giovedì 31 ottobre 2013

Chi muore in Cristo non conoscerà morte



di Maria Gloria Riva


El Greco, La sepoltura del conte di Orgaz

Lutero, il 31 ottobre del 1517, affisse a Wittenberg le sue 95 tesi mediante le quali, fra le altre verità della fede, colpiva mortalmente il culto cattolico dei Santi. Nel Medioevo si riteneva che il 1 novembre tutti i Santi salissero in Paradiso per rendere omaggio alla Trinità. Così fin d’allora la Chiesa invitava i bambini a vestire i panni del proprio Santo Patrono e a recarsi processionalmente in Cattedrale per ricevere la Benedizione del Vescovo. Non è un caso che proprio il 31 di ottobre, dunque, prese piede quella festa (Halloween) che, celebrando un certo culto dei morti, vorrebbe vanificare la fede cristiana nel destino ultimo dell’uomo che i Santi comprovano e significano.
La morte, in realtà, è da sempre celebrata nella Chiesa, ma con il respiro grande di chi possiede già la garanzia della risurrezione. Fra le pale che testimoniano questa fede ce n’è una, forse poco nota, ma straordinaria per il suo significato simbolico. Si tratta di un dipinto di El Greco dal titolo El entierra del Conde de Orgaz, ovvero La sepoltura del Conte di Orgaz. La tela è divisa in due settori corrispondenti simbolicamente al cielo, la parte alta, e alla terra, la parte bassa, luogo in cui il pittore, con grande sensibilità spirituale, ha immaginato la morte come un parto.
Al centro della scena inferiore si trova il corpo mortale di Gonzalo Ruiz di Toledo, conte di Orgaz che, posto nel sepolcro, pare un feto pronto a nascere a nuova vita. Prova ne è il fatto che assistono a questo straordinario parto due santi: sant’Agostino che sorregge il capo di Gonzalo e Santo Stefano. Molte persone concorrono alle onoranze funebri eppure nessuna di queste vide da vicino il defunto.
Il conte di Orgaz, notaio maggiore di Castiglia, discendente indiretto della famiglia imperiale di Costantinopoli, intorno all’anno 1300 fece restaurare a proprie spese la chiesa toledana di Santo Tomè. Si distinse per molte opere di carità fatte verso i religiosi, agostiniani e francescani, e, alla sua morte, destinò alla medesima parrocchia un lascito quale testimonianza della sua fede. In realtà la santità di quest’uomo fu tale che quando il suo corpo venne traslato nel 1327 (era morto nel 1323) per essere sepolto nella parrocchia toledana, apparvero per seppellirlo Sant’Agostino e Santo Stefano accompagnati da una voce misteriosa che diceva: «Riceva questa ricompensa chi serve Dio ed i suoi Santi». Un miracolo che venne ufficialmente riconosciuto nel 1583.
Qualche decennio prima (1564) prima, il parroco della parrocchia di San Tommaso, don Andrés Nuñez Madrid, vedendo che le volontà del defunto non furono rispettate dagli eredi, chiese giustizia e la ottenne. La tela di El Greco immortala quest’evento di grazia.
Don Andrés compare al margine destro della tela, mentre celebra idealmente il rito funebre, i fedeli che assistono al rito sono tutti contemporanei del prelato e di El Greco, il cui ritratto spicca proprio dietro la mano del personaggio che sta estatico davanti al corpo del defunto. All’estrema sinistra della tela vi sono alcuni religiosi, ideali testimoni della carità di Gonzalo.
Il cielo che si apre è quello maestoso della gloria che attende le anime sante.
Molti i santi presenti: Davide, con la cetra, a sinistra in alto, poi Mosè, Noè, San Pietro, con le chiavi. Accanto al Battista, san Giacomo, san Paolo, san Sisto V, vestito di giallo, e san Tommaso con in mano la sega, strumento del suo martirio.
Ma al centro di tutto questo, portata da un angelo, accolta dalla vergine Maria, dal Battista e diretta verso Cristo stesso, ecco l’anima innocente, e dunque giovanissima, del Conte Gonzalo che entra nell’eternità della vita.
La tela, benché rappresenti un evento drammatico come la sepoltura e la morte, esprime una solennità grata e luminosa, lontanissima da certe rappresentazioni funeree e punteggiate di teschi e di ossa aride cui certa moda ci abitua.
La Chiesa venera dunque i santi e i morti, nella certezza che quanti vivono sulla terra nella ricerca costante del Bene e del Vero e nella testimonianza del Vangelo di Cristo, non conosceranno la morte e potranno essere per gli altri (anche a distanza di secoli come il buon Gonzalo) via alla salvezza e alla vita che non muore.

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Ognissanti. Ma i festeggiati chi li conosce?
di Cara Ronza
Sono almeno due settimane che dalle vetrine di qualsiasi negozio, dalla cartoleria al panettiere al parrucchiere, pendono ragnatele, occhieggiano maschere mostruose, trionfano zucche scavate dal ghigno inquietante. A noi che abbiamo una certa età e che conosciamo Halloween come festa d'importazione, la cosa dà un po' fastidio.

Ci piace ripetere che anche questa è una festa usurpata e profanata, che sono stati gli americani a trasformare la vigilia di Ognissanti (in irlandese All Hollows' Eve) in questo sabba consumistico, che dietro l'apparenza innocua di un carnevale di fine autunno si nasconde – neanche troppo bene – il fantasma di una cultura mortifera.

Poi però, nella migliore delle ipotesi, orgogliosi del nostro discernimento e della nostra capacità di giudizio, ci fermiamo qui. Non ci travestiamo da streghe, non mandiamo i nostri figli a stordire i vicini con scampanellate, dolcetti e scherzetti, ma dei veri festeggiati di questo giorno importante ci interessa poco.
C'è di mezzo una festa di precetto, c'è qualche amico in Cielo per cui pregare il giorno dopo, ma nella frenesia di un ponte da sfruttare al massimo i protagonisti restano di fatto sullo sfondo. Ed è un vero peccato, perché i Santi, che oggi stanno sul calendario, sono coloro che in vita hanno fatto – bene – ciò a cui tutti siamo chiamati: credere nel Signore Gesù. Ci converrebbe conoscerli meglio e frequentarli di più.

Di alcuni santi conosciamo appena il nome, di molti altri non sappiamo proprio niente e nemmeno li sapremmo riconoscere, se in questo "ponte dei santi e dei morti" ci capitasse di incappare in un affresco o in un dipinto che li raffigura. A questo scopo possono allora tornare utili un paio di letture che parlano di loro.

La prima è lo splendido Santi e patroni di Fernando e Gioia Lanzi (Jaca book, 264 pagg., € 49), un classico di cui è appena uscita una nuova edizione aggiornata. Corredato da una gran dovizia di illustrazioni a colori, presenta quasi 200 santi, da Disma, il "buon ladrone", fino a Bakhita, Edith Stein e Madre Teresa di Calcutta. Di ciascuno ripercorre la vicenda storica e spiega i motivi della devozione speciale di cui sono oggetto. E di ciascuno descrive i tratti iconografici, per aiutarci a individuarli e a ritrovarli nelle chiese e nei libri, nelle immagini popolari e nelle opere d'arte.

La seconda lettura è un più sobrio dizionario iconografico, anch'esso ricco di immagini, ma tutte in bianco e nero. S'intitola Sancti ed è stato compilato da Ino Chessi (Ancora, 584 pagg., € 26). Per sua natura è un testo più sintetico, ma d'altro canto più pratico da portarsi appresso anche in una gita fuori porta.

L'uno e l'altro hanno comunque un pregio in comune: fanno venir voglia di conoscere sempre meglio quelli che la Chiesa, nella sua lunga storia, ha indicato come campioni della fede. E le loro rappresentazioni, che papa Gregorio Magno nel 600 chiamò «la scrittura degli illetterati», restano anche oggi uno strumento privilegiato per conoscere «le cose della fede, e quindi un mezzo per insegnare la religione e i suoi misteri». Soffermarci qualche istante a guardare le loro facce, i loro occhi, le loro mani di uomini e donne, ci ricorda che la storia della Chiesa, di cui anche noi facciamo parte, è davvero una storia umana, in cui però il divino non si stanca di essere presente.