sabato 25 gennaio 2014

In balìa della "legge nera"

Manifestazioni contro la legge sulla blasfemiaPakistan, cristiani in balìa della "legge nera"
di Marta Petrosillo

Uno strumento di persecuzione che rischia di divenire ancora più efficace. La cosiddetta legge sulla blasfemia potrebbe mietere un maggiore numero di vittime se solo il governo dovesse accettare la proposta avanzata dalla Corte federale per la sharia di estendere la pena di morte come punizione per chi profana il Corano. Attualmente il codice penale pachistano – ai commi b e c dell’articolo 295 - prevede la condanna capitale unicamente per chi insulta il profeta Maometto, mentre i reati contro il libro sacro dell’islam sono puniti con la detenzione a vita.
La proposta del tribunale islamico pachistano è stata al centro di una tavola rotonda, dal titolo “Legge sulla blasfemia e pena di morte in Pakistan: una condanna per gli analfabeti”, promossa nei giorni scorsi a Roma dalle associazioni dei cristiani pachistani residenti in Italia. Gli organizzatori hanno evidenziato come la proposta della corte shariatica esponga al rischio di una condanna capitale circa il 95% della popolazione. Meno del 5% dei pachistani è infatti in grado di comprendere la lingua araba e chiunque potrebbe commettere inconsapevolmente un atto blasfemo.

La cosiddetta "legge nera" punisce – articolo 295 comma b del codice penale pachistano – chiunque offenda il Corano o ne danneggi una copia in tutto o in parte o lo utilizzi per scopi illeciti, senza prevedere alcuna volontarietà da parte dell’accusato. Si può dunque essere additati come blasfemi, semplicemente calpestando una pagina di giornale sulla quale sono riportati dei versetti del Corano: un'eventualità affatto remota in un paese in cui quotidiani, riviste e cartelloni riportano spesso versi del libro sacro islamico. L’analfabetismo – il cui tasso è intorno al 43% secondo le stime del Ministero federale per l’Istruzione – e la mancata conoscenza della lingua araba non sono riconosciuti come attenuanti.
Mancata conoscenza della lingua araba che riguarda anche l'accusatore, il quale in molti casi si limita a supporre che l’incriminata scritta in arabo ne contenga. Al riguardo si possono citare molteplici episodi. Nel 2010, in un sobborgo di Lahore, una famiglia cristiana è stata accusata di blasfemia per aver usato un pannello di metallo, trovato in una discarica, come tetto per il bagno della loro abitazione. Sul pannello, probabilmente un cartellone pubblicitario, vi erano apparentemente stati trascritti alcuni versetti del Corano, ma i membri della famiglia - tutti analfabeti - non potevano saperlo. Ciò nonostante, una folla inferocita di circa 2mila persone ha incendiato la loro casa.

Altro caso recente è quello di Rimsha Masih: una bambina cristiana di soli 14 anni e per giunta affetta da ritardo mentale, accusata di aver bruciato alcune pagine del libro sacro dell’islam nell’agosto del 2012. La ragazza era stata vista mentre gettava nella spazzatura una busta contenente alcune pagine di un libro scolastico precedentemente date alle fiamme. Incuriosito, un ragazzo musulmano ha portato la busta ad un imam locale, il quale - per sostanziare l’accusa e forse per incolpare la locale comunità cristiana - ha aggiunto alle pagine in suo possesso altre strappate dal Corano. Fortunatamente nel corso del processo quattro testimoni hanno dichiarato che il leader religioso aveva contraffatto le prove e quell’unica testimonianza ha salvato Rimsha. Il suo ritardo mentale, la tenera età o la mancata conoscenza dell’arabo non sarebbero bastati.
Come ha sottolineato Cesare Mirabelli, già presidente della Corte costituzionale, il fatto che il reato di blasfemia possa essere riferito anche a dei minori lede i diritti fondamentali della persona. Ma non è questa l’unica criticità della cosiddetta legge sulla blasfemia. “Il principio di legalità – ha aggiunto il giurista - implica una definizione esatta dei comportamenti penalmente rilevanti, in modo che vi sia piena consapevolezza della conseguenze da parte di chi compie l’azione”. Una specificità assente nel codice penale pachistano, nel quale i comportamenti blasfemi non sono chiaramente descritti, e che consente un’ampia discrezionalità giuridica. Questo fattore e la mancata richiesta di intenzionalità da parte dell’imputato favoriscono un uso improprio della legge sulla blasfemia, che si è trasformata di fatto in uno strumento per risolvere questioni personali.
Uno strumento particolarmente efficace se la persona contro la quale si punta il dito è un cristiano. Dei 1226 casi di blasfemia registrati dal 1986 - anno in cui il dittatore Zia ul-Haq ha introdotto la legge nera -  fino al 2013, 162 hanno visto dei cristiani come imputati. Un numero notevolissimo se si pensa che in Pakistan i cristiani costituiscono appena il 2% della popolazione. E purtroppo la situazione continua a peggiorare. La Commissione nazionale “Giustizia e Pace” della Conferenza episcopale pachistana ha infatti denunciato il netto aumento delle accuse di blasfemia a carico di cristiani, il cui numero è triplicato negli ultimi anni. Una tendenza confermata nel 2013. Infatti dei 32 casi registrati lo scorso anno 12 hanno riguardato cittadini cristiani.

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Asia Bibi: «Viva per le vostre preghiere»


di Lucia Capuzzi    Avvenire
Non è più rinchiusa in una cella senza finestre. Da giugno, Asia Noreen Bibi si trova nel carcere femminile di Multan. A sei ore d’auto da Lahore e dalla sua famiglia.
Ora questa donna minuta, che dimostra ben meno dei suoi 49 anni, indossa la divisa bianca delle detenute comuni. E come qualunque altra prigioniera ha diritto all’ora d’aria. 
La prima volta che è uscita in cortile, dopo 27 mesi di isolamento, barcollava, raccontano. Non si sa se per l’impatto con l’esterno o per il timore. Il rischio che il fanatismo si intrufoli fin dietro le sbarre del carcere per colpirla è alto. E le misure di sicurezza – come denuncia la stessa Asia nella lettera scritta a papa Francesco e inviata tre giorni fa alla Santa Sede tramite la Renaissaince Education Foundation che si dice sicura della sua ricezione in Vaticano – sono state ridotte. La donna non cucina più da sola i suoi pasti, mangia nel refettorio con le altre, nonostante il pericolo di avvelenamento. In tanti, tra gli estremisti islamici, hanno paura di questa mamma cattolica dal viso gentile e la volontà di ferro. Ma Asia Bibi non odia, né grida né cede. Con voce ferma e serena continua a proclamare la sua innocenza. Non che ce ne sia necessità. Chiunque – al di là del credo religioso e delle opinioni – si accosta alla vicenda giudiziaria della contadina del Punjab, giunge al medesimo verdetto: non colpevole.Non colpevole di aver insultato Maometto quel 19 giugno 2009. Non colpevole, dunque, di blasfemia. Difficile pensare il contrario: la donna che l’accusa, la moglie dell’imam locale, non ha portato una sola prova. Solo voci, illazioni, maldicenze tipiche di una comunità arcaica e isolata. In cui Asia era guardata con sospetto in quanto cattolica e, dunque, diversa. «Non si può bere dalla stessa borraccia di una cristiana», le aveva urlato la sua accusatrice durante il banale litigio che è costato ad Asia gli attuali 1. 656 giorni di carcere, una condanna a morte l’11 novembre 2010, poi sospesa per il processo di appello che non è ancora stato fissato.
Nessuno sa se e quando finirà l’incubo giudiziario di questa donna divenuta simbolo, suo malgrado, dell’arbitrarietà con cui viene utilizzata la legge antiblasfemia per reprimere le minoranze. Per questo, i fondamentalisti non possono accettare che torni libera. A costo di uccidere chi si schiera al suo fianco. È accaduto due volte: al governatore islamico Salman Taseer e al ministro cattolico Shahbaz Bhatti. Asia e chi per lei si batte, però, non rinunciano alla speranza. Il 6 marzo, Avvenireha consegnato all’ambasciatrice pachistana a Roma, Tehmina Janjua, oltre 31mila firme dei lettori che hanno voluto raccogliere l’appello della mamma cattolica al premier Zardari – pubblicato dal quotidiano l’8 dicembre 2012 – per farla tornare dai suoi cari. Oggi diffondiamo questa nuova testimonianza. Perché la voce libera di Asia esca dalla prigione di Multan.
fonte: Avvenire 1 gennaio 2014