venerdì 20 dicembre 2013

Le cause del sottosviluppo africano



Di p. Piero Gheddo
Dopo l’animismo (prima causa del sottosviluppo nell’Africa nera, v. infra), la seconda causa del sottosviluppo africano, è l’analfabetismo e la scarsa educazione del popolo a produrre ricchezza. Nell’Africa a sud del Sahara gli analfabeti sono in media sul 35-40% della popolazione e con gli “analfabeti di ritorno” si supera il 50%. Nelle campagne, le scuole valgono poco, spesso hanno 60-80 alunni per classe, senza libri, quaderni, strumenti didattici. Nelle città si trovano anche buone scuole e alcune università eccellenti, ma nei villaggi l’istruzione e la sanità fanno pietà. I paesi africani sono in genere molto estesi e poco popolati. Le grandi distanze, la mancanza di strade e la forte corruzione della classe politico-amministraiva, spiegano perché i governi trascurano le regioni rurali, che invece dovrebbero produrre la base dello sviluppo, il cibo. Già nel 1962 un famoso agronomo francese, René Dumont (1904-2001), consulente di diversi governi africani indipendenti, con “L’Afrique noire est mal partie”, denunziava il fatto che i giovani governi africani trascuravano i villaggi rurali e scriveva che l’Africa, “se continua a trascurare i contadini e privilegiare i cittadini, tra dieci o vent’anni sarà alla fame”.

      “La cultura africana ostacola lo sviluppo”
Nel 2007 sono tornato in Guinea Bissau e ho visitato una giovane volontaria dell’Alp (Associazione Laici Pime), Nicoletta Maffazioli, che a Bambadinca ha fondato e gestisce con altri volontari un “Centro di formazione” dei giovani africani che vengono dalle campagne: “Uomini e donne dai 16 ai 25 anni scelti dalle singole missioni, per farne dei leaders del mondo rurale ancora molto arretrato. Sono giovani di buona volontà, cordiali e vivaci, molto motivati, ma ai primi passi nel mondo moderno. Nicoletta mi dice: “I nostri corsi sono gratuiti e accogliamo al massimo 30 persone, facciamo corsi di agricoltura, sistema di irrigazione, allevamento animali, malattie delle piante degli orti (che è il grosso problema di qui) e degli animali, conservazione dei prodotti, trasformazione dei frutti ad esempio in marmellate e sughi, coltivazione delle api per il miele, come nutrire i bambini con prodotti locali non pesanti, la contabilità (contano fino a una certa misura, poi dicono…”tanti”); e poi questi giovani prendono contatto con le case in muratura, come si aprono i rubinetti dell’acqua e le maniglie delle porte, l’uso dei fornelli elettrici e a gas. Mentre il resto del mondo corre, qui ci sono ancora una marea di giovani vivaci e intelligenti in questa situazione, ma è la realtà dei villaggi lontani dalle città che sono davvero tanti, quasi abbandonati a se stessi”.
Ancora in Guinea Bissau un missionario del Pime, padre Luigi Scantamburlo, ha fondato nei villaggi delle isole Bijagos un’ottantina di piccole cooperative di pesca, portando strumenti moderni e chiamando da Chioggia (Venezia) alcuni tecnici per insegnare ad usarli. Con un mare pescosissimo, prima si moriva di fame, oggi si è elevato il livello di vita, vendono il pesce a Bissau. Ho chiesto a padre Luigi: “Qual’è la maggior difficoltà che hai incontrato?”. Risponde: “Convincere gli anziani e i capi villaggio ad accettare le nuove forme di pesca comunitaria, barche, reti, cooperative, ecc. Per la mentalità tradizionale africana il futuro non sta nel cambiare e migliorare i sistemi di produzione e di vita, ma mantenere il villaggio così come l’hanno lasciato gli antenati, affinché i loro spiriti, tornando a visitarlo, si ritrovino, altrimenti si vendicano contro i loro discendenti. Ho dovuto procedere con i piedi di piombo. Mi sono fatto loro amico, imparando la lingua locale, partecipando ai loro riti, portando medicine. Quando si sono convinti che ero loro amico, allora è partita l’educazione dei giovani, che mi seguono con gran voglia di imparare”.
Il famoso proverbio cinese che dice: “Ad un affamato non dare un pesce, ma insegnagli a pescare” è più che giusto. Ma chi va, per anni, ad insegnare a produrre  ed a pescare nell’Africa profonda delle campagne abbandonate dai propri governi?

Le prime industrie del Camerun sono cinesi     
“Educazione” vuol dire cambiare la mentalità, la cultura che ancora prevale nell’Africa rurale, contraria ad ogni cambiamento della tradizione; e insegnare a lavorare nel mondo moderno, a produrre. A Vercelli produciamo 80 quintali di riso all’ettaro, nell’Africa rurale (escluse le fattorie moderne) solo 5-6 quintali all’ettaro. Le vacche lattifere italiane producono 25 litri di latte al giorno, in Africa non producono latte, eccetto uno o due litri al giorno quando hanno il vitello. In Tanzania, nel 1995, mi dicevano: “Se ogni anno non importassimo del Sud Africa il 30% che mais che consumiamo, il paese sarebbe alla fame”.
Secondo i No Global “il 20% degli uomini possiede l’80% delle ricchezze del mondo e l’80% degli uomini possiede il 20% delle ricchezze”. Non “possiedono”, ma “producono” le ricchezze! L’abisso tra ricchi e poveri del mondo è questo: la cultura, la capacità di produrre (non solo risorse minerarie e forestali!), di esportare, di entrare nel commercio del “mondo globalizzato”, che è “il treno per lo sviluppo”. Se non si sale sul treno,s rimane a terra. L’Africa nera (escluso il Sud Africa) partecipa a mala pena al 2% del commercio mondiale. Le capitali degli Stati africani hanno il “quartiere industriale”, con fabbriche moderne importate da paesi europei; mi dicono che circa la metà non producono, sono ferme e a volte saccheggiate, altre producono al 30-40-50%  di quanto dovrebbero.
Il Camerun è uno dei migliori paesi dell’Africa, con stampa libera, partiti di opposizione ed elezioni passabilmente democratiche, un governo “paternalista” assicura l’aumento del Pil (circa 1.300 dollari all’anno pro capite): ebbene, questo paese importa ancora biciclette, lampadine, ventilatori, frigoriferi, moto, ecc. Padre Carlo Scapin, missionario del Pime da 40 anni in Camerun, mi dice che negli ultimi anni i cinesi portano dalla Cina i componenti per moto, biciclette e altri veicoli e li rimontano per i camerunesi. Sono le prime vere industrie, ma di proprietà cinese.
 “Il problema dello sviluppo in Africa è educare l’uomo”
 Nella mia seconda visita in Mozambico nel 1991 ho incontrato un cappuccino della Basilicata, padre Prosperino Gallipoli di Montescaglioso (Matera), che aveva fondato la “Uniào Geral das Cooperativas Agro-Pecuarias” (agricole e di allevamento animali) e ne rimaneva il maggior animatore. Un impero agro-industriale, di proprietà degli stessi agricoltori e allevatori, diretto da africani, che era il principale rifornitore di cibo alla capitale Maputo e altre città. Produceva riso, miglio, granoturco, polli, uova, conigli, anitre, maiali, latte, uova, frutta, verdura e altro. Ho visitato le strutture agro-industriali della “Ugac”, che comprende campi e allevamenti di animali, centri di formazione agricola, trasporti, rete di distribuzione e negozi di vendita, 35 asili per 2.500 bambini delle famiglie associate, dispensari medici, officine di riparazione  attrezzi agricoli, parchi di macchine agricole, magazzini e celle frigorifere.
Mi raccontava le difficoltà degli inizi negli anni settanta, con al potere il Frelimo (Fronte di Liberazione del Mozambico), dipendente dall’Urss. Diceva: “L’africano lavora bene, deve solo essere istruito sulle tecniche di produzione e poi deve godere dei frutti del suo lavoro. Il Frelimo ha fallito con le sue “aldeias comunais” simili si kolkhoz sovietici. La gente era depressa, non lavorava. Ho preso in mano le comunità agricole attorno a Maputo e le ho riorganizzate in base a tre principi che sono martellati in testa a tutti quelli che si uniscono a noi: 1) Chi non lavora non mangia – 2) Chi lavora deve produrre di più – 3) Chi produce di più deve godere i frutti del suo lavoro. Ma questi principi, mi diceva, non sono accettati in un paese “socialista” e nel 1979 mi hanno espulso dopo 20 anni di Mozambico, perché riuscivo a far produrre di più con una gestione del lavoro diversa da quella massificante imposta dal partito unico. Pochi mesi dopo sono rientrato in Mozambico perché ho incontrato in Tanzania Joachim Chissano , allora Ministro degli Esteri. L'ho quasi aggredito dicendogli che erano stati ingiusti con me e che, se mi davano la possibilità, avrei dimostrato come si organizza il lavoro comunitario per far produrre di più”.
Chiedo a Prosperino come mai Chissano l’ha riammesso in Mozambico. Dice che nel 1979, quattro anni dopo l’indipendenza, “il socialismo era fallito e, in un paese che sotto i portoghesi, grandi agricoltori, esportava riso, con il socialismo era iniziata la tragedia della fame. Io ho detto subito: dalle mie cooperative il partito rimane fuori, la formazione dei contadini la faccio io. Con i miei collaboratori abbiamo insegnato l'orticultura, l’agricoltura, l'allevamento degli animali, le tecniche d'irrigazione, la falegnameria e tutto il resto. Poi ho educato alla libertà e alla dignità dell'uomo e della donna; poi corsi di contabilità, di programmazione. Soprattutto ho insegnato ai contadini ad essere responsabili, ad impegnarsi non solo nella produzione, ma anche nelle decisioni da prendere, distribuendo equamente il frutto del loro lavoro. Nelle cooperative di Stato, non solo non si dà lo stipendio in modo regolare, ma non si distribuisce nulla in più dello stipendio minimo. Io ho incominciato a distribuire il di più che avevamo prodotto suscitando entusiasmo, fedeltà, impegno.
“Il problema di fondo dello sviluppo in Africa è questo: gli africani sono persone di grande umanità, con grandi valori umani, ma non riescono ad esprimersi nel mondo moderno, non ne conoscono il linguaggio, i ritmi, la mentalità, la cultura. Questo in campo agricolo, ma anche in campo industriale, politico. Producono poco,  se ricevono uno stipendio per un po' di giorni non vengono più a lavorare perché hanno già da mangiare. Il problema di base per lo sviluppo in Africa è educare l'uomo”.    
“Quando sono arrivato in Africa più di 30 anni fa – continua Prosperino - mi sono subito reso conto che il contadino è l'ultima categoria sociale, anche se è il fondamento della società africana, la classe più importante. Non solo il contadino, ma la donna contadina, l'unica che in Africa lavora per davvero. Mi son messo in testa fin dall'inizio di aiutare i contadini e le donne. E' strano che noi preti , che in Italia siamo ritenuti antifemministi, qui, in Africa, siamo quelli che fanno di più per l'elevazione delle donne (con le nostre suore naturalmente). Il mio lavoro è stato quello dell'animatore rurale e l'ho sempre inteso come pre-evangelizzazione. Non si evangelizza uno schiavo, se non rendendolo libero, dandogli fiducia in se stesso. Il segreto del successo è stata l'educazione, sia tecnica che ai valori del Vangelo: dignità della persona umana, libertà, responsabilità, impegno, senso del bene comune”.

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Perché l'Africa nera non si sviluppa
di Piero Gheddo
Il 29 novembre 2013 si è svolto in Vaticano il Simposio sullo sviluppo solidale e sostenibile dell’Africa, organizzato dalla Pontificia Accademia delle Scienze e dalla Fondazione Sorella Natura di Assisi. Nella sede della Pontificia Accademia, la Casina di Pio IV, un centinaio di partecipanti qualificati (su invito) hanno ascoltato (ore 9,30-17) le relazioni che verranno poi stampate dalla Fondazione Sorella Natura. Il prof. Roberto Leoni, presidente della Fondazione di Assisi, ha presentato i relatori e il card. Giovanni Battista Re ha aperto i lavori, rimarcando “il bisogno sia di pensiero che di azione a favore dello sviluppo del continente africano”. L’Arcivescovo di Kinshasa, Card. Laurent Mosengwo Pasinya Primate dell’Africa, ha tenuto la “lectio magistralis” al Simposio, elencando i mali dell’Africa nera e indicando “i bisogni essenziali degli africani: nutrizione, educazione, sanità, abitazione, libertà… dei quali gli africani debbono essere considerati non solo come beneficiari, ma come attori del cambiamento”. Ha poi specificato come la Chiesa, nella “Caritas in Veritate” di Benedetto XVI, orienta le soluzioni per uno sviluppo giusto, solidale e integrale.
Le altre relazioni, del Ministro per l’Integrazione del Governo italiano, On. Cecilia Kyenge, e del prof. Romano Prodi, Rappresentante dell’Onu per il Sahel, e di alcune altre personalità, verranno stampate dalla Fondazione Sorella Natura. Il titolo del mio intervento “Lo sviluppo dell’Africa viene dal Vangelo e dall’educazione” , brevissimo per mancanza di tempo, ma il testo era consegnato in stampa ai presenti (vedi nel Sito www.gheddopiero.it). Sono stato invitato a parlare avendo fatto decine di visite e anche lunghe permanenze nel continente, per incontrare e intervistare i missionari specialmente italiani e le giovani Chiese.
È opinione comune dei missionari sul campo che c’è un abisso fra la vita dei popoli africani e le analisi di politici, economisti, studiosi e giornalisti occidentali. Questi vedono l’Africa dall’esterno e parlano delle cause esterne del mancato sviluppo: debito estero, commercio internazionale ingiusto, multinazionali che sfruttano le risorse africane, aumento o diminuzione dei prezzi dei prodotti agricoli africani, vendita di armi, governi locali sottomessi alle imposizioni dei Paesi più forti, ecc. Invece, chi conosce la vita dei popoli africani, vivendo per 20-30 e più anni con la gente comune, parla delle cause interne, storico-culturali, religiose ed educative. Ho chiesto al padre Pietro Bianchi missionario della Consolata di Torino in Tanzania da trent’anni, quali sono le cause fondamentali del sottosviluppo africano. Risponde:
1) La religione animista, che tiene l’africano, anche istruito e modernizzato nel livello di vita, prigioniero di superstizioni venefiche, malocchio, tabù, timore di vendette, culto degli spiriti con violenze e crudeltà inaudite anche sull’uomo.
2) L’analfabetismo e la mancanza di scuole. In media gli analfabeti sono sul 40% degli africani e con gli “analfabeti di ritorno” si supera il 50%. In molti villaggi dell’Africa rurale le scuole in genere valgono poco, spesso con 60-80 alunni per classe, senza libri, quaderni, strumenti didattici. Lo stesso si può dire della sanità.
3) Il tribalismo e la corruzione ad ogni livello della vita pubblica, fino ai minimi livelli. Il potere politico (e ogni altro potere pubblico) sono in genere intesi come occasione per arricchirsi e aiutare la propria famiglia, il villaggio, l’etnia. Il concetto di bene pubblico si sta formando, ma è normale che sia così, per Stati che sono nati un secolo fa dalle divisioni politiche imposte dalla colonizzazione (l’Italia è nata 150 anni fa e ha lo stesso problema). Solo un esempio. Nel 2009 la Banca Mondiale denunziava che il debito estero della Nigeria era di 7 miliardi di dollari, ma i depositi bancari in Occidente dei privati nigeriani erano di 10 miliardi di dollari.
4) I militari sono la prima casta di potere, controllano la politica e l’economia, abusano della forza in tanti modi (anche facendo guerre tribali o territoriali), sono implicati in commerci illegali a favore di importatori stranieri.
L’Occidente non capisce come mai l’Africa nera, dopo mezzo secolo di indipendenza, non si sviluppa. Ecco perché. Dopo la II guerra mondiale, dal 1947 al 1953 gli USA varano il Piano Marshall, mettendo a disposizione dei paesi dell’Europa occidentale distrutti dalla guerra 20 miliardi di dollari, restituiti con un interesse annuo dell’1%. Quei 20 miliardi hanno rimesso in piedi l’Europa occidentale, che ha avuto il suo boom economico. Il Pew Research Centre di Washington calcola che nei 50 anni dell’indipendenza africana (1960-2010) i doni, gli aiuti, i prestiti e i finanziamenti del “Piani di sviluppo” per l’Africa nera sono stati di 300 miliardi di dollari. Perché questo diverso rendimento? Perché i popoli europei, nonostante nazismo e fascismo, erano preparati da tutta la loro storia, educazione, cultura e religione, a far fruttare il denaro lavorando e fondando nuove industrie; i popoli africani, per la loro storia, cultura e religione tradizionale, semplicemente non erano stati preparati a questo dalla colonizzazione, durata però solo circa 60-70 anni, con due guerre mondiali in mezzo!
La radice del sottosviluppo africano è storico-educativa-culturale-religiosa, ma l’Occidente materialista non capisce l’Africa perché ignora i fattori culturali, educativi, religiosi dei popoli, che danno all’uomo la sua identità, il senso di appartenenza, le motivazioni per vivere e agire. Data la brevità del mio discorso, ho precisato meglio le due prime cause, che i missionari ritengono fondamentali. Il 21 marzo 2009, in Angola Benedetto XVI ha detto ai vescovi angolani: «Tanti dei vostri concittadini vivono nella paura degli spiriti, dei poteri nefasti da cui si credono minacciati. Disorientati, arrivano al punto di condannare bambini di strada e anche i più anziani, perché – dicono – sono stregoni. Qualcuno obietta: “Perché non li lasciamo in pace? Essi hanno la loro verità e noi la nostra. Cerchiamo di convivere pacificamente, lasciando ognuno com’è, perché realizzi la propria autenticità”. Ma - continua il Papa - se noi siamo convinti e abbiamo fatto l’esperienza che senza Cristo la vita è incompleta, le manca una realtà – la realtà fondamentale – dobbiamo essere convinti anche del fatto che non facciamo ingiustizia a nessuno se gli presentiamo Cristo e gli diamo la possibilità di trovare, in questo modo, anche la sua vera autenticità, la gioia di avere trovato la vita. Anzi, è un obbligo nostro offrire a tutti questa possibilità di raggiungere la vita eterna». I vescovi africani hanno ringraziato il Papa di aver toccato questo tema. Ho citato parecchi esempi. Eccone due.
In Costa d’Avorio, padre Giovanni De Franceschi del Pime si è affermato come studioso della tribù e della lingua dei Baoulé con diverse pubblicazioni su questa tribù maggioritaria nel paese. Ha imparato il baoulé, lingua non scritta, che richiede anni di impegno. In genere i missionari parlano il francese che è studiato e capito, almeno nei termini e concetti comuni, da buona parte degli africani, ma padre Giovanni mi dice: «Parlare e capire bene una lingua africana vuol dire penetrare nel loro mondo storico, tradizionale, religioso, conoscere i proverbi e le parabole, che sono la base della saggezza e della cultura popolare. Secondo la mia esperienza, la cosa più importante per il missionario è di sapere bene la lingua locale, che è l’anima di un popolo. Quante volte mi sono sentito dire: “Tu capisci bene quel che diciamo, la nostra mentalità, i nostri problemi. Ormai sei uno di noi”. Questo è il più bell’elogio che il missionario può attendersi dalla sua gente. Anche i pagani vengono ad ascoltarmi quando predico e parlano volentieri con me, mi invitano a bere il vino di palma, diventiamo amici, parliamo di tutti i loro problemi».
Ebbene, padre Giovanni De Franceschi ha scritto: «Noi cristiani non ci rendiamo conto di come la vita del pagano è una continua paura che gli vien messa dentro fin dall'infanzia: temono di aver fatto torto al feticcio, che il feticcio si vendichi per motivi misteriosi. Ho sentito parecchie volte delle persone adulte, colte, psicologicamente mature, dire: “Mi arriverà una disgrazia perché ho trascurato il feticcio, ho offeso il feticcio”. Hanno la fermissima convinzione che la disgrazia gli capiti da un momento all’altro, ma non sanno cosa sarà. Può essere un incidente d’auto, un avvelenamento, un cadere dalle scale, un mal di pancia improvviso. Vivono male. Il terrore psicologico può distruggere una persona».
«Il dato di fondo – continua De Franceschi - è questo: il paganesimo non conosce Dio e il perdono di Dio. Non sanno che Dio è un Padre amorevole che ci vuole bene e ci perdona. Pensano Dio come lontano, misterioso, vendicativo. Per questo sentono l’influsso degli spiriti e del feticcio che vivono accanto a loro. Il cristianesimo è libertà, gioia, amore, fiducia nel Padre, liberazione da tutte le paure…. Il primo passo verso lo sviluppo è liberare l’uomo dalle paure antiche, rivelargli l’amore di Dio che lo rende libero e gioioso. Ecco perché sono convinto, per esperienza personale, che il maggior contributo che noi missionari portiamo allo sviluppo dell’Africa non sono gli aiuti economici o le scuole o gli ospedali (tutte cose indispensabili), ma la rivelazione dell’amore di Dio in Gesù Cristo per tutti gli uomini».
Nel 2008 a Maroua in Camerun intervisto padre Giovanni Malvestìo del Pime, da otto anni rettore del seminario maggiore del Nord Camerun, che mi dice: «Ci vorrà ancora tempo perché la cultura cristiana superi quella pagana anche nei nostri seminaristi, giovani entusiasti della fede e pieni di buona volontà. Ho avuto qui in seminario dei seminaristi cristiani, figli di catechisti e di famiglie cristiane e altri seminaristi nati da famiglie musulmane o pagane e poi diventati cattolici. Il seminarista nato da una famiglia cristiana ha una serenità di spirito, è in pace con se stesso, col latte materno ha ricevuto la fede, l’amore a Dio e a Cristo, la fiducia nella Provvidenza; il seminarista che è stato battezzato a 15 anni ed è figlio di una famiglia pagana, la sua cultura è pagana, non puoi cambiarla in un attimo o in un anno».