mercoledì 23 aprile 2014

Il coraggio di Ayaan, la viltà dell'Occidente



di Anna Bono


“Voi meritate ricordi migliori dell'11 settembre e dell'attentato alla maratona di Boston”: avrebbe detto Ayaan Hirsi Ali agli studenti della Brandeis University di Boston nel ricevere la laureahonoris causa, a pochi giorni dallo svolgimento dell’edizione 2014 della competizione. Nel 2013, come si ricorderà, due bombe sono esplose in prossimità del traguardo della maratona uccidendo diverse persone e ferendone più di 100.
Ayaan Hirsi Ali è la donna somala, musulmana, che nel 2004 ha osato scrivere il testo di un cortometraggio intitolato Submission, realizzato dal regista olandese Theo Van Gogh, in cui si racconta la storia di cinque donne islamiche vittime di abusi e maltrattamenti inflitti nel nome di Allah e nel rispetto della legge coranica. Fu un’offesa intollerabile per gli integralisti islamici. Due mesi dopo l’uscita di Submission Theo Van Gogh pagava il suo ardire con la vita: un immigrato marocchino gli tese un agguato per strada, in pieno giorno, ad Amsterdam, lo uccise con quattro colpi di pistola, lo sgozzò e gli affondò nel corpo un coltello con infilata nella lama una lettera di cinque pagine destinata ad Ayaan e contenente una fatwa, una sentenza islamica che la condannava a morte.
L’edizione 2014 della maratona di Boston si è svolta il 21 aprile senza incidenti. Ma Ayaan Hirsi Ali non ha mai pronunciato il suo discorso alla Brandeis University perchè, su pressione di docenti e studenti indignati per la sua “islamofobia”, le autorità accademiche hanno deciso di non conferirle il titolo. «Noi occidentali – si riprometteva di dire agli studenti Hirsi Ali a proposito delle rivendicazioni delle donne nei paesi islamici – dobbiamo offrire la giusta dose di aiuto (...) dobbiamo ritornare alle nostre radici diventando ancora una volta il faro del libero pensiero e della libertà del Ventunesimo secolo. Davanti a un’ingiustizia dobbiamo reagire, non soltanto con la condanna, ma con azioni concrete. Uno dei posti migliori per farlo è nei nostri istituti di istruzione superiore. Dobbiamo rendere le nostre università dei templi non dell’ortodossia dogmatica, ma del vero pensiero critico, dove tutte le idee sono le benvenute e dove il dibattito civile è incoraggiato. Sono abituata a essere fischiata nelle università per cui sono grata dell’opportunità di potervi parlare oggi. Non mi aspetto che tutti voi siate d’accordo con me, ma apprezzo tantissimo la vostra apertura all’ascolto. Sono qui davanti a voi come qualcuno che sta combattendo per i diritti delle donne e delle ragazze in tutto il mondo. E sono davanti a voi come qualcuno che non è spaventato di fare domande scomode sul ruolo della religione in questa battaglia. La connessione tra la violenza, soprattutto la violenza contro le donne, e l’islam è troppo chiara per essere ignorata. Non aiutiamo gli studenti, le università, gli atei e i credenti quando chiudiamo gli occhi davanti a questa connessione, quando cerchiamo scuse anziché riflettere. Per questo domando: il concetto di guerra santa è compatibile con il nostro ideale di tolleranza religiosa? È blasfemia – punibile con la morte – mettere in discussione l’applicazione alla nostra era di certe dottrine risalenti al Settimo secolo? Sia il cristianesimo sia l’ebraismo hanno avuto le loro riforme. È arrivato il tempo anche per una riforma dell’islam. Queste argomentazioni sono inammissibili? Di certo non dovrebbero esserlo in un’università che è stata  fondata dopo lo scandalo dell’Olocausto in un tempo in cui molte università americane ancora imponevano restrizioni agli studenti ebrei. Il motto della Brandeis University è “La verità, anche quella più inaccessibile”. È anche il mio motto».
Nel 2004 tutto il mondo occidentale è insorto contro l’uccisione di Theo Van Gogh e la condanna a morte di Ayaan. A lei che, immigrata nel 1992 in Olanda, all’epoca era cittadina olandese e deputato per il Partito Socialdemocratico fu data una scorta e il conforto di innumerevoli manifestazioni di solidarietà. Submission fu proiettato in tutto il mondo occidentale. Ma due anni dopo, nel 2006, il ministero dell’Immigrazione olandese, con il pretesto di dati errati contenuti nella sua richiesta di cittadinanza presentata nel 1997, decise di considerare nullo l’atto di naturalizzazione di Ayaan Hirsi Ali. Le furono concesse sei settimane per presentare ricorso. Contemporaneamente un giudice emetteva una sentenza favorevole ai suoi vicini di casa che ne avevano sollecitato lo sfratto sostenendo di subire violazioni della loro privacy a causa delle misure di sicurezza adottate per proteggerla e di temere che la sua presenza mettesse a rischio la loro incolumità. La sentenza le ingiungeva di lasciare entro quattro mesi l’abitazione-rifugio messa a sua disposizione dallo stato per difenderla. Così Hirsi Ali decise di accettare un’offerta di lavoro dell’American Enterprise Institute di Washington e si trasferì negli Stati Uniti.
Quanto è successo alla Brandeis University, con l’aggravante da parte delle autorità accademiche di aver tentato di presentare la rinuncia all’onorificenza come una decisione concordata con Hirsi Ali, il che non è vero, è un segno dei tempi: e questa volta il mondo occidentale non si è levato in difesa di Ayaan, e dei propri ideali.
I due splendidi libri autobiografici scritti da Ayaan Hirsi Ali sono stati pubblicati in Italia da Rizzoli: Infedele, nel 2007, e Nomade, nel 2010. In essi Ayaan racconta la propria vita, dall’infanzia in Somalia – segnata dall’evento straziante dell’infibulazione impostale dalla nonna all’insaputa dei suoi genitori e dalle traversie della sua famiglia colpita dalla persecuzione del dittatore Siad Barre contro cui il padre di Ayaan combatteva – alle vicende che l’hanno portata in Arabia Saudita, Etiopia e Kenya, fino matrimonio impostole dal padre, all’atto liberatorio di sottrarsi al destino riservato alle donne come lei e ai successivi anni trascorsi in Europa e negli Stati Uniti: “Sapevo che era possibile una vita diversa – scrive Hirsi Ali in Infedele, ricordando l'inizio della sua nuova vita in Occidente – l’avevo letto sui libri e ora potevo vederla, annusarla nell’aria: il genere d’esistenza che avevo sempre voluto, con una vera istruzione, un vero lavoro, un vero matrimonio. Volevo diventare una persona, un individuo, con una vita propria”.
Il prezzo che ha pagato è elevatissimo. Il padre e la sua intera famiglia l’hanno rinnegata e ha perso la fede. Se adesso anche l’Occidente la rinnega, che cosa le resta? Forse il sostegno della comunità cristiana alla quale si appellava nell’introduzione a Nomade? “Ho avuto il piacere di incontrare cristiani il cui concetto di Dio è ben lontano da Allah – si legge nella sua introduzione al libro – questo Dio cristiano moderno è sinomìnimo di amore: i preti non predicano odio, intolleranza e discordia; questo Dio è misericordioso, non cerca il potere temporale e non è in competizione con la scienza; i suoi seguaci considerano la Bibbia un libro fatto di parabole, non di ordini tassativi a cui attenersi scrupolosamente. Il cristianesimo di amore e tolleranza resta uno dei più potenti antidoti dell’Occidente all’islam di odio e intolleranza”.

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Tony Blair
Il tardo risveglio di Blair sul pericolo islamico
di Stefano Magni
Tony Blair si è risvegliato. Dopo un lungo letargo mediatico, l’ex premier laburista britannico (a capo del governo di Londra dal 1997 al 2007), ieri ha pronunciato un discorso, tenuto alla sede londinese di Bloomberg, sui pericoli dell’islam radicale e della cecità occidentale, ispirando i governi democratici all’azione. «Negli ultimi 40-50 anni – ha detto Blair – c’è stato un incessante flusso di finanziamenti, proselitismo, organizzazione e divulgazione dal Medio Oriente, per promuovere una visione della religione mentalmente ristretta e pericolosa. Sfortunatamente sembriamo ciechi di fronte all’immenso impatto globale che questa predicazione ha avuto e sta avendo tuttora». Il pericolo riguarda soprattutto il Medio Oriente, in cui «le popolazioni spesso devono affrontare una scelta fra un governo autoritario che è almeno tollerante sulla religione e il rischio che, rovesciando un governo impopolare, si finisca sotto una semi-teocrazia intollerante». Ma il pericolo, sottolinea lo stesso premier, riguarda anche l’Europa, dove «la popolazione musulmana ha raggiunto i 40 milioni di individui ed è in crescita. I Fratelli Musulmani e altre organizzazioni sono sempre più attive e agiscono senza troppi controlli o restrizioni. Le recenti controversie sulle scuole di Birmingham (e simili situazioni in Francia) danno origine a preoccupazioni crescenti sulla penetrazione islamica nelle nostre società».
È però curioso che, il 13 aprile scorso, il quotidiano britannico Telegraph abbia dato la notizia che la stessa Faith Foundation dell’ex premier sia infiltrata da Fratelli Musulmani. Ora sarebbe sotto attenta osservazione da parte dei servizi segreti di Sua Maestà, nell'ambito dell'inchiesta sull'islam radicale voluta da David Cameron. Viene contestata la presenza di Khudr Al-Shatti e Mustafa Ceric, secondo un'indagine del Global Muslim Brotherhood Daily Watch (un’organizzazione che monitora gli sviluppi della Fratellanza da 13 anni). Il primo è membro del Movimento Costituzionale del Kuwait, un partito affiliato alla Fratellanza, inoltre avrebbe legami con gruppi estremisti palestinesi. E nelle sue dichiarazioni pubbliche, specie in arabo e pronunciate in Kuwait, non lascia adito a dubbi sulla sua visione del mondo («Israele è Male e noi non possiamo coesistere con il Male»). Mustafa Ceric, invece, è un bosniaco musulmano, che avrebbe contatti con la Fratellanza tramite il Consiglio Europeo per la Fatwa e la Ricerca. Questi sospetti sono sintomatici di quanto ambiguo sia il rapporto fra un'insospettabile fondazione che promuove il dialogo interreligioso, quale è la fondazione di Tony Blair, e la variegata galassia dell’estremismo islamico. Ma è anche indicativo della difficoltà che l’ex premier britannico ha sempre avuto nell’identificare il pericolo dei Fratelli Musulmani e delle altre organizzazioni che promuovono un islam radicale.
Se Blair punta il dito sulla minaccia di islamizzazione, infatti, è sotto il suo governo che è maturata una vera e propria giustizia parallela musulmana basata sul leggi coraniche. È stato il suo immediato successore laburista Gordon Brown, infatti, ad autorizzare le corti islamiche per negoziare arbitrati all’interno della comunità musulmana e giudicare (di fatto) su casi inerenti il diritto di famiglia. Negli ultimi tempi questo processo è andato oltre, ammettendo addirittura principi della legge coranica nei tribunali britannici.
Ieri Tony Blair ha definito le guerre nel Medio Oriente come «una lotta titanica in corso in tutta la regione, fra coloro che vogliono abbracciare un mondo moderno – politicamente, socialmente ed economicamente moderno – e coloro che, invece, vogliono creare una politica della differenza e dell’esclusivismo religioso. Questa è la battaglia. Questo è l’elemento distorsivo. Questo è ciò che rende l’intervento (occidentale, ndr) così doloroso e il non-intervento altrettanto doloroso. Questo è ciò che rende così difficile il processo di evoluzione politica. Questo è ciò che rende duro il terreno in cui la democrazia dovrebbe mettere le sue radici». Segue un’analisi dettagliata delle varie crisi in corso nel Medio Oriente e relative proposte di soluzione: Egitto, Siria, Libia, Tunisia, Yemen, Iraq e Afghanistan. In tutti i casi Tony Blair suggerisce interventi, a volte sfidando anche i luoghi comuni della diplomazia. Per l’Egitto, ad esempio, contrariamente a Barack Obama, insiste nel suo appoggio al governo militare contro i Fratelli Musulmani. Sulla Siria, Blair sostiene che Bashar al Assad debba essere coinvolto in un governo di transizione. Sulla Libia parla esplicitamente di “macello”, di cui noi siamo responsabili: abbiamo rotto l’equilibrio pre-esistente, ma non ci siamo mai occupati del Paese post-guerra.
Anche qui, però, mancano un paio di cose. Prima di tutto: se i Fratelli Musulmani sono diventati così forti negli ultimi 10 anni, lo si deve prima di tutto alla politica promossa da Stati Uniti (Condoleezza Rice) e Gran Bretagna (Tony Blair) volta a sdoganarli politicamente. Nelle prime elezioni di Gaza, furono proprio Usa e Gran Bretagna a convincere Israele ad ammettere anche Hamas (branca palestinese della Fratellanza) a competere e vincere. Con i risultati che sono sotto gli occhi di tutti: 8 anni di conflitto con lo Stato ebraico. Furono sempre Usa e Gran Bretagna a convincere Hosni Mubarak ad aprire alla Fratellanza in Egitto: nove anni dopo è tuttora una mina vagante. Quando Blair parla di interventismo, a cosa si riferisce? In Siria torna a proporre una “No-Fly Zone” contro Assad, assicurandosi che “le armi non finiscano nelle mani degli estremisti”. Ma la No-Fly Zone, che dovrebbe essere costituita per “persuadere” Assad a gestire un governo di transizione, significherebbe, nel mondo reale, un regalo ad Al Qaeda e movimenti affini, che già dominano, sul terreno, il fronte della ribellione.
Se per l'Egitto la linea proposta da Blair è l’unica realista e possibile (sostegno al governo militare), per riportare la sicurezza in Libia occorrerebbe una spedizione militare completa, come in Iraq e in Afghanistan, non solo un programma di addestramento per truppe locali. Chi se la sente di imbarcarsi in un’altra missione di pace infinita, costellata da lutti e delusioni? E proprio a proposito dei precedenti in Iraq e in Afghanistan, entrambi hanno preso avvio proprio quando era Tony Blair alla testa del governo britannico. Come mai i due conflitti non sono ancora finiti, in Iraq si continua a morire (e i cristiani locali sono ridotti al lumicino) dal 2003 e in Afghanistan si continua a combattere contro gli stessi Talebani dal 2001? Evidentemente c’è qualcosa che non ha funzionato. Troppo poca presenza militare, incomprensione della situazione sul terreno o alleati inaffidabili in loco. O tutte e tre le cose messe assieme. Blair non può negare la sua responsabilità in merito.