domenica 23 febbraio 2014

Sguardi in tempo di esilio




In principio non c’è Caino. C’è una cosa “buona e bella”, che il sesto giorno con l’Adam divenne “ molto buona e bella” (Genesi 1,31). È la benedizione che aleggia sul mondo creato. L’inizio, ilbereshit, il principio della terra, degli esseri viventi e degli umani è bontà e bellezza, che ci dice quale sia la vocazione più profonda e vera della terra, dei viventi, dell’uomo e della donna. E ci dice anche che la terra è viva perché si trova dentro un rapporto di amore e di reciprocità. Che sono vive anche le montagne, i sassi, i fiumi, altrimenti quegli altri esseri che chiamiamo viventi sarebbero circondati dalla morte, e la poca vita che resterebbe sarebbe troppo triste (come infatti deve apparire a chi questa vita non sa più vedere). Il primo capitolo della Genesi è tutto un sublime canto alla vita e al creato, che ha come suo culmine l’Adam, l’essere umano. E tutte queste creature sono buone, molto buone, belle e benedette perché volute per traboccamento d’amore.
 
Eppure la realtà storica dell’umanità di quel tempo  VI-V secolo a.C.) e del nostro, era ed è spettacolo di lotte, omicidi, morte. Una prima grandezza di questo testo è allora la capacità, che trovo stupefacente, di non dare la prima parola a quelle relazioni umane quotidiane che gli scrittori sacri vedevano scorrere sotto i loro occhi.
 
Ebbero invece la forza e l’ispirazione di dare la prima parola all’armonia, alla bontà, alla bellezza, alle benedizioni delle creature e della più bella e buona delle creature: l’Adam. Questa positività antropologica (e ontologica) non la troviamo nei racconti della creazione del vicino oriente o dell’India coevi o precedenti alla Genesi, dove il mondo nasceva da violenze, lotte tra dei, da decadenze e degenerazioni. La prima parola sull’uomo dell’umanesimo biblico è invece bontà-bellezza (tov). Il male può essere tremendo e pazzo, ma il bene è più profondo e forte di ogni grande e devastante male.
 
Molti di questi primi brani della Genesi furono scritti durante l’esilio babilonese, o quando la sua memoria era ancora molto viva e dolorosa. Gli esili non terminano senza la fede e la speranza che il bene è più grande e profondo dei mali del presente.
 
In quella cosa buona e bella c’erano già Caino e Lamek, i fratelli che vendettero Giuseppe, gli abitanti di Sodoma, il vitello d’oro, i Beniaminiti di Gàbaa. Ma c’eravamo anche noi, con i lager, le foibe, i gulag, le mille stragi di innocenti, i mercanti di poveri e del gioco d’azzardo, le guerre di religione, l’11 settembre, i giovani uccisi a Kiev, e tutti i mali e gli stermini che stiamo facendo e che, con ogni probabilità, faremo domani. Ma prima, prima di tutto, c’era quella cosa molto bella e molto buona, fatto «poco meno degli angeli» (Salmo 8): c’era una benedizione, che è detta per sempre, e che tutti i nostri peccati non riescono a cancellare. Questa cosa molto bella e molto buona si ammala e degenera, ma nessuna malattia dell’anima e del corpo è forte al punto di annullare questa bellezza e questa bontà primordiale.
 
Occorrono molto dolore e molta agape per continuare a credere in questo bereshit, ma questa fede tenace e testarda è l’unico modo per salvarci da quelle malattie e non soccombere di fronte al cinismo e al nichilismo che sono sempre in agguato dentro le nostre civiltà soprattutto nei tempi delle crisi e degli esili.
 
La vita non muore, non ci spegniamo dentro, finché pur dovendo guardare la storia dalla prospettiva di Caino e dei suoi figli non dimentichiamo che prima di Caino c’è Adam. E se c’è prima, ci può essere anche dopo, perché il buio dell’ottavo giorno non riesce ad abbuiare la luce aurorale del sesto – è questo il principale messaggio e il grande atto d’amore che nasce dalla Genesi e dall’Alleanza. La speranza non vana sta tutta nel non lasciarsi mai convincere che il primo capitolo della Genesi sia solo mito consolatorio, paradiso perduto per sempre, fumo teologico negli occhi dei popoli, favole serali per bambini, la prima fiction.
 
Credere a questa prima parola sul mondo e sull’uomo significa invece non credere alle legioni di cinici, ai tanti amici di Giobbe che ci vogliono convincere che la prima e ultima parola sull’uomo è quella di Caino. E su questo pessimismo antropologico radicale abbiamo costruito contratti sociali e Leviatani, diritto penale e tribunali, disegno delle tasse e loro riscossione, banche, Fondo monetario, eutanasia per i bambini.
 
Un’economia che invece partisse dal primato di Adamo su Caino e Lamek prenderebbe come sua fondazione l’etica delle virtù, che ha la sua vera radice nel primato del bene sul male, e non si lascerebbe colonizzare dalla sottospecie di utilitarismo che la comanda. E poi guarderebbe i lavoratori come persone capaci prima di bene e di bello, e disegnerebbe organizzazioni dove possano crescere doni e bellezza e non solo il cinismo e l’opportunismo prodotti da visioni e teorie che non fanno altro che moltiplicare i figli di Caino. E utilizzeremmo più premi (gli strumenti motivazionali dell’Adam) e meno incentivi (che nascono dall’antropologia cainita). L’uomo reale è un intreccio di Caino e di Adamo, ma l’umanesimo biblico ci dice che prima è Adamo. Se la prima e l’ultima parola su di noi fosse quella di Caino, nessun perdono e nessun ricominciare sarebbero veri.
 
Chi prende sul serio quella prima parola sull’umano, o la riceve in dono, gira per le strade con altri occhi dell’anima. Vede che il mondo è pieno di cose belle e buone. Le scopre quando guarda stupito tramonti, stelle, e montagne innevate, ma scopre cose molto buone e molte belle quando guarda i colleghi, i vicini di casa, il vecchio che muore, il malato terminale, i tanti deformati dalla troppa miseria o dalla troppa ricchezza, la nonna tornata bambina che gioca di nuovo con le bambole, Dimitri ubriaco e maleodorante sulla metro, Lucia che non si è più risvegliata dal coma, Caino che continua a colpirci. Nessuna foresta amazzonica, nessuna cima alpina possono raggiungere la bellezza-bontà di Maria, clochard della stazione Termini.
 
Bastano pochi di questi “sguardi” per farci risorgere ogni mattina, per farci rialzare da ogni crisi. Se siamo ancora vivi perché questi sguardi ci sono stati e continuano ad esserci, e non siamo stati “distrutti” perché ce n’è stato almeno uno nella nostra città. Occhi che forse hanno guardato anche noi e non ce ne siamo accorti, a cominciare da quel primo sguardo di donna che ci ha accolti quando siamo venuti al mondo. I carismi sono soprattutto il dono al mondo di questi sguardi diversi che, guardandoci e pronunciando il nostro nome, ci fanno diventare quel che veramente siamo già. Col loro esserci salvano Adamo dalla mano omicida di Caino.
 
Questi sguardi maieutici ci sono stati e ci sono anche nelle imprese e nei mercati. Li ho incrociati molte volte: in un imprenditore che ha dato nuovamente fiducia ad un lavoratore dopo un grave tradimento, in un lavoratore che ha perdonato un collega dopo un inganno, o in un abbraccio tra soci dopo anni di profonde ferite reciproche. E ci sono anche nei tempi degli esili e delle crisi, quando questi atti di imprudenza costano e valgono molto. Sguardi agapicamente imprudenti, mai ingenui, sempre veri e salvifici, capaci di miracoli quando incrociano altri sguardi con gli stessi occhi. «E vide che era cosa molto buona e molto bella».

Luigino Bruni
l.bruni​@lumsa.it