venerdì 18 aprile 2014

Per i nostri peccati



Cristo sulla croce.

(Inos Biffi) Cristo è «il sacrificio propiziatorio per i peccati nostri e di quelli di tutto il mondo»: lo afferma Giovanni nella sua Prima lettera (2, 2). Ma occorre comprendere bene questo sacrificio. Esso non è assolutamente un riscatto che Cristo ha pagato per noi a Satana, il quale in realtà non è detentore di diritto alcuno ed è assolutamente abbattuto.

E neppure una pena imposta da Dio a Gesù, quale nostro rappresentante, perché essa compensi il peccato commesso dall’uomo, e così che ne sia ottenuto il perdono. In realtà, il perdono proviene non da una compensazione ma sempre dalla ricchezza della misericordia divina, o — come afferma l’apostolo Paolo — dall’«eccessiva carità con cui Dio ci ha amato» (Efesini, 2, 4).
Quanto al sacrificio della Croce, esso trova la sua origine nell’amore di Gesù verso il Padre. D’altronde, solo il Figlio di Dio può avere l’adeguata consapevolezza e il giusto giudizio della gravità dell’offesa; solo lui, che ne ha patito in sé tutto il peso e la gravità. Cristo, infatti, ascende al Calvario non per una forza esterna che ve lo costringa. «Io vengo — egli dichiara — per fare la tua volontà» (Ebrei, 10, 7). La motivazione che lo spinge è il desiderio amoroso e il bisogno filiale di riparare tale offesa col dono di sé al Padre: egli si avvia all’immolazione — sono le sue stesse parole — «affinché il mondo sappia che io amo il Padre» (Giovanni, 14, 31).
È noto un colloquio negli Esercizi spirituali di sant’Ignazio, che sono tutti pervasi da un’ispirazione e da un intento mistico: «Immaginandomi di avere davanti Cristo nostro Signore posto in Croce, fare un colloquio domandandogli come mai se Creatore è venuto a farsi uomo, e da eterna vita a morte temporale, e a morire così per i miei peccati. Similmente, rimirando me stesso, chiedere che cosa ho fatto io per Cristo, che cosa faccio per Cristo, che cosa devo fare per Cristo» (n. 43). Si può avere il senso del peccato solo partecipando ai sentimenti di Gesù crocifisso. Il quale non è un uomo puramente inchiodato e oppresso dal dolore, che non è come tale redentivo, ma porta alla disperazione, all’annullamento. Sul Legno noi troviamo, invece, il Figlio di Dio paziente, amante e affidato. Noi siamo redenti dalla sua sofferenza in quanto essa è segno e come corpo dell’amore che nutre per il Padre.
Morendo, Gesù si affida tutto a lui, quasi si perde e si fonde in lui, e per questo egli sente al suo contatto riaccendersi una vita nuova nella risurrezione. E, mentre è tradizione al Padre, il sacrificio di Cristo è tradizione a noi. «Il Figlio di Dio — è detto in Paolo — mi ha amato e ha consegnato se stesso per me» (Galati, 2, 20).
Il Crocifisso è l’antitesi del peccato, a cominciare dal peccato originale. Questo consistette nel sottrarsi a Dio, nell’infastidirsene, nel ribellarsi alla sua signoria, nel rifiuto di amare Dio e di amare il prossimo (ecco l’uccisione di Abele). Gesù in croce rappresenta il «sì» assoluto al Padre celeste: il suo «sì» sofferto fino al sudore di sangue nell’Orto degli ulivi. Il principio del peccato è l’assenza dell’amore — l’inferno e la dannazione è lo stato gelido di quanti non sanno e non sapranno più amare —; la fonte della redenzione è la presenza e l’opera dell’amore e del suo ardore. Per questo il paradiso è la gloriosa comunione dei santi.
L'Osservatore Romano