domenica 19 gennaio 2014

Targhette


panche
di Paolo Pugni
Immagina una chiesa in settimana. Buia, silenziosa. Magari anche vuota. Ci entri. Individui la panca. Ti siedi o ti inginocchi, non ci fai caso, poi all’improvviso, quando giri lo sguardo forse per cercare una maggiore concentrazione, forse per scacciare un pensiero che si insinua, ti invadono il campo visivo, sommessamente però, non come una luce che squilla.
Inchiodata come per fissare il tempo che gratta e soffia via, una targhetta sussurra un nome. Talvolta solo una sigla. In memoria. Doppia: dell’offerta fatta alla parrocchia e della persona che, come si dice, non c’è più. Qui. Non c’è più. Intendo. Non è visibile. Perché c’è. Ancora. Eccome se c’è. Più di prima.
Ecco. Se ci fermassimo con la mente, se capissimo veramente che cosa è quel rettangolo di ottone o plastica, saremmo percorsi da un brivido, quello della vita che sorride e accarezza.
Perché quelle sono esistenze, che magari si sono sedute sulla medesima panca, hanno pregato lì, sognato lì, imprecato lì, pianto lì. E sono ancora accanto a me.
Perché dobbiamo essere capaci di far parlare la realtà muta, quella che fa da sfondo, da colonna sonora, quella che sussurra come lieve brezza, che sta nascosta, ombra, anzi penombra, pastello, fischio lontano. Per gustare la vita, collegare i punti, capire il disegno, andare in profondità e apprezzare il senso.
Prima che diventiamo anche noi targhette sul banco.