martedì 1 aprile 2014

In sintonia con i giovani



Il cardinale Dziwisz nell’anniversario della morte di Wojtyła. 

(Nicola Gori) Il 2 aprile 2005 moriva il beato Giovanni Paolo II. Si concludeva così il lungo pontificato del Papa polacco. Un testimone d’eccezione di questi ventisette anni e dell’episcopato di Wojtyła in Polonia è il suo segretario Stanisław Dziwisz, attuale cardinale arcivescovo di Cracovia. In questa intervista al nostro giornale — a meno di tre settimane dalla domenica della Divina misericordia, quando Papa Francesco eleverà Giovanni Paolo II agli onori degli altari insieme con Giovanni XXIII — il cardinale ripercorre alcuni momenti della vita di Wojtyła e il suo legame con la giornata mondiale della gioventù, che nella prossima edizione si svolgerà proprio a Cracovia.
Come vive questo momento lei che gli è stato accanto per tanti anni?
Sono stato segretario di Karol Wojtyła per dodici anni a Cracovia e poi durante l’intero arco del suo pontificato. Questo lungo periodo trascorso al suo fianco ha lasciato in me un segno. Tanti avvenimenti scorrono sotto i miei occhi, a cominciare dalla novità dell’elezione di un Papa non italiano dopo 455 anni. Ancora più vivo è il ricordo del drammatico attentato in cui ha rischiato di perdere la vita nel 1981. Senza contare i suoi numerosi viaggi pastorali e i grandi cambiamenti verificatisi in quel periodo in Europa e nel mondo. Tutta la sua vita ha segnato la storia. Tutti noi siamo convinti di aver vissuto accanto a un uomo santo.
A lasciare un segno nella coscienza dell’umanità non è stata solo la sua esistenza ma anche la sua morte. Come l’ha vissuta?
Col passare degli anni ci aveva già preparato a quegli ultimi istanti, al momento doloroso della sua morte. Lo ha vissuto con serenità e con la certezza della risurrezione. Diceva: «Tutta la mia vita è indirizzata verso Dio e adesso è arrivato il momento del passaggio all’altra». È stato cosciente quasi fino alla fine, anche se non possiamo dire con certezza quando abbia perso conoscenza. Prima di morire ha celebrato la messa della Divina misericordia. Si è comunicato con qualche goccia del sangue di Cristo per prepararsi al passaggio all’altra vita. Poi ha recitato il mattutino, l’ufficio delle ore. Mi piace ricordare che negli ultimi minuti ha pregato l’orazione della domenica del giorno successivo, quello della Divina misericordia. Ed è morto recitando proprio il mattutino della festa. Così tutta la sua vita, dall’inizio alla fine, è stata unita al mistero della Divina misericordia. In tal modo ci ha offerto il programma per questo millennio: la Divina misericordia. Il mondo non avrà pace se non si volgerà a essa.
Il rapporto con i giovani è stato molto particolare. È forse per questo che i giovani lo amano ancora così tanto?
Lo amano essenzialmente perché è stato un uomo di speranza. Egli indicava loro una strada non certo facile, ma sicura. E i giovani lo percepivano. Per questo correvano dietro di lui. La sua santità conferma che la strada che ha percorso — da giovane fino all’ultimo momento della sua vita — era quella giusta. Anche negli ultimi giorni di vita, Giovanni Paolo II ha voluto rivolgere il pensiero ai giovani, ai quali ha raccomandato: «Non abbiate paura di essere santi, perché i santi fanno la storia e lo sviluppo della società».
Come è nata l’idea delle giornate mondiali della gioventù?
È maturata all’inizio degli anni Ottanta, soprattutto dopo i grandi incontri del Papa con i giovani svoltisi nel 1980 al Parc des Princes di Parigi e a Roma nel 1984, per l’Anno santo della redenzione, e nel 1985, per l’Anno internazionale della gioventù. In quelle occasioni Giovanni Paolo II ha visto e ha capito che i giovani cercavano una guida. Egli conosceva perfettamente la loro anima, perché era stato sempre vicino a loro, prima da prete, poi da vescovo e infine da Pontefice.
Quale messaggio ha voluto trasmettere con questa iniziativa?
Credo che il messaggio più importante sia anzitutto quello della testimonianza da offrire al mondo. Tramite i giovani la Chiesa dimostra che è sempre viva e capace di rinnovarsi. E si rinnova anche grazie alle giornate della gioventù.
Con Papa Francesco sta cambiando qualcosa nel rapporto con i giovani?
È sotto i nostri occhi la novità che ha portato Papa Francesco. Ciascun Pontefice ha i propri carismi. Bergoglio ha soprattutto il carisma della vicinanza alla gente e i fedeli lo percepiscono. In Argentina era pastore della grande diocesi di Buonos Aires, perciò comprende le povertà e le debolezze delle persone, e cerca di dare risposte a tutto questo. Confrontando i suoi gesti con quelli di Giovanni Paolo II posso dire che sono simili, anche se non uguali.
Come avete accolto la notizia che la prossima giornata mondiale della gioventù si svolgerà a Cracovia?
Cracovia e la Polonia si rallegrano, perché — dopo l’edizione del 1991 celebrata a Częstochowa — diventeranno la città e il Paese della gioventù. La prossima gmg si svolgerà dal 25 luglio al 1° agosto 2016, nel grande parco alla periferia della città chiamato Błonie. Siamo molto contenti che Papa Francesco abbia preso questa decisione e di questo si rallegra tutta la Polonia. Ogni diocesi si impegnerà per la buona riuscita di questo evento. Ma soprattutto si daranno da fare i giovani stessi che metteranno il loro entusiasmo al servizio di questo avvenimento. Le gmg sono legate a filo doppio a Giovanni Paolo II. E questa edizione lo sarà ancora di più. Vogliamo dedicarla al suo ricordo, alla sua santità, alla sua grande attenzione verso i giovani. Sarà anche un’occasione per ringraziarlo del grande amore verso le nuove generazioni, di tutto quello che ha fatto per loro e ha lasciato in eredità.
State già lavorando per organizzare il raduno?
Cracovia si sta aprendo. Risplenderà di gioia all’arrivo di migliaia di giovani da tutto il mondo. Voglio invitare formalmente, a nome di tutta la Chiesa che è in Cracovia, la gioventù dei cinque continenti. Ci impegniamo ad accoglierli cordialmente nel nome di Cristo e chiediamo loro di tornare a casa portando nel cuore il messaggio di Gesù, quello che Giovanni Paolo II ha lasciato in eredità a tutti noi.
Sarà una vera e propria sfida per la Chiesa di Cracovia...
La nostra diocesi può offrire al mondo un esempio di fedeltà. La Chiesa polacca è sempre stata fedele ai valori del Vangelo, alla Santa Sede. È stata sempre unita a Roma: questa è la sua forza e la forza del popolo polacco, che ha superato ogni genere di difficoltà sotto il regime nazista e poi sotto quello comunista. La Chiesa in Polonia sapeva infatti che qualcuno a Roma pensava a lei e questo le dava speranza.

L'Osservatore Romano

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Giovanni XXIII

Quando Giovanni XXIII “fuggiva” dal Vaticano seminando i gendarmi   

I racconti del decano di anticamera Guido Gusso. “La gente lo riconosceva e urlava ‘Ah Giovannì nostro!’”. Il cancello vicino al cimitero di Albano, i quadri appesi ai piedi della scala, le cimici, la foto mancata con il primate anglicano

IACOPO SCARAMUZZICITTÀ DEL VATICANO
Un paio di volte in giro per Roma, svariate altre lungo i Colli Albani. Papa Giovanni XXIII, presto santo, “fuggiva” dal Vaticano e dal palazzo apostolico di Castel Gandolfo, seminando i gendarmi con stratagemmi coloriti, di solito con la sua cadillac Chrysler, altre volte a bordo di una Opel Record colori avorio e blu. A raccontare questo e altri episodi del pontificato di Angelo Roncalli (1958-1963) è stato il suo decano di anticamera Guido Gusso (il proprietario della Opel bicolore), intervenuto oggi alla presentazione della digitalizzazione dell’archivio sonoro dei Papi alla sede della Radio vaticana.


“Dopo otto giorni che passeggiavamo nei giardini vaticani lui ha detto: ‘Ma è sempre lo stesso giro! Portami al fontanone del Gianicolo, a villa Borghese!’”, ha raccontato il “maggiordomo” di Papa Giovanni. “Erano luoghi che lui conosceva perché aveva studiato a Roma. Io gli rispondevo: ‘Santità, non si può’. E lui: ‘Ma come non si può? Prendi la macchina e andiamo’. E i gendarmi diventavano matti perché non sapevano dov’era finito il Papa”. La scena si ripeteva durante i periodi a Castel Gandolfo. “Una volta gli raccontai che ero stato ai Pratoni del Vivaro, che sono lì vicino e somigliano un po’ a Sappada, dalle nostre parti. Lui era curioso, voleva vederli. Allora disse: ‘Facciamo una cosa, c’è un cancello (della villa pontificia di Castel Gandolfo, ndr.) vicino al cimitero di Albano. Fatti dare le chiavi. Apri, e lasciamo aperto per una decina di giorni, così nessuno capisce cosa sta succedendo’. Poi una volta che stavamo nei giardini, lui mi dice ‘Prendiamo la macchina, facciamo qualche giro in più così ubriachiamo i gendarmi, poi apri il cancello e andiamo’. Siamo andati al Vivaro. La gente lo riconosceva anche perché andavamo a passo d’uomo. Poi arrivati al bivio tra Artena e Frascati io gli ho domandato dove voleva che andassimo, e lui mi ha risposto: ‘Torniamo a casa, sennò Capovilla (il segretario personale del Papa, ndr.)…’. Quando siamo passati attraverso Marino, la strada era stretta e piena di gente, era pomeriggio, la folla lo ha riconosciuto, hanno iniziato a gridare, ‘Viva il Papa!’, ‘Ah Giovannì nostro!’, non riuscivamo a passare… alla fine siamo arrivati al palazzo apostolico, ma dall’entrata centrale alla fine del corso di Castel Gandolfo, i gendarmi erano in subbuglio, la polizia italiana pure, dovevate vedere la faccia della guardia svizzera…”.


Qualche giorno dopo arriva una lettera della polizia italiana. “La polizia italiana mi ha denunciato. Il Papa mi ha chiamato, c’era anche monsignore Dell’Acqua (sostituto alla segreteria di Stato, ndr.) per leggermi la lettera. Poi si è messo a ridere, era contento perché eravamo riusciti ad uscire”. Tra le “gite” fuori dal Vaticano, Guido Gusso ne ricorda alcune a Roma (“Una volta dall’ambasciatore inglese che era ricoverato, un’altra volta da un giornalista…”), e diverse nei dintorni di Castel Gandolfo: ai Pratoni del Vivaro, sulla riva del lago albano per vedere i lavori delle recenti Olimpiadi di Roma del 1960. “Di solito andavamo con la sua macchina, una cadillac Chrysler, ma a volte mi ha detto di prendere la mia. Una Opel Record bicolore, avorio e blu. Quando l’ha vista la prima volta ha detto che gli ricordava la sua macchina quando era a Venezia”. Con i gendarmi, tuttavia, Roncalli era tutt’altro che disattento. “All’epoca i gendarmi non si potevano sposare prima dei 28 anni. Ce n’era uno che aveva 24 anni, venne da me a lamentarsi, ‘Non ho i soldi per sposarmi’, lo dissi al Papa, la sera mi detta un’offerta con cui si poteva comprare la sala da pranzo…”.


Guido Gusso ha seguito Roncalli da prima che diventasse Papa. Figlio di pescatori, povero di famiglia, prestava servizio presso l’allora Patriarca di Venezia. “Una volta gli chiesi un aumento. Era quattro anni che lavoravo lì, mi dovevo sposare con la mia morosa. Prima di andare da lui mi sono fatto un bicchierino di grappa per farmi coraggio… lui mi ha detto: ‘Non ti preoccupare del tuo avvenire!’, e ha citato il Vangelo di Matteo. Io sono rimasto un po’ perplesso… Un anno dopo è diventato Papa e la mia vita è cambiata come dal giorno alla notte”. Pochi giorni prima della morte, Giovanni XXIII chiama il suo assistente di camera al capezzale. Lo rimprovera di comunicarsi troppo poco. Poi gli promette una promozione. Gussa rifiuta. “Lei mi proteggerà dal cielo, me, mio figlio e mia moglie”. “Mi fa piacere che parli così – risponde Roncalli – se hai bisogno in qualunque momento chiama e io ti aiuterò”. “E in effetti l’ho sempre tirato per la sottana e lui mi ha sempre aiutato…”.

Molti gli aneddoti raccontati dal decano di anticamera di Papa Giovanni durante la conferenza stampa e a margine, tampinato dalle domande dei giornalisti. Dettagli ed episodi che mostrano un certo fastidio di Roncalli per il protocollo vaticano dell’epoca. “Quando è stato eletto e il Conclave non era ancora concluso, mi disse di andare alla Domus Mariae a recuperare alcuni suoi effetti personali. Io chiesi al cardinale Tisserant (decano del collegio cardinalizio, ndr.) il permesso e lui mi rispose: ‘Siamo ancora in Conclave, non puoi uscire, se lo fai ti scomunico’. Andai a riferire a Roncalli, che ribatté: ‘Tu vai dal cardinale e digli che se lui ti dà la scomunica io poi te la tolgo…’”.


Papa Giovanni eliminò subito il “bacio della pantofola”, la “falda”, drappo damascato che ricopriva i piedi del pontefice quando si sedeva (“diceva che sarebbe inciampato quando scendeva”), la sedia gestatoria (“Ci salì la prima volta, scese e disse che gli girava la testa e gli ricordava quando era bambino e suo zio lo teneva sulle spalle…”). Da anziano si mise a studiare inglese, un’ora al giorno con un monsignore irlandese della Curia, e voleva che lo stesso Gussa lo studiasse: “Mi iscrissi ad un corso della British school, ma iniziava alle nove di sera: io non potevo partecipare perché servivo a cena, allora lui anticipò la cena alle sette e mezza. Ma come si fa?, dopo poche lezioni lasciai perdere…”.


Quando arrivano da Bergamo le casse di libri e quadri, la floreria vaticana manda dieci addetti che montano i quadri troppo in alto o troppo in basso. “Il Papa mi disse: ‘Fatti lasciare chiodi, martello e scala’. Qualche giorno dopo lui ed io ci siamo messi a spostare i quadri. Io sulla scala, lui ai piedi che teneva la scala e mi dava le indicazioni, ‘più su’, ‘più giù’”. Il vicedirettore dell’Osservatore Romano Cesidio Lolli, abituato a Papa Pacelli,  va dal Papa per correggere le bozze e si inginocchia alla scrivania. ‘Ma che fa, si sieda!’, gli dice Roncalli. Non mancano episodi da cui traspare una certa diffidenza del mondo curiale nei confronti del Papa buono. L’entourage di Roncalli trova alcune parole utilizzate dal Papa in conversazioni telefoniche riservate con il segretario di Stato pubblicate pari pari sul  settimanale Il Borghese, e controlla la linea lungo tutto il suo percorso alla ricerca di eventuali cimici. Giovanni XXIII riceve il primate anglicano Geoffrey Francio Fischer sollevando un tale sconcerto in Curia che gli uffici non mandano un fotografo, per cui ancora oggi di quell’incontro non esiste traccia fotografica. Un giovane giardiniere di Castel Gandolfo di 23 anni voleva sposarsi ma era precario. Il Papa chiese che venisse assunto ai Musei vaticani. Lo fece una prima volta, una seconda, e solo alla terza ottenne che il giovane venisse stabilizzato. “Tre volte è dovuto intervenire il Papa per fare assumere una persona…”.


Arrivando ai tempi odierni, Guido Gusso non ha dubbi: Papa Francesco somiglia a Giovanni XXIII. “Ha la sua bontà, è molto attento ai poveri e agli umili. Sono andato a una sua messa. Alla fine gli ho detto: Lei è quasi uguale a Papa Giovanni. Lui si è messo a ridere”.


Alla conferenza stampa “La voce dei Papi” sulla digitalizzazione degli archivi della Radio vaticana  – possibile grazie al coinvolgimento di Banca Intesa Russia e con il supporto di Confartigianato Persone – sono intervenuti il cardinale Giovan Battista Re, prefetto emerito della congregazione per i Vescovi, il vaticanista Gian Franco Svidercoschi, e Sandro Piervenanzi, direttore tecnico della Radio vaticana. Ha moderato padre Federico Lombardi, direttore generale della radio e portavoce vaticano.

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L'atleta di Dio che insegnò anche come morire

Nel libro "Accanto a Giovanni Paolo II", il dott. Renato Buzzonetti racconta la dipartita in cielo di Giovanni Paolo II

di Wlodzimierz Redzioch | 

Da quando è apparso sul sagrato di San Pietro con la sua faccia sorridente, sprizzante energia, camminando con il passo dinamico sulla lunga scalinata della piazza e portando il pastorale come un fuscello, fu chiamato “l’atleta di Dio”. Sembrava che quest’uomo possente e infaticabile non avrebbe mai avuto bisogno dei medici, invece tutto cambiò un bel giorno di primavera del 1981: i proiettili sparati dalla mano assassina non lo uccisero, ma minarono gravemente la sua salute di ferro.
Da allora Giovanni Paolo II è stato anche un “uomo dei dolori”: la malattia e la sofferenza furono parte della sua vita e il Policlinico Gemelli diventò un luogo ben conosciuto (non a caso il Papa lo chiamava “Vaticano III”). Da questa esperienza è nata la Lettera Apostolica “Salvifici doloris” sul senso cristiano della sofferenza e anche il desiderio di avere nella Curia un dicastero vaticano che si occupasse degli ammalati e degli operatori sanitari: con il motu proprio “Dolentium hominum”, creò infatti la Pontificia Commissione per la Pastorale degli operatori sanitari.
Fu sempre Wojtyla ad indire le Giornate mondiali dell’ammalato il giorno della festa della Madonna di Lourdes, l’11 febbraio. Pian piano, il Parkinson e i problemi osteoarticolari lo immobilizzarono e lo resero prigioniero del suo corpo, ma il Papa continuava la sua missione e non nascondeva i suoi mali. Non per esibizionismo, ma per rivendicare il valore e il ruolo nella società di ogni persona anche se ammalata o handicappata. Le ultime settimane della vita terrena di Giovanni Paolo II furono i giorni del suo Calvario: il Papa che aveva insegnato a vivere, in quel periodo mostrava come affrontare cristianamente la morte.
A fianco di Giovanni Paolo II, fino alla morte, si trovava il suo medico personale, dott. Renato Buzzonetti. Nell’intervista pubblicata nel libro “Accanto a Giovanni Paolo II" (edito da ARES) ha raccontato: «Furono giorni, che hanno segnato profondamente la mia vita, dominati da un gravissimo impegno professionale, dalla partecipazione dolorosa al dramma umano e religioso che si compiva sotto i miei occhi, da una tensione estrema per le grandi responsabilità, che pesavano sulle mie spalle ed infine da una preghiera ininterrotta in comunione con il Papa sofferente sulla sua mistica croce.
Giovedì 31 marzo 2005, verso le ore 11, mentre sta celebrando la Santa Messa nella Cappella Privata, il Santo Padre viene colto da un brivido squassante, cui segue una grave elevazione termica e quindi un gravissimo shock settico. Grazie alla bravura dei rianimatori in servizio, la situazione critica viene dominata e controllata ancora una volta.
Verso le 17 circa, la Santa Messa ai piedi del letto del Papa, che sta emergendo dallo shock. Celebra il card. Jaworski con Don Stanislao, don Mietek e mons. Rilko. Il Santo Padre ha gli occhi socchiusi. Il cardinale di Leopoli gli amministra l’ Unzione degli Infermi. Alla consacrazione, il Papa solleva debolmente il braccio destro due volte, per il pane e per il vino. Accenna a battersi il petto con la mano destra al momento dell’Agnus Dei.
Dopo la Messa, su invito di don Stanislao, gli astanti baciano la mano del Santo Padre. Questi chiama le suore per nome e poi soggiunge: “Per l’ultima volta”. Il suo medico, prima di baciare la venerata mano, dice ad alta voce: Padre Santo, Le vogliamo bene e tutti Le siamo vicini con tutto il cuore…  Successivamente il Santo Padre, essendo giovedì, vuole celebrare l’ ora di adorazione eucaristica: lettura, recita di salmi, canti a cura di Sr. Tobiana.
Il venerdì 1° aprile 2005, dopo la messa da lui concelebrata, il Santo Padre alle ore 8 chiede di fare la Via Crucis (segue le 14 stazioni facendosi il segno della croce), si associa alla recita dell’Ora Terza dell’ Ufficio divino ed alle ore 8,30 circa chiede di ascoltare la lettura di brani  della Sacra Scrittura, letti dal padre Tadeusz Styczeń. L’assistenza medica continua senza sosta.Il Sabato 2 aprile 2005, viene celebrata la santa Messa ai piedi del letto del Santo Padre, a cui Egli partecipa attentamente.
Al termine Giovanni Paolo II, con parole biascicate e quasi non intellegibili, chiede la lettura del vangelo di San Giovanni, che padre Styczen compie devotamente per nove capitoli. Uomo contemplativo, con l’ aiuto dei presenti, recita le preghiere del giorno sino all’ Ufficio delle letture dell’ imminente domenica. Verso le 15,30, il Santo Padre sussurra a suor Tobiana: “lasciatemi andare dal Signore…” in lingua polacca. Don Stanislao mi riferisce queste parole solo pochi minuti dopo.
Erano il suo consummatum est (Gv 19, 30). Non erano una resa passiva alla malattia né una fuga dalla sofferenza, ma dicevano la consapevolezza profonda di una via crucis che - coraggiosamente accettata sino alla spoliazione di ogni cosa terrena e della sua stessa vita - ormai si avvicinava al suo traguardo finale: l’incontro con il suo Signore. Egli non voleva ritardare questo incontro atteso dagli anni della sua giovinezza. Per questo aveva vissuto. Erano dunque parole di attesa e di speranza, di rinnovato e definitivo abbandono nelle mani del Padre.
Nelle stesse ore io ed i miei colleghi medici dovemmo constatare che la malattia si avviava inesorabilmente verso l'ultima fase del suo corso.La nostra era stata una battaglia condotta con pazienza, umiltà e prudenza, estremamente difficile perché intimamente convinti che si sarebbe conclusa con la sconfitta. La razionalità tecnica, la coscienza e la saggezza dei medici, l’illuminato affetto dei familiari furono costantemente orientati dal totale e misericordioso rispetto per l’Uomo sofferente. Non ci fu il cosiddetto accanimento terapeutico.
Dopo le 16 il Santo Padre si assopisce e perde progressivamente coscienza. Verso le 19 entra in coma profondo e poi in agonia. Il monitor registra il progressivo esaurimento dei parametri vitali. Alle h. 20 inizia la Messa celebrata ai piedi del letto del morente Pontefice. Celebra mons. Dziwisz con il cardinal Jaworski, don Mietek e mons. Ryłko. Canti polacchi s’intrecciano a quelli che giungono dalla piazza San Pietro gremita. Un piccolo cero brilla sul comodino accanto al letto. Alle 21,37 il Santo Padre muore. Dopo pochi minuti di stupìto dolore, viene intonato il Te Deum in lingua polacca e dalla piazza, d’improvviso, si vede illuminata la finestra della stanza da letto del Papa».
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Ricordiamo che venerdì 4 aprile, all’Università Europea di Roma, si svolgerà alle 19 l’incontro “Giovanni XXIII, Giovanni Paolo II. Due Papi due Santi” con testimonianze originali e inedite sulla santità dei due Pontefici. Ingresso libero