sabato 25 gennaio 2014

Per raccontare, il giornalista deve commuoversi

Quirico con Scola


L'inviato della Stampa e l’Arcivescovo di Milano in un incontro per San Francesco di Sales, patrono dei giornalisti: occorre «essere lì dove l'uomo soffre»

DOMENICO AGASSO JRMILANO
La verità va testimoniata esponendosi in prima persona, e questo vale per i giornalisti, ma non solo. È un invito rivolto a tutti quello dell'arcivescovo di Milano, il cardinale Angelo Scola, che oggi in occasione della Festa di san Francesco di Sales, patrono dei giornalisti, ha partecipato a un incontro con l'inviato della Stampa Domenico Quirico dal titolo “Giornalista, testimone”, moderato da Donatella Negri (Rai), che si è svolto - come da tradizione per questa ricorrenza - nell’Istituto dei ciechi.

Quirico - che è stato liberato lo scorso 8 settembre dopo cinque mesi sotto sequestro in Siria - è partito dalla sua esperienza personale per spiegare che si ha il diritto di raccontare solo il dolore a cui si partecipa, a cui si è presenti. Ha ricordato un episodio capitato a Frank Mc Curry: lo scatto di una foto in un contesto di sofferenza e il conseguente pianto del fotografo. «Vale anche per i giornalisti: se non partecipo a quel dolore – ha detto Quirico - non posso raccontarlo. È nella commozione - aggiunge - che nasce la mia titolarità a raccontare le storie degli altri uomini».

«Mai farsi chiedere - ha osservato - tu dov'eri quando soffrivo. Io non posso rispondere che non ero lì. Devo dire invece: io ero lì con te. La tua stessa paura è stata la mia paura, il mio dolore, la tua stessa sofferenza è - seppure solo in parte - la mia. In quel momento io posso scrivere di te. Altrimenti non ho quel diritto».

«Io lavoro – ha proseguito - sulla sofferenza umana. La materia del mio giornalismo è il dolore. E io non posso "mangiare" quel dolore se non sono lì con te. Non esiste altra possibilità. Questa è una necessità».
Oggi però questa commozione sembra diventata più difficile, anche se è necessaria perché «non si può conoscere solo con la testa», ha detto il Cardinale. Scola ha definito la commozione «un'esperienza naturale dell'uomo». «Credo – ha detto - sia una delle manifestazioni più evidenti della dimensione religiosa insopprimibile di ogni donna e uomo. Inclinazione istintiva ad appassionarci tutti assieme a chi è nella prova. Basta vedere come la gente si mobilita di fronte alle disgrazie e alle sciagure. Il moto naturale della compassione può esistere senza la commozione? No. E se noi siamo diventati duri di cuore - penso soprattutto a noi europei che spesso siamo, come dice il poeta Eliot “impagliati”, duri a commuoverci – è anche perché la compassione non è più costume e non siamo in grado a livello originario di coinvolgerci».
Ma, ammonisce l'arcivescovo Scola, «si può conoscere solo con la testa? No. La conoscenza se non è commossa è sempre separata, astratta». 

Si è troppo appassionati alle «dietrologie» che «nulla hanno a che fare con la necessità di trasparenza, con il bisogno per i giornalisti di indagare», ha dichiarato Scola. «Abbiamo l'ossessione delle dietrologie, di cosa ci sarà dietro». «La nostra società da questo punto di vista - ha osservato il Cardinale - è estremamente impoverita. C'è un modo di guardare, interpretare, comunicare la società che non passando dall'autoesposizione assume toni e provoca conseguenze che non sono positive per la società».

L’unica via da percorrere è quella della testimonianza, con la propria vita.
L'appello di Scola è quello di spendersi in prima persona, proprio come sostenuto da Quirico: «In una società plurale come la nostra ci sono tanti punti di vista diversi, la verità è complessa, il nostro limite è coglierla. Certamente viviamo in un’epoca di grande travaglio - biotecnologie, incomprensibilità della finanza, meticciato - questo ci chiama a metterci la faccia. Dobbiamo partire dal nostro quotidiano dal nostro limite, dai nostri affetti e giocarci in prima persona».

A Quirico poi è stata posta una domanda sul possibile male che può compiere indagare per far emergere la verità. Il giornalista ha risposto così: «A un certo punto della mia vita mi sono accorto che il mestiere che esercitavo aveva un rapporto di responsabilità morale con le persone che raccontavo. Il mio rapporto con le parole determinava per il fatto stesso che le raccontavo un rapporto con le persone che raccontavo. C'è un giornalismo che ferma le guerre, come accaduto in Algeria per esempio. In Siria, invece, il dovere di testimoniare non ha funzionato. Non abbiamo tenuto fede a quel rapporto di responsabilità morale con le persone che raccontavamo. Coscienza vuol dire azione, scelta. In Siria non è diventata commozione. Poi certo ci sono anche le responsabilità delle cancellerie, ma, ribadisco, questo rapporto non ha funzionato».

Certamente la compartecipazione del giornalista con i drammi e le tragedie può essere pericolosa anche per gli affetti più cari. Su questo aspetto l’inviato de La Stampa ha sottolineato: «Voglio dire con forza che quello che è successo a me è minimo rispetto alla tragedia di 22 milioni di persone che sono ancora ostaggi, lì. Sì, raccontare il dolore degli altri può provocare dolore in altre persone - famiglia, amici - E in questo c'è una componente di vanità innegabile. La colpa è fare una cosa creando sofferenza in persone che non hanno scelto, indifese. Alla domanda se ne vale la pena io non ho trovato risposta».

Quirico ha descritto il suo mestiere come magico, «un continuo fare e disfare»: «Tutti i giorni si ricomincia ed è lì la magia». E Scola ha aggiunto: «Ma è così per tutti, la vita è una spirale che va verso Dio. Non deve spaventare la ripetizione del quotidiano perché è normale nella nostra finitudine entrare nella profondità del reale passo dopo passo ripetendo i nostri gesti nella dimensione costitutiva del nostro io».
E occorre non avere timori di approfondire la parte sbagliata: «Anche quella – ha messo in evidenza Quirico - ci permette di raccontare una massa di umanità e bontà».

L’Arcivescovo ha riassunto il dibattito con Quirico ribadendo che i giornalisti devono correlare «la parola testimonianza con la parola auto-esposizione»: «Pagare di persona, essere lì dove l'uomo soffre, essere lì commossi, cioè coinvolti».
E poi ha concluso definendo «questo dialogo un abbraccio. Un modo per lasciarsi fecondare dall'altro».