sabato 26 ottobre 2013

XXX domenica del Tempo Ordinario


MESSALE
Antifona d'Ingresso  Sal 104,3-4
Gioisca il cuore di chi cerca il Signore.
Cercate il Signore e la sua potenza,
cercate sempre il suo volto.
 

Colletta

Dio onnipotente ed eterno, accresci in noi la fede, la speranza e la carità, e perché possiamo ottenere ciò che prometti, f
a' che amiamo ciò che comandi. Per il nostro Signore...

Oppure:
O Dio, tu non fai preferenze di persone e ci dai la certezza che la preghiera dell'umile penetra le nubi; guarda anche a noi come al pubblicano pentito, e f
a' che ci apriamo alla confidenza nella tua misericordia per essere giustificati nel tuo nome. Per il nostro Signore Gesù Cristo...LITURGIA DELLA PAROLAPrima Lettura  Sir 35, 15-17.20-22
La preghiera del povero attraversa le nubi.

Dal libro del Siràcide
Il Signore è giudice
e per lui non c’è preferenza di persone.
Non è parziale a danno del povero
e ascolta la preghiera dell’oppresso.
Non trascura la supplica dell’orfano,
né la vedova, quando si sfoga nel lamento.
Chi la soccorre è accolto con benevolenza,
la sua preghiera arriva fino alle nubi.
La preghiera del povero attraversa le nubi
né si quieta finché non sia arrivata;
non desiste finché l’Altissimo non sia intervenuto
e abbia reso soddisfazione ai giusti e ristabilito l’equità.
 
Salmo Responsoriale  Dal Salmo 33
Il povero grida e il Signore lo ascolta.
Benedirò il Signore in ogni tempo,
sulla mia bocca sempre la sua lode.
Io mi glorio nel Signore:
i poveri ascoltino e si rallegrino.

Il volto del Signore contro i malfattori,
per eliminarne dalla terra il ricordo.
Gridano e il Signore li ascolta,
li libera da tutte le loro angosce.

Il Signore è vicino a chi ha il cuore spezzato,
egli salva gli spiriti affranti.
Il Signore riscatta la vita dei suoi servi;
non sarà condannato chi in lui si rifugia.

Seconda Lettura  2 Tm 4,6-8.16-18
Mi resta solo la corona di giustizia. 

Dalla seconda lettera di san Paolo apostolo a Timòteo
Figlio mio, io sto già per essere versato in offerta ed è giunto il momento che io lasci questa vita. Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede. Ora mi resta soltanto la corona di giustizia che il Signore, il giudice giusto, mi consegnerà in quel giorno; non solo a me, ma anche a tutti coloro che hanno atteso con amore la sua manifestazione.
Nella mia prima difesa in tribunale nessuno mi ha assistito; tutti mi hanno abbandonato. Nei loro confronti, non se ne tenga conto. Il Signore però mi è stato vicino e mi ha dato forza, perché io potessi portare a compimento l’annuncio del Vangelo e tutte le genti lo ascoltassero: e così fui liberato dalla bocca del leone.
Il Signore mi libererà da ogni male e mi porterà in salvo nei cieli, nel suo regno; a lui la gloria nei secoli dei secoli. Amen.
 
Canto al Vangelo  2 Cor 5,19
Alleluia, alleluia.

Dio ha riconciliato a sé il mondo in Cristo,
affidando a noi la parola della riconciliazione.

Alleluia.

  
  
Vangelo  Lc 18, 9-14
Il pubblicano tornò a casa giustificato, a differenza del fariseo.

Dal vangelo secondo Luca
In quel tempo, Gesù disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri:
«Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano.
Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: “O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo”.
Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”.
Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato».
 

*


COMMENTI

"Nella Chiesa si viene per scendere e non per salire"

Andare in Chiesa, frequentarla assiduamente, lustrarla e farci catechismo, anche pregarci tutti i giorni, può non voler dire nulla. Vi si può uscire esattamente come vi si è entrati. E’ quello che accade a “chi presume di essere giusto e disprezza gli altri”. Come noi che, prigionieri di un Io sconfinato che si crede “diverso”, consideriamo gli altri solo dei poveri scarti di noi stessi.
Non a caso questa società edonistica e carnale idolatra il diverso a tutti i costi, al punto che la normalità diventa l’eccezione da nascondere. Come nel Vangelo, dove il diverso, ovvero il fariseo, è in prima fila e il normale, ovvero il peccatore, se ne resta giù in fondo.
Chi si sente “diverso” si arroga sempre più diritti degli altri. Niente di nuovo, succede nelle famiglie, succede nella società con le nuove lobby “di genere”, è successo quel giorno nel Tempio. Ne è l’immagine il fariseo, di fronte a Dio come davanti a uno specchio nel quale non vedeva che se stesso travestito da dio: "stando in piedi, pregava rivolto verso se stesso", secondo il senso del greco originale. Non prega, dialoga con se stesso…
E così, purtroppo, proprio il luogo dove Dio ha dato convegno al suo Popolo, diviene la passerella dell'ipocrisia. Come le nostre Chiese, le comunità, e poi ovunque Dio ci ha dato appuntamento, a casa, al lavoro, a scuola. A causa dell’inganno del demonio la nostra vita diviene un’autocelebrazione no-stop, un Grande Fratello dove esibire ipocrite vanità, per colorare di virtù anche i peccati.
Il pubblicano, invece, “non osa neanche ad alzare lo sguardo”, posato sulla terra che definisce la verità su se stesso. Il testo greco suggerisce che egli non si sentiva semplicemente un peccatore, ma il peccatore. Per questo tende la mano a percuotersi il cuore dal quale sa che sgorga ogni malvagità, per spezzettarlo e farne un cuore contrito ed umiliato. 
In lui rinveniamo le sembianze del Signore Gesù: Lui non è mai rivolto verso se stesso, ma perennemente rivolto verso il seno del Padre (cfr. Gv 1,18). Sulla Croce Gesù ha gridato implorando a Lui perdono per tutti noi; è sceso all'ultimo posto, "a distanza" - e che distanza... - sino a sentire l'abbandono del Padre. Gesù si è fatto pubblicano tra i pubblicani, disprezzato da tutti, perché i superbi, tu ed io, potessimo scendere i gradini che conducono alla verità.
Lui è già nel fonte battesimale che ci attende oggi, nel buio di cui abbiamo paura, nella verità che ci può far liberi.Lo troveremo sempre là dietro, dove non te lo aspetti e non lo cercheresti: in chiesa, all’ultimo posto… hai presente l’angolo oscuro accanto alla bacheca con le riviste della buona stampa? Proprio dove si fermano quelli dell’ultima ora nell’arrivare a messa e della prima ad uscire…
E’ lì che si prega, perché è solo all’ultimo posto, l’unico che ci fa autentici, che si sperimenta la paternità di Dio. Presumere di se stessi e credersi migliori, infatti, non fa parte del DNA dei figli di Dio. Tutto il contrario. Per questo non si diventa figli senza una lunga gestazione nelle viscere materne della Chiesa che ci rigenerano a immagine di Cristo.
Nell'attitudine del pubblicano Gesù rivela il cuore del cristiano. Egli è colui che, dopo un catecumenato che lo ha aiutato a conoscersi, è giunto nell’abisso del suo nulla dove ha incontrato Cristo. Ha dato morte all’uomo vecchio illuso e superbo, per rivestire il nuovo, sino ad assumere la stessa confidenza filiale di Gesù.
Ben venga allora la Croce che pota l’arroganza e ci “umilia” dinanzi a Dio e agli uomini. Abbiamo paura vero? Non vorremmo che fossero svelate le nostre debolezze… Davanti al marito o alla moglie, qualcosa sì, che vuoi dopo tanti anni, ma proprio questa schiavitù no... Che ne sarebbe della nostra relazione? Che farebbe mia moglie se sapesse che, a cinquant’anni suonati, ancora cado attratto dalla pornografia?
Davanti ai figli, beh questo proprio no. Loro devono avere modelli sani, non genitori scassati…. E un prete, un vescovo, un papa, la prudenza invita a occultare difetti e peccati… Che stolti siamo, ancora schiavi del mondo e dei suoi criteri. Certo, nella penombra non ci si avvede che, se Cristo si è fatto peccato e ora è lì in fondo alla Chiesa, la stessa struttura del Tempio è ormai capovolta.
Il Santo dei Santi non si trova più laddove il fariseo si era inoltrato a presentare la propria pretesa giustizia, ma è disceso a “giustificare”, a perdonare e a fare giustizia del cuore contrito del pubblicano. Nella Chiesa si viene per scendere e non per salire, per sperimentare tutti a favore di tutti la stessa “giustificazione”…
E’ quello che aveva sperimentato San Paolo caduto dalla propria superbia di fariseo: “Nella debolezza si manifesta pienamente la potenza di Dio”. La preghiera di un cristiano formato è il linguaggio filiale che esprime una fede adulta: stima chiunque superiore a sé stesso. E’ il frutto del discernimento che ha su stesso e sulla storia: è la domanda di Grazia di un condannato a morte.
Il cristiano sa di camminare ogni giorno su un filo, con lo strapiombo a destra e a sinistra; non presume di se stesso e non nasconde a nessuno la propria debolezza, meno che meno a Dio. Si abbandona alla sua “pietà”, nella certezza che, istante dopo istante, laddove potrebbe abbondare il peccato e condannarsi, sovrabbonderà di certo la Grazia che lo giustificherà.

*

CONGREGAZIONE PER IL CLERO
Anche in questa liturgia domenicale, la Parola di Dio ritorna sul tema della preghiera, nonché dell’accoglienza di essa presso Dio. La preghiera è il legame che ci unisce a Dio, ci pone in comunione con Lui permettendoci di ascoltare la sua voce.
Non basta avere una fiducia piena nella benevolenza del Padre ed essere perseveranti nel chiedere senza stancarsi - aspetti, questi, su cui abbiamo meditato domenica scorsa -, c’è un’altra caratteristica che è determinante per pregare in modo gradito al Padre e che davvero possa cambiare il cuore: l’umiltà.
Questa virtù è sicuramente il passaporto per essere ammessi al regno di Dio. L’umile riconosce che  Dio è tutto e lui nulla. Riconosce che quanto egli ha e fa di buono è dono di Dio, più che sua conquista. Si riconosce imperfetto, ma desideroso di percorrere il cammino di un progressivo perfezionamento, operato in lui dalla grazia, per compiere il quale riconosce la propria debolezza, l’incapacità a superare gli ostacoli che vi si frappongono, ostacoli che sono fuori di lui, ma anche in lui. Ecco allora che si rivolge a Dio, esprimendo nella preghiera tutta la sua piccolezza.
Nell'odierno brano evangelico, il Signore Gesù impartisce questo insegnamento e lo fa attraverso una delle parabole più conosciute del Vangelo: quella del fariseo e del pubblicano. Questo testo, in realtà, è da considerarsi più che una parabola; è una storia esemplare e significativa per il cristiano.
Il brano lucano gioca non tanto sul contrasto tra i poveri e i loro oppressori, quanto sulla contrapposizione esistente tra soggetti di diverso spessore religioso e sociale: farisei e pubblicani. I primi costituivano una delle categorie più attive al tempo di Gesù, molto stimata e influente; i secondi erano esattori delle imposte, che per il loro servizio a favore dei Romani, erano invisi al popolo, ritenuti pubblici peccatori e considerati persino traditori della patria.
Un fariseo ed un pubblicano sono i due personaggi che Gesù prende ad esempio, per mettere in risalto diversi atteggiamenti nei confronti di Dio.
Il fariseo si fa avanti, si mette ben in vista e prega in modo tale da intessere, più che un dialogo con Dio, un soliloquio, essendo egli convinto non solo di essere perfettamente in regola con le norme della legge, ma di fare finanche di più dello stretto necessario. Dunque, egli non ha nulla da chiedere al Signore. La sua preghiera è nulla più di una lista di meriti che non acquista alcun merito presso Dio, rilevando soltanto l'arroganza dell'orante.
Di segno opposto è l’atteggiamento del pubblicano, che Gesù descrive con evidente approvazione. Anch'egli sale al tempio, ma vi entra con discrezione, fermandosi a distanza, quasi a non voler profanare quel luogo con la sua presenza, in quanto è consapevole della propria situazione di peccato. Non osa alzare nemmeno gli occhi al cielo, perché ritiene di non aver nulla da presentare a Dio.
Il suo umile atteggiamento e la supplica che rivolge a Dio denotano un cuore lacerato dal dolore per averlo offeso, motivo per cui implora il perdono divino. Un perdono che Gesù assicura, dato che il pubblicano “tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato” (Lc 18, 14).
Ecco il significato pieno della parabola, il cui insegnamento definisce le condizioni affinché la nostra preghiera sia accetta a Dio e da Lui esaudita.
Già nell’Antico Testamento, come riportato nella prima lettura, l’umiltà veniva richiesta come condizione necessaria per una preghiera efficace. Dio ascolta con particolare premura “la preghiera dell’oppresso e non trascura la supplica dell’orfano né della vedova” perché “la preghiera del povero attraversa le nubi”.
La preghiera è l’energia necessaria per affrontare quella battaglia della fede di cui parla S. Paolo nella seconda lettera a Timoteo. L'Apostolo attesta di attendere il premio del suo combattimento dando impressione di esaltarsi, mentre è stato detto che occorre umiliarsi. Ma l’esaltazione del fariseo e il gloriarsi di Paolo sono ben diversi. Il giusto orgoglio di Paolo è il compiacimento non tanto per le proprie azioni, quanto per ciò che Dio ha operato in lui e attraverso di lui; da Dio, nella preghiera, gli è venuta la forza per combattere e da Dio gli verrà il premio della vittoria.

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Senza umiltà la preghiera degenera in presunzione

Lectio Divina di monsignor Francesco Follo per la XXX domenica del Tempo Ordinario

Monsignor Francesco Follo, osservatore permanente della Santa Sede presso l'UNESCO a Parigi, offre oggi la seguente riflessione sulle letture liturgiche per la XXX.ma domenica del Tempo Ordinario – Anno C.
Come di consueto, il presule propone anche una lettura spirituale.
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Senza umiltà la preghiera degenera in presunzione
Rito romano
XXX Domenica del Tempo Ordinario – Anno C – 27 ottobre 2013
Sir 35, 15-17.20-22; Sal 33; 2 Tm 4,6-8.16-18; Lc 18, 9-14
Rito ambrosiano
I Domenica dopo la Dedicazione del Duomo di Milano,
At 13,1-5a; Sal 95; Rm 15,15-20; Mt 28,16-20
            1) La preghiera deve essere umile.
            La Liturgia della Parola di Domenica scorsa ci ha insegnato che la preghiera per essere vera deve essere pura, fiduciosa, vigilante e costante. Oggi la stessa Liturgia completa l’insegnamento, sottolineando che la preghiera è vera quando è umile.
            Nell’introduzione al commento del Padre Nostro, San Tommaso d’Aquino scrive: “La preghiera deve essere umile perché Dio “si volge alla preghiera dell'umile e non disprezza la sua supplica” (Sal 102,18). Vedi anche la parabola del fariseo e del pubblicano (Lc 18,10 14) e la preghiera di Giuditta: “Tu sei il Dio degli umili, sei il soccorritore dei derelitti” (Gdt 9,11). E questa umiltà è osservata nel Padre nostro. Infatti, si ha vera umiltà quando uno non presume assolutamente nelle proprie forze, ma aspetta tutto dalla potenza divina alla quale si rivolge supplichevole”.
            Per pregare in verità occorre l’umiltà che rende contrito il cuore e avvicina Dio all’uomo, come dice il Salmo: “Dio è vicino a chi ha il cuore spezzato, salva gli spiriti affranti, riscatta la vita dei suoi servi; non condanna chi in lui si rifugia" (Sal 33/34, 19 e 23). Questo salmo ci può anche aiutare a capire bene la parabola evangelica del fariseo e del pubblicano (Lc 18,9-11), che ci è proposta in questa Domenica e che ci parla della preghiera umile. Un’umiltà espressa non solo dalle parole usate dal pubblicano ma anche dall’atteggiamento di quest’uomo, che si riconosce peccatore. Quando preghiamo, non conta solamente quello che diciamo al Signore, ma come Glielo diciamo. E’ in gioco “il come” viviamo il nostro rapporto con Dio.
            Di conseguenza, ciò che va corretto o migliorato nella nostra preghiera non sono le parole che diciamo, ma il modo di vivere la nostra relazione con Dio, magari iniziando il nostro momento di raccoglimento dicendo: “Signore, prima di parlare con me, perdonami” (Antequam discutias mecum, Domine, miserere mei -Antifona ambrosiana).
            Esaminiamo ora brevemente i due protagonisti di questo racconto evangelico.
            Iniziamo dal fariseo, che dalla mentalità corrente è considerato il vero praticante. Quest’uomo osserva scrupolosamente le pratiche della sua religione e ha molto spirito di sacrificio. Non si accontenta dello stretto necessario, ma fa di più. Non digiuna soltanto un giorno alla settimana, come prescriveva la legge, ma due.
            Però Cristo dice che costui non è giustificato, non è salvato. Perché? Egli osserva tutte le prescrizioni della legge e non può essere accusato di essere ipocrita, ma commette l’errore di essere sicuro della propria giustizia. Si ritiene in credito presso Dio: non attende la Sua misericordia, non attende la salvezza come un dono gratuito, immeritato, ma piuttosto come una ricompensa dovuta per il dovere compiuto. Dice: «O Dio, ti ringrazio» e Gli fa l’elenco di quanto lui sa fare nella sua vita di praticante, facendo in tal modo presente a Dio la propria giustizia. Ma ha di fatto perduto l’originaria e gratuita dipendenza da Dio che ci è Padre perché ci ama e non perché “deve” ripagarci di quanto abbiamo fatto. Tanto è vero che questo fariseo a parte quel «ti ringrazio» detto all'inizio non prega: non guarda a Dio, non si confronta con Lui, non attende nulla da Lui, né gli chiede nulla. Si concentra su di sé e si confronta con gli altri, giudicandoli duramente. In questo suo atteggiamento non c'è nulla della preghiera. Non chiede nulla, e Dio non gli dà nulla.
            Passiamo ora al secondo personaggio della parabola: un pubblicano che sale al tempio a pregare, e il cui atteggiamento è esattamente l'opposto di quello del fariseo. Si ferma a distanza, si batte il petto e dice: «O Dio, abbi pietà di me peccatore»[1] (Lc 18, 13). Riconoscendosi peccatore dice la verità: è al soldo dei romani invasori e pagani, ed è esoso nell'esigere le tasse. E’ certamente un peccatore, ma è consapevole di esserlo peccatore, si sente bisognoso di cambiamento e, soprattutto, sa di non poter pretendere nulla da Dio. Non ha nulla da vantare, non ha nulla da pretendere. Può solo chiedere. Conta su Dio, non su se stesso. Quest’uomo ha il capo chinato ma il cuore è proteso verso l’Alto, da cui attende la misericordia.
            La conclusione è chiara e semplice: l'unico modo corretto di mettersi di fronte a Dio nella preghiera e, ancor prima, nella vita è quello di sentirsi costantemente bisognosi del Suo perdono e del Suo amore. Le opere buone dobbiamo farle, ma non è il caso di vantarle. Come pure non è il caso di fare confronti con gli altri.
            2) Il perdono ricrea
            Dunque, il pubblicano “tornò a casa sua giustificato”. Fu perdonato non perché migliore o più umile del fariseo (Dio non si merita, neppure con l’umiltà), ma perché si aprì – come una porta che si socchiude al sole – a un Dio più grande del suo peccato, a un Dio che non si merita, ma si accoglie, a un Dio che con il perdono ricrea e rende il cuore del pubblicano innocente come quello di un bambino.
            Come Dio ha reso “giusto” il pubblicano peccatore, egli è “propizio” a noi quali peccatori sinceramente pentito, e saremo resi “giusti”, cioè riammessi nella divina amicizia, resi santi, purificati, restituiti alla vita di fede.
            Il fariseo è condannato. Perché? Perché disse “non sono rapace, ingiusto, adultero come il resto degli uomini” – e fin qui la genericità non offende nessuno - ma proseguì “o anche come questo Pubblicano” (Lc 18, 11). Così si mise contro il suo prossimo, lontano e vicino, nell’ingiustizia versi di esso e, quindi, verso Dio, che aveva detto: “Misericordia voglio più che sacrificio” (Os 6,6, ) e lo aveva confermato per bocca del Suo Figlio: “Andate e imparate che significa. Misericordia voglio, più che sacrificio” (Mt 9,13) e insistito: “Se voi aveste compreso che significa: Misericordia voglio più che sacrificio allora non avreste condannato gli innocenti” (Mt 12,7). Il peccato del fariseo formalmente sta nella condanna del fratello, ma soprattutto nella causa di questa condanna: “Chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarò esaltato (Lc 18, 14). E la stessa frase già usata per gli invitati presuntuosi che volevano occupare i posti migliori al banchetto (cfr. Lc 14, 11).
            Imitiamo Cristo che non esaltò se stesso anzi si “svuotò” la sua Divinità nella più abbietta umiliazione quella della croce. Per questo Dio l'ha esaltato sopra ogni altro nome (cfr. Fil 2.)
            Le Vergini consacrate sono chiamate a vivere in modo speciale quest’umiltà di Cristo nella preghiera e nella vita. Queste donne hanno accolto in modo particolare l’invito del Salvatore: «Imparate da me che sono mite e umile di cuore, e troverete riposo alle anime vostre» (Mt 11, 29). “E se vuoi conoscere il nome di questa virtù, cioè come essa è chiamata dai filosofi, sappi che l’umiltà su cui Dio rivolge il suo sguardo è quella stessa virtù che i filosofi chiamano atyphía oppure metriótês. Noi possiamo peraltro definirla con una perifrasi: l’umiltà è lo stato di un uomo che non si gonfia, ma si abbassa. Chi infatti si gonfia, cade, come dice l’Apostolo, «nella condotta del diavolo» - il quale appunto ha cominciato col gonfiarsi di superbia -; l’Apostolo dice: «Per non incappare, gonfiato d’orgoglio, nella condanna del diavolo» (I Tm 3, 6).«Ha guardato l’umiltà della sua ancella»: Dio mi ha guardato dice Maria - perché sono umile e perché ricerco la virtù della mitezza e del nascondimento”. (Origene, Omelie sul Vangelo di Luca, VIII, 5-6). Questa umiltà le rende spiritualmente feconde. Esse vivono il modo particolare lo spirito della Vergine Maria e “se secondo la carne, una sola fu la madre di Cristo, secondo la fede tutte le anime generano Cristo: ognuna infatti accogli in sé il Verbo di Dio” (Sant’Ambrogio di Milano, Esposizione del Vangelo secondo Luca, 2, 26-27). Nella preghiera di invio il Vescovo prega su di loro: “Gesù nostro Signore, fedele sposo di quelle che a Lui sono consacrate, vi doni, con la sua Parola, una vita felice e feconda” (Rituale di Consacrazione delle Vergini, n. 77). In tal modo, invita loro, e con il loro esempio invita ciascuno di noi, a fare in modo che nel nostro cuore, nella nostra vita il Signore trovi la sua dimora. Ma non solo dobbiamo portarlo nel cuore, dobbiamo “generarlo” e portarlo nel nostro tempo e nel mondo intero.
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Lettura spirituale
Card. John-Henri Newman 
Umiltà di spirito e santità
Le parole del pubblicano: «O Dio, abbi pietà di me che sono peccatore » (Lc, 18, 13) ci danno quella che potremmo chiamare la nota caratteristica della religione cristiana, la nota che la distingue dalle altre forme di culto e scuole religiose diffuse sulla terra nell’antichità e in epoche più recenti. Si tratta di una confessione del peccato e di una implorazione di grazia. I concetti di trasgressione e di perdono non furono certo introdotti dal cristianesimo né rimasero ignorati al di fuori della sua influenza. È facile anzi osservare che simboli della colpa e dell’impurità come pure riti di riparazione e di espiazione sono, più o meno, comuni a ogni religione. Ma la particolare caratteristica della nostra fede, e, prima ancora, della fede ebraica, consiste in questo: il riconoscimento del peccato si connette all’idea stessa della più eccelsa santità, e i credenti esemplari, come anche gli eroi della storia della Chiesa, sono ed altro non possono essere che creature redente, peccatori riconquistati alla grazia. Il ricordo eterno di quello che sono stati è caro ai loro cuori ed essi ne portano con sé anche in cielo l’estatica, aperta confessione.
È una confessione che non esce unicamente dalle labbra dei catecumeni o di chi è caduto; non è neppure esclusiva proprietà della gente comune, sempre alle prese con ogni sorta di tentazione nel vasto mondo. Anche i santi, per quanto avanzati siano nelle vie dello spirito, non sollevano mai il capo dalla loro posizione di supplica né mai cessano di battersi il petto nel tentativo di allontanare da sé il peccato, nei giorni dell’esistenza terrena. Gli stessi beati delle schiere celesti, che «hanno imbiancato le loro vesti nel san­gue dell’Agnello (Ap., 7, 14), mai non dimenticano la propria origine; si confessano, tutti e ciascuno, figli di Adamo e della stessa natura dei loro fratelli, pieni di debolezze per quanto grande sia stata la grazia loro concessa e la generosità con cui le hanno corrisposto. Gli altri potranno guardarli con ammirazione, ma essi guardano a Dio; gli altri potranno lodarne i meriti, ma essi continuano a par­lare solo delle proprie infedeltà. I giovani senza macchia come i vecchi pieni di esperienza, colui che meno ha peccato come colui che più sinceramente si è pentito, i freschi volti innocenti come le fronti canute, si uniscono nell’unica supplica: « O Dio, sii propizio a me peccatore! ».
Questa profonda umiltà è l’insegna e il pegno più caratteristico dei servi di Cristo, come il Signore stesso, che disse: «Non sono venuto a chiamare i giusti ma i peccatori » (Mt., 9, 13), lo riconosce e lo conferma concludendo la sua parabola: « Chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato » (Lc, 18, 14).
Siamo, lo si vede, molto lontani dal riconoscimento puramente generale della colpevolezza dell’uomo e del bisogno di espiazione proprio delle antiche religioni, popolari in altri tempi e ancor oggi esistenti nel mondo. Per esse la colpa è un peso che incombe sull’individuo singolo, su determinati paesi, sulla condotta di un popolo, sugli stati o sui loro governanti: i colpevoli sono tenuti ad espiare. In taluni casi l’espiazione ha carattere cultuale, e cioè un rito di chi si avvicina per esempio al sacrificio o viene introdotto ad una funzione sacra, più che un atto veramente personale. Si tratta senza alcun dubbio di antichi avanzi della vera religione, di testimonianze in favore di essa, non prive di utilità in sé e in quello che sottintendono. Ma non si elevano certo al grado di chiarezza e di perfezione pro­prio dell’insegnamento cristiano: «Non vi è alcun giusto, neppure uno » (Rom., 3, 10) - « Tutti hanno peccato e rimangono lontani dalla gloria di Dio (Rom., 3, 23) - « Egli ci salvò non per opere di giustizia fatte da noi ma secondo la sua misericordia » (Tt., 3, 5) - insegna san Paolo. Gli aderenti ad altre religioni e filosofie hanno pensato e pensano che, se numerosi sono i cattivi, ci sono anche dei buoni, sia pure in piccolo numero. Gli spiriti più eletti poi, elaborando i concetti della massa ignorante e illusa, e lasciando addirittura da parte il concetto di colpa, sono assurti ad una concezione dell’uomo fatta di verità e di sapienza, perfetta e immutabile. Le loro descrizioni di personaggi religiosamente perfetti sono spesso ammirevoli e si prestano ad essere interpretate in modo assai istruttivo: hanno però un grave difetto, di non fare cioè alcun accenno al peccato e di non annoverare il pentimento e l’umiliazione tra le qualità dell’uomo virtuoso.
(Estratto dal Sermone: The Religion of the Pharisee, the Religion of Mankind, 1856 SVO, 2, 15-29)
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NOTE
[1] Il testo greco dice: “O Dio, sii propizio a me, peccatore.”: La formula viene anche dai Salmi (50,1; 78,9). Sono parole che escono dal cuore contrito e umiliato. Il pubblicano non sa dire di più, perché davanti alla Presenza santa le parole mancano dolorosamente. Inoltre lui sa che le parole non a nulla servirebbero. Si rimette semplicemente al suo Dio, nella trepida fiducia, sapendo che Lui scruta i cuori e i reni degli uomini, tutto comprende e, se vuole, tutto perdona: tutti riconcilia.