venerdì 31 gennaio 2014

Il dilemma del cattolicesimo latino americano


Leggere oggi, nell’Occidente che ha vissuto il dramma del comunismo e certo pauperismo “cristiano”, alcuni passaggi dei padri della Chiesa, potrebbe risultare ingannevole e fuorviante. Se non si inquadrano bene senso e contesto. Siamo in un impero, quello romano, in disfacimento morale, dove il divario tra ricchi e poveri è incredibile e l’ingiustizia sociale raggiunge picchi mostruosi. Troviamo persone che non hanno da mangiare, ed altre che vivono di bagordi, di divertimenti, con migliaia di schiavi a disposizione. In questo contesto possiamo capire meglio l’insistenza continua dei primi cristiani sull’importanza dell’aiuto ai poveri: persino frasi come “di ciò che tu possiedi, nulla è tuo” e gesti eclatanti, come quello del vescovo sant’Ambrogio, il quale, al pari di altri confratelli, fonde i vasi sacri della Chiesa per riscattare dei prigionieri. E spiega, a chi lo critica, che “se la Chiesa ha dell’oro non è per custodirlo, ma per donarlo a chi ne ha bisogno”, perché è “meglio conservare i calici vivi delle anime che quelli di metallo”. Similmente, san Giovanni Cristostomo può scrivere: “Il sacramento non ha bisogno di preziosi metalli, quanto piuttosto di anime pure. Viceversa, i poveri sì che richiedono molta cura. Impariamo dunque…a onorare Cristo come egli vuole essere onorato…perché Dio non ha necessità di coppe d’oro, ma di anime d’oro…Che vantaggio ne deriva al Signore dal fatto che la sua mensa sia piena di coppe d’oro, se egli si consuma per la fame?”.
Queste frasi, lo ripeto, vanno comprese nel loro significato profondo: non vanno lette alla luce di dottrine allora inesistenti, come il marxismo, o la teologia della liberazione, e neppure vogliono essere un invito alla sciatteria liturgica e al disprezzo dell’arte come nutrimento, anch’essa, dello spirito. Conclude il Crisostomo: “Saziate prima la sua fame (la fame di Cristo, impersonato dal povero, ndr), e solo poi, se avanza, adornate la sua mensa”.
Questa breve introduzione per inquadrare un fatto e un problema tipico del cristianesimo latino americano. Spesso, a noi occidentali, abituati da tempo a tanta ricchezza materiale e ad altrettanta povertà spirituale, può apparire difficile il linguaggio di uomini di Chiesa che provengono dall’America latina, anche quando non siano tra coloro che hanno fatto il possibile per mescolare Cristo, Ambrogio e Crisostomo con Marx, Lenin e Castro.
Eppure, per evitare semplificazioni (chi parla molto di poveri “è un comunista”) può essere interessante andare alle origini della Chiesa del sud America. Per renderci conto che la lotta per la difesa dei deboli, dei poveri, dei sottomessi, è, lì in quel continente, una esigenza importante, come lo fu per i padri della Chiesa delle origini.
Scorrendo la storia di tanti vescovi e santi latini si scorge infatti che essi si sono trovati dal principio tra due fuochi: l’asservimento degli indigeni, oltre che a feroci superstizioni pagane, ad altre popolazioni indigene dominanti (vedi il feroce schiavismo azteco), e l’asservimento portato avanti da non pochi conquistatori europei. In mezzo, appunto, non solo i Bartolomè de las Casas, ma anche Antonio de Valdivieso, Cristòbal de Pedraza, Pablo de Torres, Juan del Valle, Tomàs Casillas… tutti vescovi che “misero a repentaglio la propria vita senza riserve, impegnandosi sino all’espulsione dalle loro diocesi, alla prigionia, all’espatrio e alla morte per i loro indios maltrattati violentemente dai coloni”. Tanti missionari subirono violenza solo per aver letto in pubblico le bolle papali contro lo schiavismo e per essersi schiarati, anche dal pulpito, dalla parte dei deboli. Prendiamo il del Valle, definito da un suo biografo “accerrimo lottatore per l’indio americano e per le dottrine cristiane”: professore universitario a Salamanca, lascia la Spagna per diventare vescovo di Popayàn, diocesi non facile, in cui i conquistadores si sono macchiati di gravi delitti. Qui conduce le visite pastorali impugnando una lancia, per difendersi, quando occorre, dagli attacchi dei coloni. Ad un certo punto della sua vita parte con una mula piena di fascicoli e carte, per portare la situazione degli indios al Concilio di Trento. Ma muore lungo il cammino… Al Concilio di Lima del 1582-1583 i vescovi rinnovano il loro impegno ad essere i “protettori degli indios”, a dedicarsi alla loro “cura temporale e spirituale”.
E’ in una situazione analoga di povertà e di sottosviluppo – figlia di secoli di domini per nulla illuminati (Aztechi, Maya ecc); di uno sviluppo, quello portato, nonostante tutto, dagli spagnoli, comunque embrionale ed incerto; del colonialismo nord americano, sostituitosi a quello spagnolo e certo assai predatorio-, che continua la vita della Chiesa dell’America latina. Con un impegno inderogabile: continuare a stare accanto a chi soffre, ai poveri e ai derelitti; e un inganno in agguato: l’idea che impugnare il mitra sia meglio che impugnare il crocifisso; che i dittatori possano più dei pastori; che il messaggio che viene dall’utopia comunista, dalla politica, sia più efficace della “buona novella” che trasforma i cuori.
Francesco Agnoli
 Il Foglio, 30 gennaio 2014