mercoledì 26 marzo 2014

Nella terra di Tex Willer



Vescovi nel deserto di morte tra Usa e Messico

Nogales, in Arizona, è una cittadina polverosa di circa 20mila abitanti che si arrangiano con redditi ben vicini alla soglia della povertà. Arida, e apparentemente ferma nel tempo da più di 100 anni, non sembra una destinazione ambita per un immigrato latinoamericano in cerca di fortuna negli States. Ma Nogales è divisa in due, separata da una barriera di metallo alta cinque metri da Nogales, Mexico. Ed è uno dei punti di confine più pericolosi per il traffico di persone e di droga negli Stati Uniti. Poco più di un mese fa, sotto le case di Nogales gli agenti frontalieri americani hanno scoperto e smantellato un tunnel che passava da una parte all’altra del confine. E sulle colline ai lati della città corrono decine di sentieri che gli immigrati irregolari percorrono per arrivare negli Usa. È da lì che martedì prossimo un gruppo di vescovi americani comincerà un pellegrinaggio nel deserto. Per onorare la memoria delle oltre 6mila persone trovate morte nel deserto di Sonora dal 1998 ad oggi, i vescovi percorreranno parte della loro strada in preghiera. Quindi si riuniranno presso la recinzione di confine per celebrare una Messa in memoria di tutti gli immigrati che sono morti inseguendo il sogno di una vita migliore negli Stati Uniti. A guidarli sarà il cardinale Seán O’Malley, arcivescovo di Boston e membro del consiglio di otto cardinali consiglieri del Papa, oltre che della commissione vaticana per la protezione dei bambini. I vescovi intendono «rivolgere l’attenzione internazionale alle conseguenze umanitarie di un sistema migratorio in pezzi come quello americano e richiamare il Congresso ad approvare una riforma dell’immigrazione».

Gli agenti di confine avvertono: è impossibile avere cifre esatte. Ma poi ammettono che hanno i loro modi di misurare il flusso degli immigrati che scorre, di nascosto, attraverso il lungo confine che separa il Messico dagli Stati Uniti. Contano gli arresti e le deportazioni. Non sono che una percentuale del totale, spiegano, ma permettono di sapere con certezza se il numero di “latinos” abbastanza disperati da rischiare la vita nel deserto è in aumento o in declino e di comporre un identikit anagrafico di chi arriva. Le conclusioni degli ultimi anni sono chiare. Il numero di immigrati che si introducono irregolarmente negli Usa dall’America Latina è sceso ai livelli più bassi da circa un quarto di secolo. Lo scorso anno l’agenzia federale dell’Immigration and Customs Enforcement (Ice) ha arrestato 350mila immigrati irregolari nelle zone di confine. Erano un milione e mezzo nel 1999. Sempre nel 2013, 235mila persone sono state deportate per aver attraversato la frontiera americana senza un visto o un permesso di soggiorno. Erano 590mila nel 2004.

Solo un numero non cala mai: quello dei cadaveri senza nome che le guardie dell’Ice o i padroni dei ranch trovano nelle zone aride e montagnose che separano gli Stati Uniti dal suo vicino meridionale. Da qualche anno si aggirano attorno ai 450. Nel 2012, stando ai dati dei servizi frontalieri americani, raccolti dall’organizzazione non profit National Foundation for American Policy, nel deserto sono morti in 477. Alla fine degli anni Novanta il dato raramente superava i 260. A livello percentuale, l’aumento è esponenziale. Per città di confine come Nogales, Arizona, o Harlingen, in Texas non si tratta di soli numeri. Il ritrovamento quotidiano di corpi di tutte le età, giovani e bambini in quantità sempre più allarmante, rende questi Paesi il ground zero del dibattito sull’immigrazione.

Mentre a Washington i democratici cercano un percorso verso la cittadinanza per gli 11 milioni di immigrati irregolari e i repubblicani chiedono di incrementare i controlli ai confini, le contee di Pima, in Arizona, e di Cameron, in Texas, fanno ogni giorno i conti con un’emergenza umanitaria superiore alle loro forze, che la costruzione di muri più alti e più lunghi ha solo peggiorato. La spinta a rinforzare il confine americano è partita a metà degli anni Ottanta, con lo scopo principale di bloccare i traffici dei “narcos” diretti verso il Nord. Diventato un campo di battaglia contro i cartelli della droga, il confine è stato fortificato con un muro che procede in modo discontinuo per 3.300 chilometri (quasi tre volte l lunghezza dell’Italia), mentre la spesa per il controllo delle frontiere è decuplicata (fino ai 10 miliardi di dollari annui di oggi) e il numero di agenti al confine è passato da 3mila a 20mila. Uno dei risultati sperati – la riduzione del numero degli ingressi illegali, sia di immigrati che di corrieri della droga – è stato raggiunto, come si è visto. Ma il deterrente ha funzionato fino a un certo punto. Il muro protegge, infatti, le aree abitate degli Stati Uniti, ma si interrompe improvvisamente sulle montagne e nel deserto, la cui natura impervia viene considerata una barriera naturale sufficiente a tenere lontani gli intrusi. Non i disperati. L’operazione “Gatekeepers”, come è stata chiamata la fortificazione del confine con il Messico, ha avuto l’effetto di modificare le rotte dei migranti, molti dei quali vengono utilizzati dai narcos come corrieri della droga, rendendole estremamente più pericolose, spesso letali. È come un imbuto che incanala messicani e, in numero crescente, honduregni, guatemaltechi e salvadoregni in fuga dalla povertà e dalle gang del Centramerica, verso i pochi passaggi rimasti aperti a decine, centinaia di chilometri dai centri abitati. Mentre l’America ufficialmente chiudeva i suoi cancelli ai migranti meridionali, infatti, il bisogno di manodopera non qualificata e a basso costo nell’agricoltura, nell’industria e nei ristoranti ha continuato a crescere, proiettando verso Sud il sogno di un lavoro stabile e sicuro. Alle stesso tempo, le uccisioni indiscriminate dei cartelli della droga in America Centrale stanno costringendo sempre più genitori alla straziante decisione di affidare i loro figli a uno sciacallo (al prezzo anche di 10mila dollari) pur di allontanarlo da quartieri decimati dalla violenza.

Il viaggio è brutale. Chi sopravvive parla di giornate di cammino sotto il sole senza cibo né acqua e di nottate al gelo. Di gambe e braccia tranciate dalle ruote dei treni afferrati in corsa. Di rapine, stupri e rapimenti durante il cammino. Di donne, anziani e bambini abbandonati dagli sciacalli perché troppo deboli per fare un passo in più. Chi arriva dall’altra parte racconta, alle organizzazioni di volontari che assistono i migranti, storie di orrore ma anche di eroismo, di uomini che trasportano a braccia chi non ce la fa più o che s’incaricano di portare a madri e padri gli effetti personali di un figlio morto nel deserto. Perché spesso il dolore più straziante è quello dell’attesa. Genitori rimasti al Sud o immigrati illegali che aspettano di essere raggiunti negli Stati Uniti che sperano in un segnale, e continuano ad andare a lavorare alla mattina pregando di trovare, alla sera, notizie dei propri cari partiti per l’America. Intere famiglie, ai due lati del confine, che non possono rivolgersi a nessuno e che per settimane non possono fare altro che aspettare.

Elena Molinari