lunedì 24 marzo 2014

Chiedo al Signore di darmi serenità e perseveranza



L’ultima preghiera dell’arcivescovo Óscar Romero.

(José María Gil Tamayo, Segretario generale della Conferenza episcopale spagnola) Negli Atti degli apostoli si racconta come, nei primi passi della vita della Chiesa, le autorità ebraiche proibiscano severamente agli apostoli di parlare di Gesù e della sua resurrezione. Essi però non li ascoltano e rispondono che bisogna obbedire a Dio prima che agli uomini (cfr. 4, 13-21).

È quanto basta per proclamare la libertà e l’imperativo della coscienza di tanti profeti e martiri che nel corso della storia sono stati coerenti con la loro missione di fronte a coloro che hanno preteso di ridurli al silenzio e li hanno perseguitati. Essi non hanno taciuto e le loro voci sono risuonate esemplari e benefiche nella storia dell’umanità.
Questo brano della Scrittura ricorda, in una giornata come oggi, 24 marzo, in cui cade il trentaquattresimo anniversario del suo assassinio, un vero martire di Cristo, profeta e buon pastore del suo popolo, martirizzato per aver difeso con la sua parola evangelica i più poveri e gli oppressi del suo Paese. Mi riferisco a monsignor Óscar Romero, arcivescovo di San Salvador.
La sua vita di pastore generoso fu spezzata dai colpi di un sicario mentre celebrava la messa nella piccola cappella dell’ospedale della Divina Provvidenza, dove si trovava la sua umile residenza. L’assemblea legislativa di El Salvador ha approvato alcuni anni fa la celebrazione in questa data della «Giornata di monsignor Óscar Arnulfo Romero y Galdámez», per rendere giustizia alla sua memoria e per dare ufficialità a quello che da decenni era un sentimento condiviso dalla popolazione del Paese e di tutta l’America Latina. Monsignor Óscar Romero era diventato «la voce di quanti non hanno voce» e il difensore dei poveri in un Paese che allora era immerso nell’odio e nella guerra civile.
La sua morte crudele era qualcosa di atteso da questo buon pastore dei poveri. Il martirio non s’improvvisa e la santità necessaria per affrontarlo era qualcosa di già plasmato nella vita di monsignor Romero. Questa affermazione non obbedisce a una retorica facile, ma è un dato di verità. Vi spiego perché. Qualche anno fa, nella mia prima visita a El Salvador, sono finite nelle mie mani, grazie a delle persone che avevano conosciuto da vicino monsignor Romero, le fotocopie di alcune pagine manoscritte dei suoi appunti di coscienza, redatte nel corso dei suoi ultimi esercizi spirituali, quelli che fece alla fine di febbraio del 1980, proprio un mese prima della sua morte. Questi appunti sono scritti con la sincerità di chi sta vivendo dei giorni di ritiro e di silenzio. Trascrivo solo alcune frasi: «Chiedo perdono a Dio per le interferenze umane nel mio agire come suo strumento. Desidero che questi esercizi mi rendano più intimamente unito alla sua volontà. Gli chiedo di far trasparire di più in me il suo amore, la sua giustizia, la sua verità. Ho paura della violenza sulla mia persona. Son stato avvertito di serie minacce nei miei confronti. Temo per la debolezza della mia carne, ma chiedo al Signore di darmi serenità e perseveranza. E anche umiltà, perché provo pure la tentazione della vanità».
In un’altra pagina racconta le sue confidenze con il confessore, parlando delle difficoltà nella vita interiore, e torna a insistere sul timore per la sua vita: «Mi costa accettare una morte violenta che in queste circostanze è molto possibile». Ma, prima di tutto, esprime la sua opzione di vivere il Vangelo in tutta la sua radicalità, consacrandosi al Cuore di Gesù, del quale dice «è stato sempre fonte di ispirazione e di gioia cristiana nella mia vita. Così, affido anche alla sua amorevole provvidenza l’intera mia vita e accetto con fede in Lui la mia morte, per quanto difficile sia. Non voglio affidargli un’intenzione, come mi piacerebbe, per la pace del mio Paese; e per il fiorire della nostra Chiesa perché il Cuore di Cristo saprà dare loro il destino che vorrà. Mi basta, per essere felice e fiducioso, sapere con sicurezza che in Lui sono la mia vita e la mia morte; che, nonostante i miei peccati, in Lui ho riposto la mia fiducia e non resterò confuso e altri proseguiranno con maggiore saggezza e santità i lavori della Chiesa e della Patria». Non servono commenti. Basta constatare che gli Atti degli apostoli continuano nel nostro tempo in tanti sacerdoti, veri pastori del popolo di Dio e fedele riflesso del Cuore di Cristo, come monsignor Romero.
Papa Francesco ha descritto questo modello di pastore, nel suo discorso ai responsabili del Consiglio episcopale latinoamericano durante il suo viaggio in Brasile lo scorso mese di agosto, affermando: «A sottolineare le grandi figure dell’episcopato latinoamericano che tutti conosciamo, desidero aggiungere qui alcune linee sul profilo del Vescovo (…) I Vescovi devono essere Pastori, vicini alla gente, padri e fratelli, con molta mansuetudine; pazienti e misericordiosi. Uomini che amano la povertà, tanto la povertà interiore come libertà davanti al Signore, quanto la povertà esteriore come semplicità e austerità di vita. Uomini che non abbiano “psicologia da prìncipi”. Uomini che non siano ambiziosi e che siano sposi di una Chiesa senza stare in attesa di un’altra. Uomini capaci di vegliare sul gregge che è stato loro affidato e di avere cura di tutto ciò che lo tiene unito: vigilare sul loro popolo con attenzione sugli eventuali pericoli che lo minacciano ma soprattutto per accrescere la speranza: che abbiano sole e luce nei cuori. Uomini capaci di sostenere con amore e pazienza i passi di Dio nel suo popolo». Una buona intenzione per cui chiedere l’intercessione di monsignor Romero in questo suo dies natalis martiriale.
L'Osservatore Romano