Papi per la riforma nella continuità
di Massimo Introvigne

La grande «festa della fede» del 27 aprile 2014, come l’ha definita Papa Francesco al Regina Coeli, ha già offerto materia di riflessione anche ai sociologi, che certo continueranno ad analizzarla per qualche tempo. Non è solo il milione di pellegrini a Roma – anche se forse erano di più delle cifre ufficiali – a meritare un’analisi. Ci sono state altre riunioni religiose con folle più grandi: il record è proprio di san Giovanni Paolo II (1920-2005), che radunò cinque milioni di persone a Manila, nelle Filippine, per la Giornata Mondiale della Gioventù del 1995. Colpisce stavolta l’eco planetaria, i maxischermi in tante città, le televisioni di oltre cento Paesi, Internet, la stima di oltre un miliardo di persone che hanno seguito l’evento nel mondo. Manila 1995 fu una festa soprattutto per le Filippine, Roma 2014 è stata una festa mondiale. La partecipazione corale ha coinvolto ortodossi, protestanti, ebrei, perfino alcuni musulmani: e hanno colpito semmai per la loro «separatezza» i pochi irriducibili che si sono chiamati fuori come i Testimoni di Geova, per cui le canonizzazioni sono «riti pagani».
Da tempo la politica non è più in grado di organizzare adunate oceaniche: perfino in Cina non se ne fanno più, per evitare scomodi paragoni con il passato. Regge, come evento planetario, il calcio – molto meno altri sport –, dove però si celebrano, come i sociologi hanno scoperto da tempo, identità nazionali e locali in conflitto fra loro, mentre la Chiesa propone l’unità e l’universalità. Qualche commentatore – anche dotato di qualifiche accademiche – ha criticato la spettacolarità dell’evento di Piazza San Pietro, la televisione commerciale in 3D (che a me personalmente non è dispiaciuta), il tono inevitabilmente celebrativo che sembrerebbe in contrasto con lo stile di Papa Francesco. Ma forse tutto questo non è poi così lontano dal messaggio dei santi Giovanni XXIII (1881-1963) e Giovanni Paolo II, i quali – consapevoli che la moderna comunicazione di massa non può essere combattuta con successo – anziché contrastarla la abbracciarono, diventando rapidamente icone planetarie. Del resto, già il venerabile Pio XII (1876-1958) aveva raggiunto il mondo tramite la radio.
Per comprendere il senso dell’evento dobbiamo guardare però all’omelia di Papa Francesco, e anche al forte desiderio del Pontefice regnante di avere con sé nella concelebrazione Benedetto XVI, desiderio accolto di buon grado dal Papa emerito. I quattro Papi di cui tutti hanno parlato – due concelebranti e due canonizzati – hanno trasmesso infatti esattamente il messaggio che Papa Francesco aveva in mente: il messaggio, che è poi al centro del Magistero di Benedetto XVI, della riforma nella continuità dell’unico soggetto Chiesa. La Chiesa non avanza nella storia in modo tranquillo e lineare. È «semper reformanda»: procede attraverso riforme frequenti, spesso sconcertanti per chi le vive, e tuttavia – insegnava Papa Ratzinger – sempre da leggere non in contraddizione ma in continuità, talora difficile, con il Magistero precedente, perché il soggetto Chiesa che avanza nella storia è uno solo e non cambia.
È un soggetto dove coesistono trionfo e dolore. L’omelia di Papa Francesco è partita dalle «piaghe gloriose di Gesù risorto». Perché, si è chiesto il Papa, nel corpo di Gesù dopo la Resurrezione «le piaghe non scompaiono»? Perché, se da una parte sono «scandalo per la fede», sono anche «verifica della fede». Restano anche dopo la Resurrezione, «perché quelle piaghe sono il segno permanente dell’amore di Dio per noi, e sono indispensabili per credere in Dio. Non per credere che Dio esiste, ma per credere che Dio è amore, misericordia, fedeltà. San Pietro, riprendendo Isaia, scrive ai cristiani: “Dalle sue piaghe siete stati guariti”».
Il Pontefice non ha citato il beato Antonio Rosmini (1797-1855), che a questo tema aveva dedicato profonde riflessioni, ma è apparso evidente il paragone fra le piaghe di Cristo e le ferite della Chiesa. Dire, come ha fatto Papa Francesco, che san Giovanni XXIII e san Giovanni Paolo II non si sono vergognati delle piaghe di Cristo e hanno avuto il coraggio di abbracciarle significa anche dire che hanno abbracciato la Chiesa: con la sua gloria imperitura, ma anche con le sue umane imperfezioni, con le ferite inferte dal mondo – in particolare dalle ideologie del XX secolo –, con la sua necessità costante di guarigione e di riforma. «Sono stati sacerdoti, e vescovi e papi del XX secolo. Ne hanno conosciuto le tragedie, ma non ne sono stati sopraffatti. Più forte, in loro, era Dio; più forte era la fede in Gesù Cristo Redentore dell’uomo e Signore della storia; più forte in loro era la misericordia di Dio che si manifesta in queste cinque piaghe; più forte era la vicinanza materna di Maria».
La speranza e la gioia dei due santi Pontefici sono «passate attraverso il crogiolo della spogliazione, dello svuotamento, della vicinanza ai peccatori fino all’estremo, fino alla nausea per l’amarezza di quel calice. Queste sono la speranza e la gioia che i due santi Papi hanno ricevuto in dono dal Signore risorto e a loro volta hanno donato in abbondanza al Popolo di Dio, ricevendone eterna riconoscenza».
Quale riforma i due nuovi santi hanno proposto alla Chiesa? Qui Papa Francesco ha affrontato – e non poteva essere altrimenti, considerato il ruolo dei due Pontefici canonizzati – il tema, che a differenza di Benedetto XVI tratta di rado, del Concilio Vaticano II e della sua corretta interpretazione. «Nella convocazione del Concilio san Giovanni XXIII – ha detto Francesco – ha dimostrato una delicata docilità allo Spirito Santo, si è lasciato condurre ed è stato per la Chiesa un pastore, una guida-guidata, guidata dallo Spirito. Questo è stato il suo grande servizio alla Chiesa; per questo a me piace pensarlo come il Papa della docilità allo Spirito Santo». Ma che cosa voleva e doveva essere, davvero, il Concilio? Risponde Papa Francesco – sulla scia di san Giovanni XXIII che lo convocò, e di san Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI che, dopo avervi partecipato, cercarono di riportarne l’interpretazione alle intenzioni originarie – che il Vaticano II voleva «ripristinare e aggiornare la Chiesa secondo la sua fisionomia originaria, la fisionomia che le hanno dato i santi nel corso dei secoli. Non dimentichiamo che sono proprio i santi che mandano avanti e fanno crescere la Chiesa».
L’interpretazione dell’«aggiornamento» – un’espressione tipica di Papa Giovanni – coincide esattamente con quella proposta da Benedetto XVI: un «ripristino della fisionomia originaria», un «ressourcement», un ritorno alle sorgenti per l’evangelizzazione di un mondo postcristiano, secondo la formula coniata al Concilio dai padri della cosiddetta «alleanza renana» di cui Papa Ratzinger nel commiato dai parroci romani dopo le dimissioni, del 14 febbraio 2013, ha orgogliosamente rivendicato di avere fatto parte al Vaticano II, come giovane teologo ma non con un ruolo secondario. Certo, sappiamo – e lo affermava in quell’intervento anche Benedetto XVI – che la formula del «ritorno alle origini» fu deformata e manipolata nel postconcilio. Ma essa continua a descrivere correttamente la missione del Vaticano II e la sua riforma. Benedetto XVI – e per questo è significativa la sua presenza a concelebrare in Piazza San Pietro – non ha mai messo in discussione la riforma in nome della continuità, ma ha chiesto a tutti di accettare le riforme lealmente, certo interpretandole nel senso della continuità ma senza mai cercare di svuotarle della loro carica rinnovatrice e meno ancora di rifiutarle in nome del passato.
Lo snodo difficile tra riforme e continuità non è finito con il Vaticano II, e non si esaurisce con la sua interpretazione. Continua oggi, e continuerà domani. Per questo Papa Francesco ha voluto concludere la sua omelia ricordando che il nuovo santo «Giovanni Paolo II è stato il Papa della famiglia. Così lui stesso, una volta, disse che avrebbe voluto essere ricordato, come il Papa della famiglia». «Mi piace sottolinearlo – ha detto Francesco – mentre stiamo vivendo un cammino sinodale sulla famiglia e con le famiglie, un cammino che sicuramente dal Cielo lui accompagna e sostiene. Che entrambi questi nuovi santi Pastori del Popolo di Dio intercedano per la Chiesa affinché, durante questi due anni di cammino sinodale, sia docile allo Spirito Santo nel servizio pastorale alla famiglia. Che entrambi ci insegnino a non scandalizzarci delle piaghe di Cristo, ad addentrarci nel mistero della misericordia divina che sempre spera, sempre perdona, perché sempre ama».
San Giovanni Paolo II ha istituito la festa della Divina Misericordia, ne ha canonizzato l’apostola santa Faustina Kowalska (1905-1938), è morto alla vigilia della festa della Misericordia ed è stato canonizzato nella domenica della Misericordia. La festa globale del 27 aprile è stata la grande festa della misericordia. Non era il momento per chiedersi come la misericordia nei due sinodi che verranno – quello straordinario sulla famiglia e quello ordinario che lo seguirà – sarà declinata insieme alla fedeltà e alla verità. Né come la riforma, se ci sarà, sarà declinata insieme alla continuità. Ma la presenza insieme in Piazza San Pietro di quattro Papi riformatori – nell’elenco va certo incluso anche Benedetto XVI, perché l’invenzione del suo attuale ruolo di Papa emerito non è certo la meno sorprendente delle riforme recenti nella Chiesa – è stata voluta e cercata per dare appunto a tutti un senso visibile della riforma nella continuità.

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La santità è la chiave della continuità
di Riccardo Cascioli
«Sono proprio i santi che mandano avanti e fanno crescere la Chiesa». Questo passaggio di papa Francesco nell’omelia della messa di canonizzazione di Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II, può apparire scontato e perfino banale, ma in realtà è la chiave per capire ciò che unisce personalità tanto diverse e in che senso si parla di continuità.
La continuità di cui parliamo a proposito della Chiesa non ha infatti niente a che vedere con la “linea” di un partito o con le “tradizioni” di una tribù, ma è la fedeltà all’origine, cioè a Cristo. Il santo è definito proprio dall’adesione a Cristo, dall’immedesimazione con Lui, dal conformarsi a Lui: «Non sono più io che vivo ma è Cristo che vive in me», dice San Paolo (Gal 2,20). Non è dunque un modello di perfezione, fosse pure morale, né una sorta di superuomo che fa tutte le cose giuste, ma un uomo vero la cui vita è dominata dal desiderio di Cristo. «Il santo è un uomo vero – diceva don Luigi Giussani – perché aderisce a Dio e quindi all’ideale per cui è stato costruito il suo cuore, e di cui è costituito il suo destino».
Per questo si può fare una festa unica e parlare di continuità per due personalità così diverse, che hanno anche avuto storie personali ed ecclesiali molto diverse e con approcci pastorali altrettanto diversi. E il discorso dei due Papi può allargarsi a tutta la storia della Chiesa. La continuità di duemila anni di storia sta in questo incessante ritorno all’origine scandito dal fiorire della santità.
Anche nell’Antico Testamento tutto il dramma del popolo ebraico è in questo allontanarsi e ritornare a Dio, all’origine. Così la storia della Chiesa: nei periodi di crisi sono i santi che “riformano” Chiesa e ordini religiosi. E la riforma consiste sempre in questo ritorno a Cristo, nell’adesione totale a Lui, anche se questa poi si manifesta in forme diverse, attraverso temperamenti diversi, con valutazioni storiche anche diverse. 
E’ anche ciò che rende affascinante la santità, e lo si vedeva dal milione e più di persone che ieri erano in piazza San Pietro e dintorni e che già dai giorni precedenti aveva invaso Roma e soprattutto le sue chiese. Non si era a celebrare delle star lontane dalla nostra vita quotidiana, ma uomini che avevano portato a compimento nella loro vita ciò per cui ognuno di noi è fatto, ciò a cui ognuno di noi si sente chiamato. Peraltro, proprio quella folla sta a dirci che la santità smuove il mondo, non è un fatto che si consuma al chiuso, ma esplode e genera un grande movimento.
La santità è per tutti, e i santi come Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II non sono anzitutto dei modelli ma dei compagni di strada, delle guide che ci sostengono nel cammino comune verso il compimento del destino. Amici che possiamo pregare perché il nostro cuore non si perda.
Se nella società intorno a noi vediamo lo sfacelo, e anche nella Chiesa vediamo spesso trionfare la confusione quando non il tradimento, a maggior ragione non è il momento di perdersi in inutili intellettualismi o in guerre ideologiche, ma è il momento di chiedere con più forza la nostra conversione e il desiderio profondo di appartenere a Cristo.

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Voci da Piazza San Pietro
di Claudia Di Lorenzi

“Questo chiasso ha sentito Roma e non lo dimenticherà mai”. Papa Giovanni Paolo II, da oggi Santo della Chiesa universale, insieme a Papa Giovanni XXIII, chiudeva così la storica veglia della Giornata Mondiale della Gioventù che si è tenuta a Roma, nella spianata di Tor Vergata, nell’agosto del 2000. E quello stesso chiasso ha accompagnato l’attesa per la veglia di preghiera della notte scorsa, quella che ha preceduto l’appuntamento tanto atteso della canonizzazione. Ancora una volta a farla da protagonisti, fra pellegrini giunti a Roma da ogni continente, sono stati  proprio loro, i giovani, che hanno “introdotto” le meditazioni della notte pregando a modo loro: canti, balli ed un vociare diffuso parlano di cuori in festa, colmi di gioia e di gratitudine. È la strada della felicità, infatti, quella che i due Papi Santi hanno mostrato ai giovani, quella che passa per la sequela  di Cristo e la docilità all’azione dello Spirito Santo. Una strada offerta all’umanità intera, un cammino lungo il quale l’uomo riempie di senso la propria esistenza e trova risposta ai suoi interrogativi più profondi. “Non abbiate paura, spalancate le porte a Cristo” è il messaggio che resta impresso nell’animo dei più.
Sono «parole che danno serenità e tranquillità alla mia vita, mi esortano a credere in un progetto di vita, che è quello che Dio ha per noi e che noi siamo chiamati ogni giorno a scegliere e a costruire, ma con la pace nel cuore» dice Teresa, di Bari, che guida un gruppo dell’Azione Cattolica. Per Teresa «Giovanni Paolo II è stato un testimone, l’unico Papa che noi giovani abbiamo conosciuto da vicino, il papa delle GMG, delle nostre feste e dei nostri momenti di incontro. La notizia della sua canonizzazione ha dato conferma ad una fama di santità diffusa da tempo: già in vita Karol Wojtyla è stato esempio di una fede forte, salda fino alla fine, che gli ha permesso di portare avanti il suo Pontificato nonostante l’esperienza del dolore e della malattia. È stato significativo per il popolo di Dio vedere il Papa aggrappato alla croce fino alla fine. Quella della malattia, ma anche quella reale: ricordiamo che morì poco dopo la Pasqua, e tra le sue ultime immagini c’è quella in cui, nel venerdì santo, il Papa seguiva la via Crucis dalla sua cappella privata in Vaticano, abbracciando il crocifisso. La sua è stata una imitazione della figura di Cristo portata avanti fino alla fine». Su Giovanni XXIII – dice ancora Teresa – per ragioni anagrafiche «abbiamo imparato a conoscerlo studiando: siamo negli anni che celebrano tutto il Concilio Vaticano II, il cui anniversario si conclude nel 2015, e a lui siamo grati per quella intuizione che lo spinse a convocare a Roma i pastori di tutta la Chiesa per un momento di riflessione sulla fede in un mondo in evoluzione. È frutto del Concilio anche una maggiore apertura ai laici nella Chiesa, e noi che siamo qui oggi, impegnati in associazioni cattoliche, siamo il frutto di quella maturazione».
Anche Fabio, 24 anni, romano, ammette che per i giovani della sua età l’attenzione maggiore va alla canonizzazione di Papa Giovanni Paolo II. «Ricordo con grande emozione l’ultima sua settimana di vita - dice con commozione - ed in particolare quella volta in cui si affacciò alla finestra del palazzo apostolico e non riuscì a proferire parola». Ma anche i ragazzi più giovani sanno cogliere la portata della figura di Giovanni XXIII: «il suo miracolo è stato quello dell’intuizione del Concilio. Fermiamoci a pensare che cosa sarebbe la Chiesa oggi se quel Papa cosiddetto di “transizione” non ci fosse stato: la sua è stata una svolta epocale. È chiamato il "Papa buono", ma si tratta di un fatto caratteriale, di temperamento, quello che conta invece è il contributo concreto che ha dato alla Chiesa».
Alla notte della veglia a Tor Vergata torna col pensiero Marco, 25enne, anche lui di Roma: «Fra i messaggi di Papa Giovanni Paolo II sento particolarmente mio l’appello a farci “sentinelle del mattino”, una generazione di Santi. Non è utopia, è l’invito alla  santità del quotidiano, nel lavoro o nel servizio educativo con i ragazzi o in parrocchia. In fondo per essere santi non bisogna fare nulla di eccezionale, io cerco di farlo donando il mio tempo agli altri, con amore e  con sentimenti cristiani. La santificazione è forse solo mettere nero su bianco qualcosa che nella vita è già stato scritto». Su Giovanni Paolo II – continua Marco - «era chiaro fin dal giorno dei suoi funerali, quando in piazza San Pietro i pellegrini esposero striscioni con la scritta “Santo Subito”, che sarebbe stato riconosciuto appunto come Santo: la sua canonizzazione rappresenta il giusto coronamento di un lungo pellegrinaggio qui sulla terra. Era un riconoscimento giusto per lui, anche se il suo essere un globe trotter della fede - come alcuni lo chiamavano - gli ha conquistato molti amici si, ma anche alcuni “nemici”, per così dire, persone che lo ostacolavano».
Di certo Karol Wojtyla portò un rinnovamento profondo nella Chiesa, e questa novità investì anche l’immagine stessa del pontefice: fu il Papa più a suo agio nel rapporto con i mass media e nella comunicazione in generale, e non si sottrasse al popolo dei fedeli né ai mezzi di comunicazione neanche quando le sue condizioni di salute si fecero particolarmente gravose. Anche l’approccio al tema della malattia e del dolore segnò una discontinuità col passato. È ciò che evidenzia Annamaria, oncologo, entrando in chiesa: «negli ultimi 20 anni in campo medico il dolore è stato affrontato nei termini di qualcosa che andava combattuto, eliminato con ogni mezzo, e non mai “offerto” per qualcosa o per qualcuno. Giovanni Paolo II ci ha insegnato cosa significa “offrire” il dolore. Ne parlavo proprio nei giorni scorsi con una collega – paziente: lei provava una sofferenza fisica difficile da lenire e mi ha detto che offrendo il suo dolore provava sollievo. Il dolore nella cultura medica è stato demonizzato, mentre invece va riscoperto e compreso». Annamaria si sofferma anche sulla dimensione psicologica della sofferenza e osserva: «mi ha colpito molto la sua vita prima dell’inizio del pontificato, in Polonia, la resistenza, il coraggio che ha infuso ai giovani, ed anche come lui è riuscito a superare i lutti che lo hanno colpito in così giovane età con la preghiera».
Don Leo, è un giovane sacerdote che viene dalla Diocesi di Chieti-Vasto: «con i giovani abbiamo fatto un percorso di preparazione a questo momento per comprendere che la Chiesa è sempre giovane perché si rinnova e che la santità non è una meta irraggiungibile ma è alla portata di tutti». E sul suo vissuto personale aggiunge: «A Giovanni Paolo II sono molto legato, di lui ricordo che a stargli vicino ci si rendeva conto che sprigionava una luce che parlava di santità; da lui che ha istituto le Giornate Mondiali della Gioventù, ho imparato una Chiesa che non ha paura di stare con i giovani, che è sempre in cammino contro ogni nostalgia tradizionalista, una Chiesa che è in dialogo con l’uomo contemporaneo, una Chiesa per il mondo, non una Chiesa chiusa in se stessa che si difende dal mondo».
Infine, Facundo, argentino di Buenos Aires, che ci confida l’amarezza per non aver preso parte alla Beatificazione di Karol Wojtyla, ma anche la gioia immensa quando ha capito che avrebbe potuto raggiungere l’Italia per la canonizzazione, e salutare di nuovo da vicino il “suo Bergoglio”. Entusiasta racconta: «Giovanni Paolo II ha segnato molto il cammino della mia vita, attraverso le giornate mondiali e gli altri incontri con i giovani. Sono stato mercoledì scorso a seguire l’udienza di Papa Francesco e un gruppo di giovani spagnoli cantava una canzone a Giovanni Paolo II: il mio cuore si scioglieva per l’emozione. Credo che il messaggio più forte che Papa Wojtyla ha lasciato, e che oggi ci propone anche Bergoglio, è l’invito a mettere Dio al centro della nostra vita, ed è ciò che più fortemente mi colpisce. E poi il messaggio della Divina Misericordia, che accomuna i due Papi».
E mentre Facundo continua il suo racconto, pian piano il chiasso crescente si spegne, il piazzale si svuota e la chiesa a due passi da San Pietro si fa colma di pellegrini in preghiera. Sale un canto leggero, il clamore lascia spazio al silenzio. Comincia la veglia. Ma questa è un’altra storia.
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