venerdì 27 dicembre 2013

Il Natale è più forte della guerra


La chiesa del Carmel trasformata in ospedaleCentrafrica, il Natale è più forte della guerra
di Federico Trinchero*


Carissimi,
Qui al Carmel di Bangui, dove mi trovo da soli quattro mesi, è stato davvero un Avvento speciale. Dal 5 dicembre il nostro convento si è trasformato in un campo profughi e i nostri graditi ospiti sembrano non avere alcuna intenzione di andarsene. Nei quartieri la tensione e la paura sono ancora alte. Meglio dormire qui da noi, anche se per terra. 
Le giornate si susseguono una dopo l’altra tra bambini che nascono e che purtroppo muoiono, malati e feriti da curare, distribuzione di cibo, coperte, sapone, pulizia del campo e tanti, tantissimi altri imprevisti. I nostri profughi sono così a loro agio che a volte mi domando se non siamo noi frati i veri profughi e che il nostro è un convento finito per caso in mezzo a loro.
Ogni mattino ci alziamo e sappiamo, più o meno esattamente, cosa dobbiamo fare e che quello che dobbiamo fare è la cosa giusta. Inutile negare che la stanchezza, spesso più psicologica che fisica, cominci a farsi sentire. Ma comunque andiamo avanti anche perché non è possibile fare altrimenti. E ogni tanto troviamo addirittura il tempo per fare qualcosa - senza troppi sensi di colpa - che non riguardi i nostri profughi.
Purtroppo venerdì scorso ci sono stati degli scontri molto violenti in città, in un quartiere piuttosto vicino al nostro convento. Questo ha provocato un improvviso aumento dei nostri profughi. Come ogni giorno, verso le sette, ci avviamo verso il luogo all’aperto, dove celebriamo la Messa. Lungo il tragitto sentiamo diversi spari, alcuni molto forti e vicini. Mi domando se non sia più opportuno non iniziare la celebrazione per evitare il panico. Ma il canto d’ingresso è ormai iniziato. Gli spari si susseguono senza sosta. Verrà qualcuno a farci del male? Celebro la Messa più lunga della mia vita. Ammiro tuttavia la compostezza dell’assemblea. Quando gli spari sono più forti, c’è come un sussulto e un gemito collettivo; ma i nostri fedeli non si schiodano da dove sono. L’Eucaristia che celebriamo è la nostra migliore protezione, uno scudo impenetrabile, davvero la nostra unica salvezza. La celebrazione continua, ma un fiume di gente che corre impaurita, con poche masserizie sulla testa, raggiunge il nostro sito e ci circonda. Che impressione e che sfida questa Eucaristia inerme nel pieno vortice della guerra!

La celebrazione termina e, in pochi istanti, ci accorgiamo che i nostri ospiti da 2.500 sono diventai circa 10.000. Inizialmente siamo un po’ spaventati e ci domandiamo come potremo gestire una tale massa di gente. Ma, superati questo iniziale smarrimento e sensazione di impotenza, comprendiamo che tutto quello che abbiamo vissuto finora non è stato che un allenamento per l’avventura che ci sta davanti. Ripensiamo al miracolo della moltiplicazione dei pani, contiamo i nostri pani e i nostri pesci, ci rimbocchiamo le maniche e ripartiamo. Se ce l’ha fatta Gesù, ce la faremo anche noi. E vi confesso che, per certi aspetti, un numero così grande è quasi più gestibile. La gente stessa comprende che possiamo fare ben poco e quindi si organizza autonomamente o, meglio ancora, si arrangia come può. Noi ci ‘limitiamo’ ad affrontare le urgenze, a seguire i casi più gravi e a gestire gli aiuti dei vari organismi.
La distribuzione del cibo diventa però un po’ problematica. Testardo e perfezionista come sono, anche in tempo di guerra, insisto per mettere in fila circa 2000 donne. Cosa veramente impossibile, soprattutto se le donne in questione sono affamate. Sono costretto quindi a gettare la spugna e a convertirmi a una metodologia più africana. Il nostro campo viene diviso in 11 zone. Ogni zona ha una sorta di capo villaggio che, aiutato da due consiglieri, si occupa della distribuzione nel proprio settore. Il nuovo sistema sembra funzionare e, in breve tempo, la tonnellata di mais che stazionava nel chiostro viene distribuita in parti più o meno eque e senza troppi intoppi e discussioni.
Il numero dei nostri profughi aumenta anche a causa delle frequenti nascite. Con mia grande gioia sono ridiventato papà non so quante volte. Ho sinceramente perso il conto: Thérèse, Elisabeth, Federico (il papà, quello vero, ha insistito troppo!), Carmel e Carmeline (due gemelli), Joseph (in onore al mio papà) e altri ancora. Quando è possibile, cerchiamo di chiamare l’ambulanza affinché il parto avvenga in ospedale. Ma, come potete ben immaginare, a causa delle strade e della situazione di generale insicurezza, le ambulanze possono impiegare molte ore prima di arrivare fin qui. E le mamme africane sono decisamente più veloci e capaci di gestire il parto senza troppe difficoltà. Ormai il refettorio è sala parto e il capitolo funge da maternità. Purtroppo ci sono stati altri due bambini (gemelli) che sono morti. La mamma, che neppure sapeva di portare in grembo due creature, ha avuto una gravidanza anticipata a causa di una forte malaria. Subito è morta la bambina. I suoi occhi non hanno fatto in tempo ad aprirsi per vedere la tragedia della guerra. Pesava solo 1 kg: non avevo mai visto un essere umano così piccolo. Il fratellino, un po’ più robusto, è sopravvissuto altri due giorni e poi se ne andato anche lui.
La Vita è comunque più forte della morte e della guerra. E trovo poi significativo che la Vita ci abbia visitato nei luoghi più importanti della nostra comunità: la chiesa e il refettorio. Sono i luoghi dove preghiamo e dove mangiamo, dove ci incontriamo più volte durante la giornata, dove la nostra vita di comunione con Dio e con i fratelli è ogni giorno rinnovata e plasmata. Tutto questo mi sembra quasi una conferma della bellezza della nostra vocazione. 
Sabato scorso il nostro vescovo, dopo aver saputo che il nostro campo profughi ha accolto altra gente, è venuto ancora una volta a farci una visita. Ci informa che anche il seminario maggiore vive una situazione analoga alla nostra. Questa volta il nostro vescovo trova il tempo di bere un bicchier d’acqua e di chiacchierare un po’ e di spiegarci cosa sta avvenendo in città. Ci promette di venire - appena può - a celebrare la Messa qui da noi e di portarci ancora un po’ di riso. Sono sicuro che manterrà entrambe le promesse.
Nel frattempo è arrivato il Natale. Quasi di nascosto i miei confratelli hanno trovato il tempo - e direi anche il coraggio - di mettere qualche addobbo e di allestire un piccolo presepe. Ma fare il presepe forse non era neppure necessario. In realtà il presepe, quest’anno, più che farlo, lo siamo diventati, improvvisamente e con un po’ di anticipo, il 5 dicembre. E il nostro presepe si è sempre più ingrandito con l’arrivo di altre migliaia di statuine e la nascita di tanti Gesù Bambini. Del resto, anche Maria e Giuseppe non erano, in quel di Betlemme, esattamente a casa loro: erano anche loro po’ profughi. E il parto avvenne in condizioni piuttosto precarie, come per le nostre mamme qui al Carmel. Se un tempo c’erano Cesare Augusto ed Erode, oggi i sovrani di turno portano il nome di François Hollande et Djotodia. La storia sembra quasi non cambiare, ma il miracolo di quella nascita non cessa di meravigliarci e di rallegrarci.
La Messa di mezzanotte l’abbiamo celebrata alle tre del pomeriggio per terminare prima del buio e del coprifuoco. Durante la celebrazione sentiamo degli spari in lontananza, ma i nostri fedeli cantano più forte della guerra. Sembra quasi una contraddizione dire a questa gente "la pace sia con voi". Ma forse, più che una contraddizione, la preghiera, la fede, la gioia di essere cristiani sono per tutti l’unica vera salvezza.
Dopo i Vespri ci regaliamo finalmente qualche minuto tutto e solo per noi. Abbiamo veramente tanta nostalgia della nostra fraternità, della nostra intimità e del nostro silenzio. La tradizione carmelitana vuole che questo momento di auguri natalizi avvenga nella sala del Capitolo. Ma quest’anno non è possibile. Restiamo nella cappellina. Ci scambiamo gli auguri - sperando che un Natale così unico sia veramente unico - e qualche piccolo regalo recuperato dal priore in tempo di pace. Come sono contento dei miei undici confratelli! Permettetemi ancora una volta di ringraziarli perché sono stati con me gli spettatori e gli attori del miracolo che ha trasformato il nostro convento in un campo profughi. Vorrei ringraziarli per quando li vedo arrivare trafelati alla preghiera comune. Vorrei ringraziarli per il lavoro che fanno, per il lavoro che vedo e per quello che non vedo e che trovo già fatto non so neppure da chi. Terminiamo mangiando qualche biscotto al mais preparato da padre Matteo. Poi, danzando e cantando con campanelli e tam-tam, portiamo la statua di Gesù Bambino nella sala del Capitolo dove, stupiti, ci accolgono i nostri bambini con le loro mamme. Poi, sempre cantando, ci rechiamo in refettorio (sempre profugo nel corridoio delle celle) che, nel frattempo, i nostri aspiranti hanno riempito di fiori. 
E grazie, ancora una volta, anche a voi per il vostro sostegno davvero cordiale e commuovente. Un grazie particolare alle nostre consorelle di clausura. Ci hanno accompagnato in ogni istante con un’amicizia e una preghiera davvero speciali. È come se fossero venute a darci una mano.
Sono sicuro che saremo nei vostri pensieri e nelle vostre preghiere in questi giorni di festa.
Finché il Signore ce ne darà la forza, andremo avanti. Nessuno di noi sa ancora quando verrà il momento di smontare questo presepe in cui siamo precipitati. Quando scoppierà la pace questa gente potrà finalmente raggiungere la propria abitazione e condurre una vita normale. E noi ritorneremo a fare i frati a tempo pieno.
Buon Natale! E che il Signore doni presto la pace al Centrafrica!
* Missionario carmelitano a Bangui (Centrafrica)