lunedì 24 febbraio 2014

Jerome Lejeune, medico e genetista.



In Italia di questo grande personaggio si sa molto poco. Gli unici quattro libri, a quanto mi consta, li ha pubblicati l’editore Cantagalli (l’ultimo è di Clara Lejenue, sua figlia: “La vita è una sfida”, Cantagalli, 2008).
Nato nel 1926 a Montrouge sur Seine, Lejeune è colui che ha scoperto la prima anomalia genetica, la cosiddetta trisomia 21, cioè l’anomalia genetica che determina la sindrome di down, altrimenti detta mongolismo. Sino alla sua scoperta si credeva che il mongolismo fosse una tara razziale, oppure che fosse determinato da genitori alcolisti o sifilitici. Lejeune dimostrò che non vi era nulla di disdicevole, nei genitori di quei bambini, nessuna degenerazione razziale, nessuna contagiosità, in quelle creature in cui era avvenuta la triplicazione di un cromosoma, un eccesso di informazione genetica, e che vengono colpite nella facoltà dell’intelligenza, dell’astrazione, anche se conservano integre affettività e memoria.
Lejeune per questa scoperta, e per altre che la seguirono, ottenne innumerevoli riconoscimenti internazionali, premi ed onorificenze. Divenne un uomo famoso e per lui fu creata la prima cattedra di Genetica Fondamentale presso l’università di medicina di Parigi.
Ma Lejeune non era solo un ricercatore, un curioso, uno studioso di segmenti di Dna che nel chiuso del suo laboratorio confonde la vita col codice genetico e che nell’entusiasmo delle sue scoperte crede di avere in pugno la totalità del reale. Il suo intento fu sempre quello di guarire i suoi malati, così socievoli, così allegri, così fanciulleschi. “Se si riuscisse a scoprire come poter curare la trisomia 21, scrive la figlia Clara, allora sì la strada sarebbe aperta per poter curare ogni altra malattia genetica”. Scoprire la prima aberrazione cromosomica è, nella mente di Lejeune, il primo passo per compiere l’opera del medico, che è, da sempre, quella di curare. Così anche la scoperta della diagnosi pre natale, ad opera dell’amico di Lejeune, il professor Liley, originario della Nuova Zelanda, è collegata al desiderio di poter individuare quanto prima e curare più precocemente i bambini. Curare il prima possibile, in utero: è l’idea che entusiasma entrambi. Ma i due scienziati, che “si conoscono e si stimano”, “impotenti, assisteranno allo snaturamento delle loro scoperte”. Infatti nel 1970 in Francia la proposta di legge “Peyret” apre il dibattito sull’aborto, sull’eliminazione dei bambini che sono identificati come portatori di handicap già prima della nascita. “In quel momento, ricorda Clara, “l’unico handicap riconosciuto prima della nascita è la trisomia!”. Lejeune, di fronte alla proposta Peyeret e al dibattito sull’aborto in generale, dinanzi alle menzogne sulla natura del feto o sul numero degli aborti clandestini, non riesce a tacere: sostiene la sacralità della vita, palesa il suo amore per i suoi piccoli malati, dinanzi a tutti, ovunque, arrivando ad affermare, all’Onu: “Ecco una istituzione per la salute che si trasforma in istituzione di morte”.
E’ coraggioso, ma non ingenuo: sa di aver intrapreso una strada pericolosa, di procurarsi, in questo modo, innumerevoli antipatie. La sera stessa del suo discorso all’Onu, scrive alla moglie: “Oggi pomeriggio ho perduto il premio Nobel”. Ed è proprio così. Non garba, a coloro che lo insultano, che gli sputano in faccia, a coloro che scrivono sui muri “A morte Lejeune e i suoi mostriciattoli”, che qualcuno rivendichi con carità e con forza la verità, e lo faccia con l’evidenza della scienza.
Scrive Lejeune: “La genetica moderna si riassume in questo credo elementare: all’inizio è dato un messaggio, questo messaggio è nella vita, questo messaggio è la vita. Vera e propria perifrasi dell’inizio di un vecchio libro che ben conoscete, tale credo è quello del genetista più materialista possibile…”. In principio è il Logos, al principio della vita è l’informazione del dna, tutta già compresa nella prima cellula: “tutto questo lo sappiamo con una certezza assoluta che vince ogni dubbio perché se tale informazione non fosse già contenuta in essa, non potrebbe entrarvi mai più; nessuna informazione, infatti, entra in un uovo dopo che sia stato fecondato”.
Per stroncare Lejeune le proveranno tutte: l’odio, le persecuzioni, le molestie anche fisiche, i controlli fiscali… Gli verrà negato l’avanzamento di carriera per ben 17 anni, verrà radiato dai congressi scientifici, gli verranno soppressi i crediti per la ricerca e negati i finanziamenti per i suoi pionieristici studi sull’acido folico per le mamme in gravidanza, che tanti bambini hanno contribuito a salvare dalla spina bifida e da altre patologie. Ma per fortuna il suo nome è famoso in tutto il mondo, e può continuare a lavorare grazie a sussidi americani, inglesi, neozelandesi. Il suo pensiero però è sempre fisso sui suoi cari handicappati, perché conosce l’insegnamento di Cristo: “ogni cosa che avrete fatto ad uno di questi piccoli, la avrete fatta a me”.
In passato, ricorda Lejeune, i malati di rabbia venivano spesso uccisi e soffocati tra due materassi. Poi, un grande scienziato, Pasteur, liberò l’umanità da quella malattia. Se si sopprimono coloro che sono affetti da sindrome di Down, si bloccherà la ricerca e non si capirà mai come guarirli, come è possibile fare; finché non riusciamo a guarirli, l’importante è stare loro vicini, guardarli come si guarda ad un figlio di Dio, e non solamente ad un errore genetico, a materia biologica vivente!
Lejeune, nonostante varie difficoltà, continua a girare “il mondo, tiene conferenze e torna con riconoscimenti e borse di studio per i suoi collaboratori, finanziamenti per i programmi di ricerca”. Si batte in questi anni per evitare il disastro nucleare, viene inviato in Russia a parlare con Breznev, sui rischi di un eventuale uso dell’atomica, e confuta il darwinismo materialista e ideologico di Jacques Monod, che riduce l’uomo ad un figlio del caso. In nome dei suoi studi di genetica Lejeune sostiene la credibilità di Adamo ed Eva e, anticipando di dieci anni le scoperte di Gould ed Eldrege, contrasta il gradualismo step by step di Darwin, sostenendo che l’evoluzione ha dovuto per forza fare dei salti.
In ogni cosa, come padre di cinque figli, come scienziato, come polemista contro l’aborto e il darwinismo materialista, ciò che più colpiva, in lui, come rammenta la figlia, era “l’assenza di paura. Non aveva paura. Cosa si può fare contro un uomo che non desidera niente per se stesso?”. Timete Dominum et nihil aliud, diceva, perché solo così si è veramente liberi, solo così si è certi di rinunciare a se stessi e al proprio egoismo, per perseguire con limpidezza la via della Verità e del Bene. Il suo motto poteva così essere quello che D’Annunzio, aveva ripreso e inciso sul muro del suo Vittoriale: “Ho quello che ho donato”. Per questo, alla sua morte, un ragazzo down, Bruno, “con la sicurezza di un predicatore quaresimale, si impadronisce del microfono durante le esequie di Jerome Lejeune a Notre Dame di Parigi. Senza timore, in una cattedrale affollata, improvvisa un panegirico che termina con queste parole: ‘Grazie, mio caro professor Lejeune di quello che hai fatto per mio padre e per mia madre. Grazie a te, sono fiero di me…’. Nessun altro oltre a Bruno avrebbe potuto dire parole simili. Più tardi veniamo a sapere che egli è il bambino il cui esame dei cromosomi, trentacinque anni prima, ha permesso a Lejeune di scoprire la trisomia 21”[1].
Tutta la battaglia di Lejeune è dunque quella di un credente e di uno scienziato che in un’epoca in cui si fa fatica a riconoscere la dignità dell’uomo, il suo essere ad immagine e somiglianza di Dio, difende questo principio, con la sua umanità e la sua scienza, e urla al mondo che persino gli handicappati sono uomini!
La sua, scrive Jean Marie Le Méné, è la stessa battaglia degli abolizionisti americani che di fronte alla schiavitù affermavano: a man is a man. Un uomo è un uomo. Negli stessi anni in cui Francis Crick dichiara che “nessun bambino dovrebbe essere definito come essere umano prima di essere stato sottoposto a un test che ne determini il corredo genetico. Se non supera il test, si è giocato il diritto alla vita”, Lejeune ribadisce: Ogni uomo è un uomo.
E’ un feto, lo abortiamo? E’ un uomo.
E’ malato? E’ un uomo.
Fabbrichiamo un embrione in vitro? E’ un uomo.
Lo congeliamo? E’ un uomo.
Lo vivisezioniamo sino al quattordicesimo giorno? E’ un uomo.
Lo produciamo in un utero artificiale, o in affitto? E’ un uomo.
Lo cloniamo? E’ un uomo.
Lo priviamo di suo padre e di sua madre, con l’adozione a persone dello stesso sesso? E’ un uomo[2].
Eppure la parola “uomo”, come si è visto, può per molti non significare nulla.
Ricordiamo la formica di Wilson, la mosca di Scalfari, il sasso di Boncinelli, la gallina di Singer?
“E’ difficile conciliare l’evoluzione- ha scritto Dawkins a pagina 297 del libro citato- con la concessione di diritti assolutamente speciali a cellule della specie homo sapiens…Il discorso dell’evoluzione è molto semplice. L’ ‘umanità’ di una cellula embrionale non le conferisce uno status morale separato. Non lo conferisce a causa della nostra continuità evolutiva con gli scimpanzé, e, più alla lontana, con tutte le specie del pianeta”. Dawkins non si rende però conto che il suo discorso, declinato coerentemente, significa che è impossibile coniugare il suo evoluzionismo con il rispetto dell’uomo tout court, essendo costui, anche dopo la fase embrionale, anche da bambino o da adulto, nella sua ottica, solo un insieme di “cellule della specie homo sapiens e null’altro”. E mentre Dawkins, in nome dell’evoluzionismo materialista, nega la sacralità della vita sin dalla sua origine, insieme ad altri, sulla stessa lunghezza d’onda, e adducendo gli stessi ragionamenti, promuove la liberalizzazione dell’eutanasia. “L’abbiamo già detto, ha scritto Umberto Veronesi: per l’evoluzione (sic) l’elemento davvero vitale è la procreazione. L’individuo più adatto è quello che fa più figli. Dopo aver generato i ‘doverosi’ figli e averli allevati il suo compito è finito: occupa spazio destinato ad altri…bisognerebbe che le persone a cinquanta o a sessant’anni sparissero”[3].
 Francesco Agnoli



[1] Jean-Marie Le Méné, “Il professor Lejeune, fondatore della genetica moderna”, Cantagalli, Siena, 2008, p. 178.
[2] Idem, p. 19.
[3] Umberto Veronesi, Giulio Giorello, op. cit., p. 39.