sabato 25 gennaio 2014

L'umanesimo antipersonalista nel pensiero contemporaneo (2) - L'esistenzialismo

Di Maurizio Moscone, Docente di Antropologia Teologica presso i Seminari "Redemptoris Mater".


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L'antipersonalismo nel pensiero contemporaneo. L'Esistenzialismo 


L’antropologia esistenzialista si comprende all’interno della modalità di pensiero inaugurata da Kierkegaard, il quale ha posto al centro della sua riflessione l’esistenza concreta del singolo[1], e ha rifiutato, nel contempo, l’astrattezza del sistema idealistico hegeliano, che “si dimentica” dell’esistenza degli individui umani e considera concreta e reale soltanto la Ragione universale.
Hegel è il filosofo dell’essenza mentre Kierkegaard è il filosofo dell’esistenza, intesa come la concreta storica realtà di ogni individuo umano.
Nella filosofia hegeliana l’individuo umano è fagocitato nel sistema delle idee, dal quale è indeducibile l’esistenza concreta dei singoli. Shelling, nell’ultima fase del suo pensiero, aveva criticato l’idealismo hegeliano perché era impossibilitato a prendere in considerazione l’esistenza in quanto tale.
Infatti dall’analisi a priori di un’essenza ideale è impossibile dedurne l’esistenza, come già Kant aveva evidenziato con il famoso esempio dell’idea di “cento talleri”. Il filosofo notava che il concetto di “cento talleri” è perfetto in se stesso indipendentemente dal fatto che queste monete esistano o non esistano, mentre nel piano della realtà la loro esistenza o inesistenza non è affatto indifferente per il loro possessore[2].
In questo modo Kant cercava di inficiare il valore della prova a priori dell’esistenza di Dio di Sant’Anselmo, secondo il quale dall’idea di un essere di cui non si può pensare il maggiore si deve  dedurre la sua esistenza. Questa prova era stata riformulata da Cartesio, il quale dimostra l’esistenza di Dio inferendola dall’idea di Essere perfetto, cioè dell’essere che, avendo tutte le perfezioni, deve necessariamente possedere la perfezione dell’esistenza, che è il fondamento di tutte le altre.
Scrive in proposito Cartesio:
“Quando […] tornavo a prendere in esame l’idea che avevo di un Essere perfetto, trovavo che l’esistenza vi era compresa come nell’idea di triangolo è compreso che i suoi tre angoli sono eguali a due retti, o come in quella della sfera che tutte le sue parti sono poste ad un’uguale distanza dal centro e perfino con maggiore evidenza; e di conseguenza che Dio, cioè questo Essere perfetto, sia o esista, è almeno tanto certo quanto non potrebbe esserlo nessuna dimostrazione di Geometria”[3].
A ben vedere la critica di Kant  alla prova a priori dell’esistenza di Dio non regge, perché l’idea di “cento talleri” non implica la sua esistenza, a differenza dall’idea di essere perfetto, che è inconcepibile senza la perfezione dell’esistenza.
Colui che ha confutato questa prova, anche se si riferiva a Sant’Anselmo,  è  San Tommaso.  Egli ha infatti evidenziato  l’indebito passaggio dall’ordine logico-ideale a quello reale-concreto[4], per cui, secondo l’argomentazione a priori, si dovrebbe affermare l’esistenza puramente ideale di Dio, ma non quella reale.
Shelling, come è stato detto prima, contestava a Hegel l’indeducibilità dell’esistenza concreta della realtà dall’analisi a priori delle essenze ideali e Kierkegaard ha probabilmente appreso questa critica quando negli anni 1841-1842  si recò a Berlino per seguire le lezioni di Shelling.
L’esistenza, afferma Kierkegaard, “non coincide con il concetto. Per un singolo animale, una singola pianta, un singolo uomo, l’esistenza (essere o non essere), è qualcosa di molto decisivo; un uomo singolo non ha certo un’esistenza concettuale”.[5]
L’esistenza “corrisponde alla realtà singolare, al singolo”[6], e, conseguentemente,  la riflessione del filosofo sarà tutta incentrata sulla vita concreta dell’individuo umano con le sue vicissitudini, speranze e dolori che la contraddistinguono in contrapposizione alla astratta dialettica delle idee di Hegel, perché “il singolo uomo è al di sotto del concetto”[7].
Ogni uomo deve acquisire la consapevolezza di essere un “singolo”, Kierkegaard afferma infatti  che “bisogna prima di tutto tenere presente che ogni uomo è un singolo uomo e deve avere la consapevolezza di essere un singolo uomo”[8].
L’essere umano vive e pensa per lo più come “massa”, cioè come elemento anonimo di una struttura. Vive quindi in modo esteriore e superficiale e scopre la propria dimensione più autentica e vera quando prende coscienza della propria singolarità, quindi della propria unicità ed eccezionalità.
Kierkegaard analizza la dimensione ontologica del singolo a partire dalla riflessione introspettiva su se stesso, per cui la sua è una filosofia in prima persona. Essa, infatti, è una filosofia della  soggettività , nella quale l’essere umano viene considerato  non dall’esterno, in maniera oggettivistica (come fa la  scienza), ma dall’interno, per cui è il soggetto, l’essere umano, che riflette su se stesso. Scrive in proposito:
“Oggettivamente si parla soltanto della cosa, soggettivamente si parla del soggetto e della soggettività: qui per l’appunto è la soggettività che è la cosa. Si deve sempre mantenere questo, che il problema soggettivo non tratta di qualcosa su qualcosa, ma è la soggettività stessa”[9].
Kierkegaard analizza l’esistenza  dal di dentro. Essa, infatti, è prima di tutto l’analisi della suaesistenza umana e, in quanto umana, con tratti comuni a ogni individuo umano. Il filosofo considera l’esistenza nel senso etimologico del termine, cioè come ex-sistere, quindi come venire o stare fuori. In particolare come venire da Dio, dal quale ogni individuo umano si è distaccato per una colpa originaria, e come stare  in un mondo connotato dal peccato.
Kierkegaard, interpreta l’esistenza umana, alla luce della sua fede luterana[10], secondo la quale il peccato originale non indebolisce ma distrugge la natura umana, per cui l’uomo è assolutamente incapace di compiere il bene.
L’esistenza umana è quindi intrinsecamente peccaminosa e quindi ogni individuo vive nella disperazione e ricerca una salvezza.
Salvezza che può essere raggiunta, come vedremo, soltanto nella scelta della fede. L’individuo è libero e la sua libertà gli consente di scegliere tra infinite possibilità, di fronte alle quali è preso da un sentimento di angoscia.
Scrive al riguardo:
“L’angoscia si può paragonare alla vertigine. Chi volge gli occhi al fondo di un abisso, è preso dalla vertigine. Ma la causa non è meno nel suo occhio che nell’abisso: perché deve guardarsi. Così l’angoscia è la vertigine della libertà, che sorge […] guardando giù nella sua propria possibilità […]”.[11]
Secondo il filosofo il singolo è chiamato continuamente a scegliere tra più possibilità e ogni scelta comporta sempre un “aut-aut”,  quindi il singolo deve sempre decidere in rapporto ad alternative inconciliabili: infatti ogni scelta esclude tutte le altre possibili.
Le scelte più significative riguardano tre modi di essere che, secondo Kierkegaard,sono paradigmatici dell’esistenza umana, denominati: stadio estetico, stadio etico e stadio religioso[12].
I tre stadi non devono essere intesi, hegelianamente, come tre momenti dialettici: tesi stadio estetico, antitesi stadio etico e sintesi stadio religioso. Essi non sono infatti necessariamente connessi tra di loro, ma sono tre possibilità esistenziali, la cui dialettica è quella dell’ aut-aut (e non dell’et-et).
Ogni individuo può vivere in modo estetico o etico o religioso.
L’uomo estetico è non solo l’artista, ma, in generale, chi vive assecondando la propria sensualità. Infatti, il termine “estetico” deriva da greco aistesis, che vuole dire sensazione.
Per descrivere concretamente il modo di vivere estetico, il filosofo presenta non un’astratta speculazione teorica ma un personaggio: Don Giovanni. Ugualmente, ne presenta uno, il giudice Guglielmo che rappresenta la vita etica e un altro Abramo che personifica la fede.
Don Giovanni è il viveur che passa da una donna all’altra senza mai soddisfarsi, essendo sempre alla ricerca di nuovi piaceri. Fondamentalmente non sceglie mai, ma continuamente si fa scegliere dalle situazioni in cui si trova a vivere. Don Giovanni vive l’attimo, è l’uomo del carpe diem; la sua esistenza è un insieme di momenti scollegati tra di loro senza una vera e propria continuità storica. Infatti, egli, scrive il filosofo, “non ha [...] una sua sussistenza, ma urge in un eterno sparire [...]”.[13]
Don Giovanni è un disperato, “il demoniaco, che non [...] smetterà di sedurre come il vento di soffiare impetuoso, il mare di dondolarsi o una cascata di precipitarsi giù dal suo vertice”.[14]
Il giudice Guglielmo è anch’egli un disperato, anche se, all’apparenza vive un’esistenza tranquilla e serena.
Il giudice è un uomo etico: lavora onestamente, è un marito fedele e un bravo padre di famiglia. E’ l’uomo che ha saputo compiere scelte definitive e che si impegna nella vita in modo continuativo, la sua è quindi un’esistenza che ha una dimensione storica  a differenza della vita frammentaria dell’esteta.
Il giudice Guglielmo è l’individuo che vive secondo la legge e al quale neanche Dio può rimproverare nulla. Ha quindi la presunzione di salvarsi con le sue forze, per cui la sua situazione esistenziale è ancora più disperata di quella del Don Giovanni.
L’unica via di uscita dall’angoscia e dalla disperazione esistenziale, che connotano lo stadio estetico e quello etico, è rappresentata dalla fede cristiana.
La fede è Abramo, cioè un uomo che si è affidato totalmente alla volontà del Signore, che ha sperato contro ogni speranza,  offrendo in sacrificio a Dio il figlio della promessa, Isacco, che, secondo il piano divino,  doveva  essere il  primo dei discendenti di Abramo, i quali avrebbero dovuto popolare tutta la terra ed essere più numerosi delle stelle del cielo.
Dio, chiedendo il sacrificio di Isacco contraddice  se stesso, ma Abramo obbedisce comunque al suo comando fidandosi della giustizia e della misericordia divina.
Abramo è il singolo che dice sì alla chiamata di Dio e si abbandona totalmente a Lui, non vivendo più secondo la legge etica. Abramo infatti era pronto anche a uccidere il proprio figlio pur di compiere la volontà di Dio.
Abramo è solo di fronte a una richiesta assurda di Dio e compie un “salto” nella fede, cioè sceglie di obbedire a Dio, anche se questo atto di obbedienza contraddice un imperativo morale e, in generale, il senso comune.
Abramo è il singolo che crede quia absurdum[15], cioè che crede, come già sosteneva Tertulliano, indipendentemente da qualsiasi motivazione razionale.

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NOTE
[1] “Se io dovessi domandare un epitaffio per la mia tomba , non chiederei che : “quel Singolo”, anche se ora questa categoria non è capita. Lo sarà in seguito” (S. Kierkegaard, Il Diario,  citato in M. Fazio, Un sentiero nel bosco. Guida al pensiero di Kierkegaard, Armando, Roma 2000, p. 58).
[2] Cfr. E. Kant, Critica  della  ragion  pura, Laterza, Roma-Bari  2000,  p.383.
[3] Cartesio, Discorso sul metodo, in G. Brianese, Il “Discorso sul metodo” di Cartesio e il problema del metodo nel XVII secolo, Paravia, Torino 1992,  p.77.
Cartesio dimostra a priori l’esistenza di Dio anche argomentando che in lui, come in ogni essere umano, è presente “l’idea di un essere più perfetto di me”, che non può derivare da lui che è imperfetto, né dal nulla (ex nihilo nihil), “così rimaneva solo che fosse stata posta in me da una natura veramente più perfetta di quello che io fossi, anzi avente in sé tutte le perfezioni di cui potevo avere qualche idea, cioè, per dirla in una parola, che fosse Dio” (Idem, Discorso sul metodo, cit., p. 75).
Un’ulteriore dimostrazione dell’esistenza di Dio viene fornita dal filosofo, partendo dall’idea di perfezione presente nella sua anima. Se essa fosse causata da lui “avrei potuto darmi – scrive Cartesio – tutto il sovrappiù che sapevo mancarmi e, in tal modo, essere anch’io infinito, eterno, immutabile, onnisciente, onnipotente, possedere insomma tutte le perfezioni che potevo notare in Dio” (ibidem, p. 76), la causa di questa idea era quindi colui che possedeva queste perfezioni: Dio (cfr. ibidem).
[4]  La critica mossa da Tommaso alla prova a priori di Sant’Anselmo è valida anche nei confronti delle argomentazioni di Cartesio. Dall’idea di un essere di cui non si può pensare il maggiore non si può inferire la sua esistenza, perché è un indebito passaggio dall’ordine logico-ideale a quello reale. Scrive Tommaso:
“Posto che ognuno intenda che con questo nome Dio è significato […] ciò che è tale che nulla di più grande può essere concepito, non ne segue per ciò che si intenda che la cosa significata da questo nome sia nella natura, ma soltanto che è nell’apprensione dell’intelletto” (San Tommaso d’Aquino, Somma Teologica, I, q. 1, a. 1).
[5] S. Kierkegaard, Diario, a cura di C. Fabro, Biblioteca Universale Rizzoli, Brescia 1975,  p. 218.
[6] Ibidem, p. 217.
[7] S. Kierkegaard, La malattia mortale. Saggio di psicologia cristiana per edificazione e risveglio di Anti-Climacus, Introduzione di R. Cantoni, Newton Compton Editori, Roma 1995, p. 87.
[8] Ibidem, p. 86.
[9] S. Kierkegaard, Briciole di filosofia e Postilla  non scientifica, a cura di C. Fabro, vol. I, Zanichelli, Bologna 1972, p.323.
[10] Kierkegaard fu un protestante sui generis, perché come scrive Fabro, “criticò a fondo il protestantesimo, e lo stesso Lutero, come ribellione al Vangelo e sconfessò il monaco ribelle per aver dichiarato  «lettera di paglia» lo scritto di un apostolo (san Giacomo)” (C. Fabro,Introduzione, in  S. Kierkegaard,  Pensieri che feriscono alle spalle, Edizioni Messaggero di Padova, Padova 1982, p. 22).
[11] S. Kierkegaard S., Il concetto dell’angoscia, Sansoni, Firenze 1952, p.92.
[12] Le opere, scritte nel 1843, in cui vengono trattate in modo tematico le problematiche relative allo stadio estetico, etico e religioso sono, rispettivamente:  Diario di un seduttore, Aut-Aut, Timore e tremore.
[13] S. Kierkegaard, Gli stadi erotici immediati, ovvero il musicale-erotico, in Enten-Eller, vol. I,  a cura di A. Cortese, Adelphi,  Milano 1976, p.172.
[14] Ibidem, p. 161.
[15] In merito alla formula “credo quia absurdum” Benedetto XVI ha affermato:
"La tradizione cattolica ha sin dall'inizio rigettato il fideismo, che è la volontà di credere contro la ragione.
'Credo quia absurdum' (credo perché è assurdo) non è formula che interpreti la fede cattolica. […]Dio, infatti, non è assurdo, semmai è mistero. […]Il mistero, a sua volta, non è irrazionale, ma sovrabbondanza di senso, di significato, di verità. Se, guardando al mistero, la ragione vede buio, non è perché nel mistero non ci sia luce, ma piuttosto perché ce n'è troppa. Così come quando gli occhi dell'uomo si dirigono direttamente al sole per guardarlo, vedono solo tenebra; ma chi direbbe che il sole non è luminoso?; anzi, è la fonte della luce. […] E' falso il pregiudizio di certi pensatori moderni, secondo i quali la ragione umana verrebbe come bloccata dai dogmi della fede. E' vero esattamente il contrario, come i grandi maestri della tradizione cattolica hanno dimostrato” (Benedetto XVI, Udienza generale, Aula Paolo VI, Città del Vaticano 21 novembre 2012).

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Il singolo che compie il salto della fede sospende ogni ragionamento e accetta il paradosso di Dio, cioè dell’eternità, che incarnandosi in Gesù Cristo, entra nella storia e si temporalizza.
Il singolo, nella luce della fede, non apprende una dottrina o una morale, ma sperimenta l’incontro con una Persona che, “prende il suo posto”, e lo consola  amorevolmente.
Scrive in proposito:
“Cristo si è messo completamente al tuo posto.
Egli era Dio e diventò uomo (Gv 1,14). E’ questo infatti ciò che la vera compassione tanto preferisce, cioè di mettersi completamente al posto del sofferente per poterlo veramente consolare. Ma ciò che nessuna compassione umana è in grado di fare, lo può soltanto la compassione divina – e Dio si incarnò! Egli si incarnò. Egli divenne l’uomo che ha sofferto più di tutti, assolutamente più di tutti. Non è mai nato un uomo, né nascerà, né può nascere, che debba soffrire come lui. Oh, quale garanzia per la sua compassione di dare una simile garanzia! Con compassione apre le braccia a tutti i sofferenti: «Venite a me voi tutti che siete affaticati e oppressi» […]”[1].
Il Cristianesimo per Kierkegaard, non è né una filosofia né una teologia, ma è la presenza reale e concreta di Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo, nella vita dei credenti. Il Cristianesimo è quindi ben diverso dalla Cristianità, rappresentato nella sua società dalla Chiesa di Sato danese, che ha burocratizzato la vita cristiana riducendola a   delle pratiche esteriori, insignificanti per l’esistenza dei singoli.
Il filosofo criticò frequentemente la sua Chiesa per aver tradito il Cristianesimo e il bersaglio delle sue invettive fu soprattutto il Vescovo Mynster.
Scrive a riguardo di una sua omelia:
“Come esempio del modo in cui la predicazione di  Mynster finisce per abolire in sostanza il Cristianesimo, abbassandolo alle cose più insignificanti, si prenda la predica XXII: «Come possiamo difendere e rafforzare il Regno di Dio». Il modo in cui egli […] spiega che «confessare Cristo» consiste nell’andare in chiesa la domenica, e quelli che ci vanno confessano Cristo e gli altri no: mi pare sia un po’ troppo! Se questo è «confessare Cristo», a che s’è ridotta mai l’esigenza del Cristianesimo!?”[2].
La critica che Kierkegaard rivolge alla Cristianità è analoga a quella da lui mossa nei confronti del sistema hegeliano: il Cristianesimo è ridotto a un astratto  formalismo che “si dimentica” dell’esistenza concreta dei singoli credenti, i quali sperimentano la scissione tra la fede e la vita.
Il filosofo denuncia il processo di scristianizzazione in atto nel suo paese, rilevando che “è più facile diventare cristiani quando non si è cristiani, che non diventarlo quando lo si è; e questa decisone è riservata a colui che è stato battezzato da bambino”[3].
Kierkegaard evidenzia che il battesimo di per sé non garantisce che chi è battezzato sia ipso facto cristiano perché, per diventarlo  è necessario “appropriarsi” della verità evangelica, cioè accettarla liberamente e integralmente. Infatti scrive: “Cos’è il battesimo senza appropriazione del Cristianesimo?. Sì, è la possibilità che il bambino battezzato diventi un giorno cristiano, né più né meno”[4].
Le riflessioni svolte da Kierkegaard sono ancora oggi attuali e conservano tutto il loro valore, essendo un richiamo per tutte le chiese a vivere in modo autentico il Cristianesimo, ma sono riflessioni filosofiche?
Cornelio Fabro, che è forse il maggiore conoscitore delle opere di Kierkegaard, ha scritto giustamente che egli “parte  dai dogmi cristiani, dalla realtà cristiana, come dati, e riesce a dare alla verità cristiana una presentazione del tutto nuova, cioè quella esistenziale […]: è sempre la verità cristiana che mette in movimento e sostiene il suo pensiero”[5].
Kierkegaard ha interpretato l’esistenza umana,
alla luce della sua ricca esperienza di fede , la quale  ha alimentato le sue meditazioni sull’esperienza che gli individui umani vivono nei diversi stadi dell’esistenza: estetico, etico e religioso.
Le sue profonde meditazioni hanno un grande valore spirituale, ma non sono né filosofiche né teologiche. Non sono filosofiche perché l’ “organo” della filosofia è la ragione e non la fede. Non sono teologiche perché la teologia, rettamente intesa, è la scienza della fede ed è “una partecipazione alla conoscenza che Dio ha di se stesso”[6].
In generale Kierkegaard critica il sapere scientifico perché esso oggettivizza, traducendola in schemi astratti, la realtà, la quale può essere compresa soltanto soggettivamente, perché, come è stato evidenziato prima[7],  la sua è una “filosofia” in prima persona per cui la verità si identifica con la soggettività.
La verità non è quindi mai qualcosa di oggettivo, ma è sempre un quid che viene sperimentato da un individuo umano.
La verità è declinata al singolare e quindi ci possono essere tante verità diverse  a seconda delle prospettive esistenziali dei singoli interpreti: la verità dei cristiani, degli atei, degli agnostici, ecc.. La caduta nel soggettivismo e nel relativismo è  inevitabile.
I cristiani possono testimoniare con la loro vita che la loro fede non è una semplice opinione, ma si fonda sull’esperienza reale di Gesù Cristo, ma sarebbero impossibilitati a difendere una serie di verità che sono state affermate, nel corso dei secoli, sul piano della speculazione razionale e tra queste il concetto di persona intesa come unione sostanziale di spirito immortale e di corpo, che, come è stato mostrato nei precedenti articoli[8], è una verità di carattere filosofico che ha valore universale.
Il modo di pensare esistenzialistico, inaugurato da Kierkegaard, come vedremo nei prossimi articoli, si è sviluppato coerentemente nei grandi filosofi esistenzialisti Sartre, Jaspers e Heidegger, i quali negano che l’essere umano abbia un’essenza necessaria e immutabile, affermando che l’uomo “si fa” nella storia ed è un “progetto gettato” sempre in divenire. 

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NOTE
[1] S. Kierkegaard, Pensieri che feriscono alle spalle, cit., pp. 128-129.
[2] S. Kierkegaard, Diario, cit., p. 156.
[3] S. Kierkegaard, Briciole di filosofia e Postilla  non scientifica, vol. 2, cit.,  p. 173. Il corsivo è nel testo.
[4] Ibidem.
Riguardo al battesimo, il Papa Francesco dice: “Il Battesimo è il sacramento su cui si fonda la nostra stessa fede e che ci innesta come membra vive in Cristo e nella sua Chiesa. Insieme all’Eucaristia e alla Confermazione forma la cosiddetta «Iniziazione cristiana», la quale costituisce come un unico, grande evento sacramentale che ci configura al Signore e fa di noi un segno vivo della sua presenza e del suo amore.
Può nascere in noi una domanda: ma è davvero necessario il Battesimo per vivere da cristiani e seguire Gesù? Non è in fondo un semplice rito, un atto formale della Chiesa per dare il nome al bambino e alla bambina? E’ una domanda che può sorgere. E a tale proposito, è illuminante quanto scrive l’apostolo Paolo: «Non sapete che quanti siamo stati battezzati in Cristo Gesù, siamo stati battezzati nella sua morte? Per mezzo del battesimo dunque siamo stati sepolti insieme a lui nella morte affinché, come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova» (Rm 6,3-4). Dunque non è una formalità! E’ un atto che tocca in profondità la nostra esistenza. Un bambino battezzato o un bambino non battezzato non è lo stesso. Non è lo stesso una persona battezzata o una persona non battezzata. Noi, con il Battesimo, veniamo immersi in quella sorgente inesauribile di vita che è la morte di Gesù, il più grande atto d’amore di tutta la storia; e grazie a questo amore possiamo vivere una vita nuova, non più in balìa del male, del peccato e della morte, ma nella comunione con Dio e con i fratelli” (Papa Francesco, Udienza generale, Roma, Piazza San Pietro, 8 gennaio 2014).
[5] C. Fabro, Introduzione in S. Kierkegaard, Briciole di filosofia e Postilla  non scientifica,vol. 1, cit., p. 2.
[6] Francesco, Lumen fidei, 36.
[7] Vedi il precedente articolo pubblicato su Zenit, con il titolo: L’umanesimo antipersonalista. L’antipersonalismo nel pensiero contemporaneo. L’Esistenzialismo / 1 
[8] Vedi gli articoli pubblicati su Zenit con il titolo: L’anima esiste ed è immortale.