giovedì 10 aprile 2014

Il matrimonio gay? I magistrati lo impongono

La coppia di Grosseto

di Gianfranco Amato
A Grosseto, il matrimonio gay è stato riconosciuto dal Comune. Per ordine del tribunale, le nozze celebrate a New York, nel 2012, con rito civile fra due italiani, sono state trascritte nel registro di stato civile della città toscana. Secondo il giudice, nel codice civile «non è individuabile alcun riferimento al sesso in relazione alle condizioni necessarie» al matrimonio. Protagonisti della storia sono Giuseppe Chigiotti e Stefano Bucci, un architetto e un giornalista. Si tratta del primo caso in Italia.
Qualcuno un giorno ricorderà il tempo in cui l’Italia era una repubblica parlamentare. Prima, cioè, della sua trasformazione in repubblica giudiziaria. Prima della mutazione genetica istituzionale avvenuta attraverso Il potere dei magistrati-legislatori. Sintomatici, in particolare, i recenti interventi giurisprudenziali capaci persino di ribaltare la prospettiva antropologica che sottendeva alcuni provvedimenti legislativi approvati da un parlamento che ingenuamente si riteneva investito del potere di legiferare, in virtù del mandato popolare conferitogli attraverso libere e democratiche elezioni.
È stato, ad esempio, il Tribunale per i minorenni di Bologna a disporre l’affidamento di una minore di tre anni ad una coppia convivente di uomini omosessuali, ignorando del tutto il fatto che tale anomala coppia non può considerarsi un «ambiente familiare idoneo» ai sensi dell’art. 2, primo comma, della Legge 4 maggio 1983, n. 184, in grado di assicurare al minore affidato «il mantenimento, l’educazione, l’istruzione e le relazioni affettive di cui egli ha bisogno». Anche in questo caso non conta la ratio della legge, né tantomeno la volontà del legislatore, ma solo la Weltanschauung personale del singolo magistrato chiamato ad applicarla.
È stato, ad esempio, il Tribunale di Rovereto a ritenere legittima la riattribuzione del genere anagrafico senza il ricorso all’intervento chirurgico, obbligando il Comune a rilasciare una carta d’identità ad un uomo cinquantenne che si sentiva donna, con la precisazione del sesso femminile.
Si è così introdotto nel nostro ordinamento giuridico il concetto di identità di genere, senza un approfondito e pubblico dibattito parlamentare ma attraverso la pericolosa scorciatoia della via giudiziaria. Si è trattato di un intervento volto ad incidere profondamente nella stessa prospettiva antropologica dell’uomo, con inevitabili gravi conseguenze, e in pochi hanno denunciato il fatto che si tratti di una questione troppo seria per essere lasciata alle sperimentazioni da laboratorio di magistrati che si arrogano il diritto di assurgere al ruolo di giudici-legislatori.
È stata, ad esempio, la Corte costituzionale, ad infliggere l’ultimo colpo di piccone alla Legge 40/2004 dichiarando incostituzionale il divieto alla procreazione medicalmente assistita eterologa. In pratica, capovolgendo la volontà dell’organo legislativo costituzionalmente previsto (il parlamento), la Consulta ha demolito una disposizione normativa che, da un lato, aveva la fondamentale funzione di salvaguardare il diritto del nascituro a conoscere le proprie origini – anche al fine di tutelarne l’identità personale, oltre che garantirne la tutela sanitaria e sociale –, e dall’altro lato di evitare il lucroso commercio di gameti che va sotto il falso nome di donazione ed il conseguente squallido sfruttamento delle donne. Questo pensava il parlamento democraticamente eletto quando ha approvato la norma che è finita sotto la mannaia della Corte costituzionale.
È stato, infine, il Tribunale di Grosseto a ordinare al Comune del capoluogo maremmano «di trascrivere nei registri di stato civile il matrimonio» fra due uomini, italiani, celebrato con rito civile nel dicembre 2012 a New York, sulla considerazione, tra l’altro, che nel codice civile «non è individuabile alcun riferimento al sesso in relazione alle condizioni necessarie». Scontato il tripudio del senatore PD Sergio Lo Giudice, ex presidente di Arcigay e membro della Commissione giustizia del senato che sta discutendo in questi giorni il disegno di legge Scalfarotto contro l’omofobia. Ha affermato, infatti, il senatore Lo Giudice: «È un precedente unico per il nostro Paese, è la prima volta che un matrimonio gay viene riconosciuto in Italia». Sono quindi i giudici del Tribunale di Grosseto, i primi magistrati a “celebrare” le nozze omosessuali in Italia.
L’eccesso di zelo mostrato nel voler compiacere la deriva politically correct ed apparire più gay friendly dell’Arcigay, ha portato i magistrati maremmani, forse, ad esagerare un pochino. Non solo hanno voluto, in questo caso, sostituirsi alla volontà del legislatore in materia di matrimonio tra persone dello stesso sesso, ma hanno persino preteso di invadere il campo saldamente presidiato dalla nobile Accademia della Crusca. Sì, perché gli stessi giudici nel sostenere che nel codice civile non contiene «alcun riferimento al sesso in relazione alle condizioni necessarie», non hanno considerato, tra l’altro, che l’art. 143 dello stesso codice parla espressamente di «marito» e di «moglie». Ora, secondo la prestigiosa istituzione che vigila sul bell’idioma italico, il lemma «marito» viene definito, fin nella prima edizione del Vocabolario degli Accademici della Crusca (1621), come «huomo congiunto in matrimonio», mentre il lemma «moglie» è definito come «donna congiunta in matrimonio». La decisione del Tribunale di Grosseto rappresenta un ulteriore passo in avanti. In questo caso, infatti, i giudici non hanno voluto soltanto sostituirsi al legislatore, ma hanno persino ritenuto di poter modificare la lingua italiana piegandola alla logica delle proprie convinzioni. Forse hanno davvero esagerato.

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Per il cardinale Baldisseri non c'è un solo modello di famiglia
di Matteo Matzuzzi

I lavori in vista del Sinodo straordinario del prossimo ottobre procedono spediti, a maggio la Segreteria generale dell’organismo preparerà l’instrumentum laboris, il documento che fungerà da traccia nella doppia assise convocata lo scorso autunno dal Papa. A coordinare le operazioni è il neocardinale Lorenzo Baldisseri, già segretario della potente congregazione per i Vescovi ed ex nunzio in Brasile all’epoca in cui il cardinale Jorge Mario Bergoglio presiedeva il comitato incaricato di redigere il Documento finale della Quinta conferenza dell’episcopato latinoamericano di Aparecida. È stato proprio il porporato toscano a fornire qualche dettaglio rilevante sullo stato dei lavori, in un’intervista al mensile Jesus.
È sul concetto di famiglia che si giocherà la partita decisiva. Lo ammette lo stesso Baldisseri quando dice che «la famiglia, o meglio le tante famiglie reali, sembrano sempre più lontane dalla comunità ecclesiale». Su cosa siano le “tante famiglie reali”, il cardinale non si dilunga né fornisce dettagli, ma nel suo ragionamento è implicita la critica al modo con cui la chiesa abbia «puntato tanto sulla famiglia in Italia e in Europa». Un’operazione che non ha dato i frutti sperati, se essa è sempre più lacerata e assediata. Ecco perché, suggerisce Baldisseri, forse è opportuno guardare fuori dai confini europei, anche perché dai risultati del questionario emergono anche tematiche lontane dal contesto del Vecchio continente: poligamia, matrimonio a tappe tipico delle culture africane, ad esempio. Oppure il matrimonio combinato tipico del contesto indiano: «Sono stato in India – dice il segretario generale del Sinodo – e lì la percentuale dei matrimoni combinati è molto alta e i matrimoni funzionano. Qui da noi diamo più importanza all’individuo che alla comunità». Il problema fondamentale, spiega Baldisseri, «è che manca una comunicazione tra chiesa istituzionale e chiesa reale, che è il popolo».
Quanto ai risultati del famoso questionario sulla famiglia inviato lo scorso novembre alle diocesi di tutto il mondo, il cardinale sottolinea che «ha risposto l’82% delle 114 conferenze episcopali, poco più della metà dei capi dei dicasteri romani, e poi le chiese orientali dei diversi riti, i rappresentanti dei religiosi». A questi, precisa ancora il segretario generale del Sinodo, «vanno sommati quanti, singoli e gruppi organizzati, hanno voluto esprimere la loro opinione. Ha partecipato anche qualcuno non legato alla chiesa». In tutto, hanno risposto circa cinquecento persone o gruppi. Dopo aver ricordato che «era stata concordata la riservatezza» circa i risultati dell’indagine – i cui risultati sono invece stati diffusi da diverse conferenze episcopali, da quella tedesca a quella austriaca fino a quella svizzera –, Baldisseri ha rivelato che a una prima lettura dei dati emerge una certezza: «la conoscenza della dottrina cristiana del matrimonio è scarsa. Lo stesso dicasi per il tema dell’apertura alla vita. L’Humanae Vitae di Paolo VI è quasi ignorata, ci si ferma ai no alla contraccezione. La chiesa – sottolinea il porporato – su questi temi ha molto da fare».
Ma è alla domanda successiva che il neocardinale dà la risposta più interessante, ed è quella relativa all’immagine che emerge circa il matrimonio: «Il Sinodo – spiega – dovrà fare i conti con il fatto che famiglia e matrimonio hanno significati molto diversi a seconda del contesto in cui si collocano». È quindi necessario ricordare che benché «noi siamo abituati a considerare l’Occidente», «dobbiamo tenere presenti tutti i continenti» e che «ci sono grandi differenze tra le varie culture. In Africa e Asia la famiglia in alcuni casi ricorda modelli che sessanta-ottanta anni fa erano in Europa».
E se Baldisseri spiega che sono tanti i temi emersi al recente concistoro – compresa la questione del genere e le unioni omosessuali –, ammette anche che il problema che ha suscitato più attenzione nei media è stato quello relativo ai divorziati risposati. Ed è su questo che è tornato a parlare, qualche giorno fa a margine di un evento editoriale, il cardinale Walter Kasper, l’uomo scelto da Francesco per tenere la lunga relazione sulla famiglia in apertura di Concistoro: «È la misericordia la suprema giustizia, e quello dei divorziati risposati è un problema pastorale urgente». E se «non si può abbandonare la dottrina sull’indissolubilità del matrimonio, non è possibile permettere che qualcuno cada in un buco senza uscirne», ha chiarito il presidente emerito del Pontificio consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani.
A decidere, alla fine, sarà il Papa. Spetterà a Francesco tirare le somme del confronto nell’esortazione apostolica che seguirà il Sinodo ordinario del 2015. Fondamentali e non pro-forma saranno le discussioni che si svilupperanno nella doppia assise, come ha chiarito il Papa nella lettera inviata martedì scorso al cardinale Baldisseri: «Avendo anch’io perscrutato i segni dei tempi e nella consapevolezza che per l’esercizio del mio ministero petrino serve, quanto mai, ravvivare ancor di più lo stretto legame con tutti i pastori della chiesa, desidero valorizzare questa preziosa eredità conciliare». A tal proposito – scrive ancora il Papa – «non v’è dubbio che il vescovo di Roma abbia bisogno della presenza dei suoi confratelli vescovi, del loro consiglio e della loro prudenza ed esperienza». Una volontà talmente forte di rafforzare il Sinodo che il Pontefice argentino ha deciso di «conferire il carattere episcopale» al sottosegretario dell’organismo, mons. Fabio Fabene.