sabato 28 settembre 2013

XXVI Domenica del Tempo Ordinario - Anno C


   
XXVI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO
Anno C

MESSALE
Antifona d'Ingresso  Dn 3,31.29.30.43.42
Signore, tutto ciò che hai fatto ricadere su di noi
l'hai fatto con retto giudizio;
abbiamo peccato contro di te,
non abbiamo dato ascolto ai tuoi precetti;
ma ora glorifica il tuo nome e opera con noi
secondo la grandezza della tua misericordia
.
 
Colletta

O Dio, che riveli la tua onnipotenza soprattutto con la misericordia e il perdono, continua a effondere su di noi la tua grazia, perché, camminando verso i beni da te promessi, diventiamo partecipi della felicità eterna. Per il nostro Signore.

 Oppure:
O Dio, tu chiami per nome i tuoi poveri, mentre non ha nome il ricco epulone; stabilisci con giustizia la sorte di tutti gli oppressi, poni fine all'orgia degli spensierati, e f
a' che aderiamo in tempo alla tua Parola, per credere che il tuo Cristo è risorto dai morti e ci accoglierà nel tuo regno. Per il nostro Signore.

LITURGIA DELLA PAROLA

Prima Lettura  Am 6, 1.4-7
Ora cesserà l’orgia dei dissoluti.

Dal libro del profeta Amos
Guai agli spensierati di Sion
e a quelli che si considerano sicuri
sulla montagna di Samaria!
Distesi su letti d’avorio e sdraiati sui loro divani
mangiano gli agnelli del gregge
e i vitelli cresciuti nella stalla.
Canterellano al suono dell’arpa,
come Davide improvvisano su strumenti musicali;
bevono il vino in larghe coppe
e si ungono con gli unguenti più raffinati,
ma della rovina di Giuseppe non si preoccupano.
Perciò ora andranno in esilio in testa ai deportati
e cesserà l’orgia dei dissoluti.
 
Salmo Responsoriale
  Dal Salmo 145
Loda il Signore, anima mia.
Il Signore rimane fedele per sempre
rende giustizia agli oppressi,
dà il pane agli affamati.
Il Signore libera i prigionieri.

Il Signore ridona la vista ai ciechi,
il Signore rialza chi è caduto,
il Signore ama i giusti,
il Signore protegge i forestieri.

Egli sostiene l’orfano e la vedova,
ma sconvolge le vie dei malvagi.
Il Signore regna per sempre,
il tuo Dio, o Sion, di generazione in generazione.
 

Seconda Lettura
  1 Tm 6, 11-16
Conserva il comandamento fino alla manifestazione del Signore.

Dalla prima lettera di san Paolo apostolo a Timòteo
Tu, uomo di Dio, evita queste cose; tendi invece alla giustizia, alla pietà, alla fede, alla carità, alla pazienza, alla mitezza. Combatti la buona battaglia della fede, cerca di raggiungere la vita eterna alla quale sei stato chiamato e per la quale hai fatto la tua bella professione di fede davanti a molti testimoni.
Davanti a Dio, che dà vita a tutte le cose, e a Gesù Cristo, che ha dato la sua bella testimonianza davanti a Ponzio Pilato, ti ordino di conservare senza macchia e in modo irreprensibile il comandamento, fino alla manifestazione del Signore nostro Gesù Cristo,
che al tempo stabilito sarà a noi mostrata da Dio,
il beato e unico Sovrano,
il Re dei re e Signore dei signori,
il solo che possiede l’immortalità
e abita una luce inaccessibile:
nessuno fra gli uomini lo ha mai visto né può vederlo.
A lui onore e potenza per sempre. Amen.
 
Canto al Vangelo
  2 Cor 8,9
Alleluia, alleluia.

Gesù Cristo da ricco che era, si è fatto povero per voi,
perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà
.
Alleluia.

  
  
Vangelo  Lc 16, 19-31
Nella vita, tu hai ricevuto i tuoi beni, e Lazzaro i suoi mali; ma ora lui è consolato, tu invece sei in mezzo ai tormenti.

Dal vangelo secondo Luca
In quel tempo, Gesù disse ai farisei:
«C’era un uomo ricco, che indossava vestiti di porpora e di lino finissimo, e ogni giorno si dava a lauti banchetti. Un povero, di nome Lazzaro, stava alla sua porta, coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco; ma erano i cani che venivano a leccare le sue piaghe.
Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli accanto ad Abramo. Morì anche il ricco e fu sepolto. Stando negli inferi fra i tormenti, alzò gli occhi e vide di lontano Abramo, e Lazzaro accanto a lui. Allora gridando disse: “Padre Abramo, abbi pietà di me e manda Lazzaro a intingere nell’acqua la punta del dito e a bagnarmi la lingua, perché soffro terribilmente in questa fiamma”.
Ma Abramo rispose: “Figlio, ricòrdati che, nella vita, tu hai ricevuto i tuoi beni, e Lazzaro i suoi mali; ma ora in questo modo lui è consolato, tu invece sei in mezzo ai tormenti. Per di più, tra noi e voi è stato fissato un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi, non possono, né di lì possono giungere fino a noi”.
E quello replicò: “Allora, padre, ti prego di mandare Lazzaro a casa di mio padre, perché ho cinque fratelli. Li ammonisca severamente, perché non vengano anch’essi in questo luogo di tormento”. Ma Abramo rispose: “Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino loro”. E lui replicò: “No, padre Abramo, ma se dai morti qualcuno andrà da loro, si convertiranno”. Abramo rispose: “Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti”».
 

*

Commento


Il Signore ci ama e viene ogni giorno per strapparci a  un'esistenza distesa tra vizi e lussi anestetizzanti. Non servono chissà quanti soldi per vivere come l’ “uomo ricco”. Bastano anche i desideri, quelli indotti dalle pubblicità suadenti di prodotti che sembrano regalati; e non possiamo più vivere senza essere connessi non-stop e senza i film in HD, mentre le concupiscenze inesauste ci sbiadiscono i sentimenti.
“Banchettare lautamente” significa mangiare ovunque e senza freni per diventare poi obesi di effimero; “vestirsi di porpora e bisso” significa indossare ipocritamente l’onore, il rispetto, il prestigio e il successo per i quali si è sacrificato tutto, soprattutto la propria anima. I mille compromessi, le menzogne, le invidie, le gelosie e l’avarizia, sono le portate del crasso menu di cui ci satolliamo ogni giorno. E’ la nostra vita, spesa tra banchetti per saziare una fame insaziabile, e vestiti per coprire una nudità che non si può dimenticare, l’indigenza mortale dove ci ha sospinto il demonio.
Per questo la salvezza appare sulla soglia della nostra vita con gli abiti lisi di un mendicanteaffamato: "Il vero protagonista della storia è il mendicante: Cristo mendicante del cuore dell'uomo e il cuore dell'uomo mendicante di Cristo" (don Giussani). Anche oggi, infatti, è come quell'oggi del ladrone crocifisso accanto a Gesù: proprio in quel momento l'infinita misericordia lo visitava con la carne lacerata di Cristo crocifisso giunta a un passo da lui. Dio era lì come l’ultimo peccatore della terra e mendicava da lui una parola capace di mendicare il suo perdono.
Come oggi è a un soffio da te e da me, “coperto di piaghe” - una per peccato, i nostri - “bramoso di sfamarsi di quello che cade dalla nostra mensa”, mendicando cioè un frammento della nostra vita sfregiata dal peccato. Gesù “brama” solo una briciola insanguinata, quella di cui neanche ci avvediamo: quel giudizio avventato e scivolato sulle labbra, e uccidevamo un fratello; quell’ironia gratuita che ha umiliato la moglie o il figlio, e noi continuando a vedere la televisione come niente fosse… Il Signore desidera tutti i momenti nei quali non abbiamo saputo e potuto amare, briciole capaci di sfamare e, invece, buttate via.
Tutti quei momenti che, ripensandoli, ci fanno dire: “se avessi fatto o detto in quest’altro modo…”; che ciechi siamo, quel “se” è assurdo perché in quei frangenti ci siamo comportati come potevamo, e non c’era alternativa, perché siamo peccatori, punto. Non esisteva un altro me stesso, buono e santo… E’ illusorio e fuorviante pensare che le cose sarebbero potute andare diversamente, perché solo una completa rigenerazione del cuore può cambiare parole e gesti. Per questo Gesù ci chiede di dargli i nostri vestiti pieni di strappi e scuciture, perché possa darci la veste bianca del perdono e dell’amore, per entrare con Lui nel Paradiso.
E’ per il Cielo, infatti, che siamo nati. Una volta varcata la soglia della tomba il “ricco” apre gli occhi sulla verità. La vita non si giocava tutta sulla terra perché oltre la morte esistono davvero Paradiso e inferno. Come possiamo accorgercene anche noi, tutte le volte che precipitiamo negli inferi a causa dei nostri peccati. Hai disprezzato tua moglie e ora non ti parla da un mese e ti si nega per vendetta? Hai tradito la fiducia di chi ti è accanto, lo hai usato per saziarti, e ora ti trovi solo, crocifisso nell’impotenza? Guarda bene, apri gli occhi e capirai che nulla è senza conseguenze, e queste sono, già qui, anticipo e profezia di ciò che vi sarà oltre la morte.
Come non credere all’eternità se ogni giorno sperimentiamo il gusto dolce o amaro delle decisioni? E come mai l’amaro ci vien voglia di sputarlo? Perché non siamo fatti per l’inferno e i suoi “tormenti”, ma per il paradiso e le sue “consolazioni”, quelle che pregustiamo quando amiamo davvero. Allora, come pensare che non vi sia nulla oltre la morte se c’è qualcosaoltre anche ogni nostra parola? La vita è seria, eccome, e tutto ha un valore immenso, anche le “briciole”, perché perfino ogni sguardo ha il suo riverbero oltre la morte, per il Cielo o per l’inferno.
Anche noi, proprio come il “ricco”, possiamo oggi “alzare lo sguardo” e contemplare Abramo e i santi nel Cielo. Tra “i tormenti” di un rancore possiamo sperare lo stesso destino di Lazzaro, il fratello che ha saputo amare in mezzo ai “suoi mali”. Non siamo morti, c’è ancora un oggi per convertirci: proprio ora Cristo è accanto a te, e, come Lazzaro, mendica la tua attenzione. Il fratello che oggi busserà e chiederà amore, è l’occasione che Di ci dona per aprire gli occhi: la povertà di Lazzaro infatti, è l'immagine che il ricco non vuole guardare, è la propria realtà cancellata e dimenticata.
Per raggiungerci, Gesù ha assunto la nostra natura di poveri Lazzaro: è Lui che, oggi, giace alla nostra porta, sulla soglia della nostra vita mondana, orgogliosa e arrogante. Gesù si è fatto Lazzaro perché potessimo riconoscere la nostra realtà; ha bussato al nostro cuore vestito della stessa nostra debolezza per svegliarci dall’inganno della superbia e della superficialità. Ci chiede le briciole, per dirci che anch’esse sono importanti e decisive. Lazzaro le voleva, gli bastavano, come a tuo figlio, o a tua sorella…
Convertirsi è riconoscere di essere come i pagani, poveri “cani” scacciati da tutti, secondo l’immagine forte che li descriveva. Ma proprio per questo erano gli unici ad accorgersi del suo dolore innamorato: ne erano mendicanti, pronti a curare le “piaghe” che li salvavano, tra l’indifferenza e il rifiuto dei farisei, che non avevano bisogno di nulla.
Convertirsi è scoprire di non avere nessuno che “bagni la punta del dito per bagnarci la lingua” e ridonarci parola e comunione. Senza un amore che superi le barriere della carne, infatti, siamo chiusi a tutti, ed è l’inferno: “un grande abisso” tra i coniugi, tra genitori e figli, tra colleghi e fidanzati. E non si può fare nulla, perché così è “stabilito” dalle nostre scelte. Ma Cristo è risuscitato, ha vinto peccato e morte; e ora, in Cielo, intercede per noi, e ci aiuta a “rientrare in noi stessi”, come il figlio prodigo; e accettare di essere, in questa terra, dei poveri mendicanti che possono solo tendere la mano alla misericordia di Dio.
Così un matrimonio sarà vero e autentico nella misura in cui entrambi i coniugi vivranno nella verità della mendicanza. La moglie che non ci parla sarà allora trasfigurata e riconosceremo in lei il povero Lazzaro: non più un nemico da combattere e sul quale prevalere, ma la nostra stessa povertà che bussa al nostro cuore: nell’esperienza di essere stati amati così come siamo potremo accogliere e amare Cristo crocifisso in chi, invece, vorremmo cancellare, e così entrare insieme nel Paradiso di un matrimonio rigenerato.
Ma per giungere a questa umiltà, occorre un cammino lungo quanto tutta la vitaperché nulla si improvvisa. Per questo, anche se ora apparisse Cristo risorto davanti a noi, non cambierebbe nulla. Non crederemmo, perché ancora chiusi nell’orgoglio. Abbiamo bisogno di “ascoltare Mosè e i Profeti”, per accogliere la fede che ci apra all’annuncio che illumina e salva la nostra vita; occorre imparare a camminare ascoltando, per aprire gli occhi e accogliere Cristo che, anche ora, bussa al nostro cuore in modo inaspettato, nel povero più povero, nel peccatore rifiutato, nell’ultimo di questa generazione. 

*

"Anche un ricco può convertirsi e aprire il suo cuore al prossimo"

Spunti per l'omelia a cura della Congregazione per il Clero per la XXVI Domenica del Tempo Ordinario C / Preghiera dei fedeli


Il tema della ricchezza su cui abbiamo meditato domenica scorsa, trova la sua prosecuzione nella liturgia della Parola di oggi, che intende ammonire il cristiano sui rischi in cui si incorre, quando tale fortuna non serve a gettare ponti di fraternità tra gli uomini o a creare relazioni di solidarietà con i poveri ed i bisognosi. Tutto ciò, infatti, tornerà a nostro merito quando ci troveremo davanti alla giustizia infinita di Dio.
Domenica scorsa Gesù ha svelato ai cristiani la via sicura per giungere al Regno, una via aperta anche per coloro che posseggono ricchezze, purché si servano di esse per aiutare chi è nel bisogno e crescere nell’amore per Dio. Oggi, la Parola di Dio ci porta a riflettere sul pericolo cui vanno incontro coloro che non si comportano “con scaltrezza”, per fare del bene a sé stessi e agli altri, come “l’amministratore infedele”, ma si godono egoisticamente i loro beni, senza pensare ad altro.
Questo pericolo non è immaginario, ma concreta e il racconto del Vangelo crea in chi ascolta l’impressione di trovarsi di fronte ad una vicenda reale, presa da Gesù a modello della durezza di cuore nei confronti dei fratelli bisognosi da parte dell’uomo concentrato solo sulla ricchezza.
Su questa linea ci guida già la prima lettura, tratta dal libro del profeta Amos, il quale, come difensore dei poveri, inveisce contro quelli che si sono arricchiti in fretta in tempi di guadagni facili, denunciando il loro lusso sfrenato.
Il profeta descrive i suoi sentimenti nel rilevare il contrasto tra i pochi che vivono nella ricchezza e la maggioranza della gente, che vive nella miseria. Egli condanna coloro che sono privilegiati e vivono in sontuosi palazzi, banchettando al suono della musica e bevendo spensieratamente, ungendosi con unguenti raffinati, senza preoccuparsi delle difficoltà in cui si trovano i loro concittadini.
Tutto questo splendore, però, non può far altro che anticipare e simboleggiare la distruzione di Samaria; essa comporta una sorte terribile, riservata a quei ricchi e a tutti quelli come loro che non si convertono, restando ciechi di fronte alla miseria del prossimo e sordi al richiamo dei profeti, i quali, parlando in nome di Dio, invitano a soccorrere i poveri, gli orfani, le vedove.
Anche la parabola del ricco epulone e del povero Lazzaro, narrata dal Vangelo odierno, presenta in forma drammatica tutta la forza provvisoria e distruttiva della ricchezza; quando è ridotta ad essere solo un mezzo di soddisfazione personale, essa chiude talmente i cuori ai bisogni degli altri da non farli neppure più avvertire coll’andare del tempo. Perciò, giustamente, l’evangelista Luca usa un linguaggio volutamente forte, affinché sia chiaro che l’episodio è simbolico, ma il messaggio che contine non può essere né minimizzato, né equivocato.
Il racconto di Gesù è ambientato in due diversi scenari, il primo dei quali descrive la situazione di un ricco e di un povero sulla terra.
L’uomo ricco, del quale non viene detto il nome, è il tipico benestante che si preoccupa unicamente di assaporare le gioie della vita presente, senza pensare né a Dio, né agli altri, e neppure alla vita eterna. Apparentemente, egli non fa niente di male godendosi la vita, ma è tanto preso da quella gioia che non si accorge nemmeno che alla porta della sua casa giace un povero, per giunta ammalato, con il corpo ricoperto di piaghe. Tuttavia, il povero è tormentato non solo dalle piaghe, quanto piuttosto dai morsi della fame e, suo malgrado, deve accontentarsi delle briciole che cadono dalla tavola del ricco. Quella che Luca descrive è una scena terrena, provvisoria, destinata a cambiare radicalmente ed irreversibilmente dopo questa vita.
Ecco quindi la seconda rappresentazione, che si svolge nell’al di là, ove le sorti si rivelano drammaticamente capovolte; Lazzaro sta nel luogo riservato ai giusti, che siedono con Abramo alla mensa celeste, il ricco invece si trova nel luogo riservato ai peccatori, un luogo di tormenti ed infelicità.
Il contrasto tra i protagonisti di questa parabola, già evidente sulla terra, viene accentuato nella vita ultraterrena e con toni davvero drammatici, ma i ruoli sono capovolti.
Lazzaro non chiedeva nulla, mentre giaceva sofferente alla porta del ricco, questo invece invoca clemenza per sé e per i suoi parenti, chiedendo ad Abramo che sia lo stesso Lazzaro ad informare i suoi fratelli della sua sorte, per invitarli a ravvedersi. Abramo, tuttavia, non può accondiscendere alla sua supplica, la situazione è ormai davvero irrimediabile!
Per questo, nella seconda lettura, l’apostolo Paolo esorta a combattere la buona battaglia della fede per giungere al traguardo della vita eterna, un traguardo che Cristo stesso ci ha mostrato, avendo dato a tutti la sua testimonianza di fede sulla croce. È necessaria, quindi, la testimonianza di cristiani che facciano risplendere nel loro ambiente di vita quotidiana l’amore di Dio in Cristo Gesù; anche un ricco può convertirsi e aprire il suo cuore al prossimo, condividendo i suoi beni e facendone uno strumento di fraternità e di amore, prenotando un posto sicuro nella vita eterna.

*

Amore è dare, amore è chiedere

Lectio Divina di monsignor Francesco Follo per la XXVI domenica del Tempo Ordinario


Monsignor Francesco Follo, osservatore permanente della Santa Sede presso l'UNESCO a Parigi, offre oggi la seguente riflessione sulle letture liturgiche per la XXVI.ma domenica del Tempo Ordinario – Anno C.
Di consueto, il presule propone anche una lettura patristica.
***
LECTIO DIVINA
Amore è dare, amore è chiedere
Rito romano
XXVI Domenica del Tempo Ordinario – Anno C – 29 settembre 2013
Am 6.1 4-7; Tm 6.11-16; Lc 16,19-31
Il povero salva il ricco
Amate i nemici


        1) Una lezione per vivere il presente e un comando sconcertante.
            La prima Lettura e Vangelo della liturgia romana, che ci narra la parabola del povero Lazzaro e del ricco mangione (questo è il significato del termine epulone[1]) indicano come vivere il presente e non hanno come scopo quello di impaurirci circa la punizione futura se non ci comportiamo bene. Questi due brani biblici ci dicono che chi cerca la propria sazietà non può preoccuparsi dei propri fratelli bisognosi e non è in grado di riconoscere il Figlio di Dio nel povero Lazzaro. Lazzaro è Cristo, che ha sofferto in sé ogni nostro dolore e che ha le piaghe dell’amore crocifisso e che sta alla porta di casa nostra e aspetta.
            Guardiamo la scena raccontata da Cristo: vi vediamo un uomo ricco, senza nome o, meglio, il cui nome è la ricchezza che ha, il nome del secondo è: Lazzaro[2]  (= Colui che è assistito da Dio, perché di suo non ha nulla). Entrambi sono sotto lo sguardo dell'Altissimo, ma ricevono diversamente la sua presenza.
            Il primo non ne ha bisogno, ha del suo, che gli permette di godere –in modo autonomo da Dio- la vita con pranzi abbondanti e di vestirsi con abiti eleganti. L'altro non ha altri che Dio, non ha di che mangiare e il corpo è “rivestito” di piaghe. Gli uomini lo scansano, solamente i cani gli si avvicinano e lo consolano.
            Guardiamo, ora, a noi stessi: anche noi abbiamo delle piaghe che possiamo nascondere sotto tutte le ricchezze possibili, ma Dio le conosce. Queste lacerazioni ci fanno giacere per terra e implorare il cielo, acuiscono la nostra fame di pienezza e sono “feritoie” che ci aprono al Mistero ... Beati noi, quando avvertiremo forte la nostalgia dell'essere “povero”, perché è la verità del nostre essere uomo. Siamo poveri, ma non lo neghiamo a noi stessi, perché camuffi ciò che siamo, se non ci mettiamo a livello di Dio pensiamo di poterne fare a meno. Cosa abbiamo che non abbiamo ricevuto da Lui? Ricordiamoci che il regno dei cieli ci appartiene, proprio perché siamo povero di cuore, siamo figli, siamo uomini ... come Gesù ... per questo siamo “ricchi”, ricchi del Suo amore, ricchi del nostro avere Dio per Padre.
            Allora saremo capaci dell’impossibile: “amare i nemici” (come ci è ricordato nel vangelo ambrosiano di oggi).
            Un monaco del Monte Athos commenta così questo stupefacente comando di Cristo: “Ci sono degli uomini che augurano ai loro nemici ed ai nemici della Chiesa pene e tormenti nel fuoco eterno. Essi non conoscono l'amore di Dio, pensando così. Chi ha l'amore e l'umiltà del Cristo piange e prega per tutto il mondo. Tu forse dici: questi è un malfattore, deve perciò bruciare nella fiamma eterna. Ma io ti domando: Ammettiamo che il Signore ti dia un posto nel suo regno, se tu vedi nel fuoco eterno colui al quale hai augurato l'eterno tormento, non avrai compassione per lui, anche se egli fosse stato nemico della Chiesa? Hai forse un cuore di sasso? Ma nel Regno dei Cieli non c'è posto per dei sassi. Lì ci vuole l'umiltà e l'amore di Cristo, che ha compassione per tutti.” E conclude con questa preghiera: “Signore, come tu hai pregato per i tuoi nemici, così insegna anche a noi per lo Spirito Santo ad amarli e a pregare con lacrime anche per loro. Ma è difficile per noi peccatori se non è con noi la tua grazia”.
            Ci sia di esempio San Francesco d’Assisi, povero e umile perché non c'è nulla di più grande che imparare l'umiltà e la mendicanza di Cristo (Lazzaro è il simbolo di Gesù mendicante di amore). L'umile vive povero e contento, tutto è buono al suo cuore. Solo gli umili e i poveri di cuore vedono il Signore, nello Spirito Santo. L'umiltà è la luce nella quale noi vediamo Dio che è la luce: nella sua luce noi vediamo la luce. Nel giorno di Dio “muore” la nostra aurora.
            2) La morte non è una livella, è una bilancia.
            Questo bilanciamento che è mostrato dalla seconda parte della parabola, dove le parti sono invertite: ora il ricco è in basso e Lazzaro è in alto. La morte fa vedere che il Regno di Dio ha vinto. Quando uno muore apre gli occhi. La morte è il momento in cui si vedono le cose come stanno veramente. La morte è la drammatica porta che permette al crepuscolo della nostra alba umana di “morire” nella luce del giorno senza fine di Dio.
            Entrano in scena anche gli altri cinque fratelli dell’epulone (sesto fratello), che continuano a vivere “spensierati” nella loro ricchezza. È proprio il loro vivere da ricchi che li rende ciechi di fronte al settimo (numero che è segno di pienezza) fratello (Gesù), che è vicino, appena al di là della porta, oltre la quale non vogliono guardare perché c’è il povero piagato e sono ciechi di fronte alle Scritture (eppure così chiare).
            Il ricco di questa parabola non osteggia Dio e non opprime il povero, semplicemente non lo vede, vive come se Dio non esistesse e non c’entrasse con la sua vita.
            Ora, il ricco mendica al povero una goccia d’acqua e chiede che i suoi fratelli siano avvertiti. Ma a che servirebbe avvertirli? Hanno già i profeti e Mosè, non occorre altro. Non sono le voci che mancano, non sono le verifiche, ma la libertà per comprendere, la lucidità per vedere. Il vivere da ricco rende ciechi.
            La strada della Croce è cammino della luce, che conduce al Paradiso. Questa strada ha un nome solo: carità, con molti sinonimi: misericordia, pietà, compassione, condivisione, solidarietà, comunione, unità, accoglienza, partecipazione, assunzione.
            La via che porta al Cielo si chiama Cristo. Non ci sono altre vere vie. Non si conoscono altre strade. Non ci sono altri sentieri. L'amore puro, vero, reale, spirituale, fatto di grande concretezza, di dono della propria vita e delle proprie sostanze conduce al Cielo. E su questa strada si sono messe le Vergini consacrate, sulle quali il giorno della consacrazione il loro Vescovo ha pregato: “Che loro brucino di carità e non amino niente al di fuori di Te, Signore. Che meritano ogni lode senza compiacersene; che cerchino di rendere gloria a Te con un cuore purificato, in un corpo santificato; che ti temano con amore e, per amore, Ti servano. E Ti, Dio sempre fedele, sii la loro fierezza, la loro gioia e il loro amore; sii per loro consolazione nella pena, luce nel dubbio, ricorso nell’ingiustizia” (Rito di consacrazione delle Vergini, n. 24).
*
LETTURA PATRISTICA 
S. Giovanni Crisostomo[3]
Omelia II su Lazzaro
            “Il ricco Epulone non commise propriamente un'ingiustizia nei confronti di Lazzaro, considerato che non gli tolse i suoi beni. Il suo peccato fu di non avere messo in comune con lui quel che gli era "proprio"... Il fatto è che non mettere in comune con l'altro quel che si possiede, ebbene, questo è già una forma di rapina. Non meravigliatevi, e non giudicate come stravagante quel che vi sto dicendo. Proporrò ora alla vostra attenzione un testo della Scrittura nel quale vengono qualificati come avarizia, frode e furto non solo l'atto di portare via l'altrui, ma anche quello di non mettere in comune con gli altri il proprio. Di che testimonianza biblica si tratta? Dunque, di quella in cui Dio, riprendendo i giudei per bocca del profeta, dice loro: "La terra ha dato i suoi frutti, eppure voi non avete portato le decime, e ora la rapina del povero sta nelle vostre case" (cfr. MI 3,10). Per non aver fatto le offerte abituali, avete strappato ai poveri i loro beni: questo è quanto dice il testo. E lo dice per dimostrare ai ricchi che essi hanno ciò che appartiene al povero, e questo anche nel caso che essi l'abbiano ereditato dal loro padre, o che a loro il denaro venga da qualunque altra fonte. Come pure dice in un altro luogo: "Non rifiutare il sostentamento al povero" (Sir 4,1). Rifiutare di dare significa prendere e tenersi l'altrui. E subito dopo, il passo ci insegna anche che, se cessiamo di fare l'elemosina, saremo castigati alla stessa maniera di quelli che sottraggono con l'inganno. In conclusione: i beni e la ricchezza appartengono al Signore, quale che sia la fonte, a partire da cui li abbiamo poi messi assieme... E se il Signore ti ha concesso di possedere più degli altri, non è stato certo perché tu ne spendessi in amanti e in gozzoviglie, in banchetti e in indumenti lussuosi, o in qualunque altra forma di sperpero. È stato perché tu ne distribuissi tra coloro che ne hanno bisogno. Se un esattore nasconde per sé i soldi dello stato e non li distribuisce a coloro ai quali gli è stato comandato di darli, ma li impiega per soddisfare i propri vizi, ebbene, costui dovrà presto o tardi rendere conto di ciò, e lo aspetterà solo la pena di morte. E dunque: il ricco non è diverso da un esattore incaricato di riscuotere del denaro, che deve poi venire distribuito ai poveri; esattore al quale sia stato comandato di ripartire quel denaro tra quanti, dei suoi compagni di servizio, si trovano nel bisogno. Se egli impiega per se stesso più di quel che richiede la necessità, allora si troverà a doverne rendere conto nella maniera più rigorosa, perché il suo non è in realtà suo, ma di coloro che, come lui, sono servi del Signore... Se non riuscite a rammentarvi di tutto quel che vi ho detto, vi supplico che per sempre vi resti in mente almeno questo, che vale anche per tutto il resto: non dare ai poveri dei beni propri, è come rubare loro e attentare alla loro vita. Ricordatevi che noi non disponiamo del nostro, bensì del loro”.
*
NOTE
[1] Dal latino: da épulae vivande, épulum banchetto. Nel mondo pagano dell’antica Roma, il sostantivo epulone indicava ciascuno dei membri del Collegio sacerdotale incaricato di organizzare un convito solenne in occasione dei sacrifici in onore di Giove capitolino. Nel mondo cristiano, con riferimento al protagonista della nota parabola che si legge nel Vangelo di  san Luca (16, 19-31), indica una persona ricca ed egoista, un ghiottone, un mangione.
[2] Di questo nome non si conosce la forma femminile. Le sue origini sono molto antiche ed è arrivato fino a noi dalla trasformazione della parola ebraica El'azar, composta da El-, che è l'abbreviazione di un nome dato a Dio, e '-azar con significato di venire in aiuto, quindi Lazzarovuol dire “Dio aiuta, Dio soccorre”, con  un significato complessivo che è una forma di ringraziamento al Signore.
[3] San Giovanni di Antiochia detto Crisostomo (=Bocca d’oro) per la sua eccellenza nel predicare, nacque intorno al 349 ad Antiochia di Siria (oggi Antakya, nel sud della Turchia), vi svolse il ministero presbiterale per circa undici anni, fino al 397, quando, nominato Vescovo di Costantinopoli, esercitò nella capitale dell’Impero il ministero episcopale prima dei due esili, seguiti a breve distanza l’uno dall’altro, fra il 403 e il 407, anno in cui morì. Il Crisostomo si colloca tra i Padri più prolifici: di lui ci sono giunti 17 trattati, più di 700 omelie autentiche, i commenti a Matteo e a Paolo (Lettere ai Romaniai Corintiagli Efesini e agli Ebrei),e 241 lettere.
San Giovanni Crisostomo si preoccupò di accompagnare con i suoi scritti lo sviluppo integrale della persona, nelle dimensioni fisica, intellettuale e religiosa. Le varie fasi della crescita sono paragonate ad altrettanti mari di un immenso oceano: «Il primo di questi mari è l’infanzia» (Omelia 81,5 sul Vangelo di Matteo). «In questa prima età si manifestano le inclinazioni al vizio e alla virtù». Perciò la legge di Dio deve essere fin dall’inizio impressa nell’anima «come su una tavoletta di cera» (Omelia 3,1 sul Vangelo di Giovanni): di fatto è questa l’età più importante.
«All'infanzia segue il mare dell’adolescenza, dove i venti soffiano violenti..., perché in noi cresce... la concupiscenza» (Omelia 81,5 sul Vangelo di Matteo).  «Alla giovinezza succede l’età della persona matura, nella quale sopraggiungono gli impegni di famiglia: è il tempo di cercare moglie” (ibid.). Del matrimonio questo Padre delle Chiesa ricorda i fini, arricchendoli – con il richiamo alla virtù della temperanza – di una ricca trama di rapporti personalizzati.Gli sposi ben preparati sbarrano così la via al divorzio: tutto si svolge con gioia e si possono educare i figli alla virtù.Quando poi nasce il primo bambino, questi è «come un ponte; i tre diventano una carne sola, poiché il figlio congiunge le due parti» (Omelia 12,5 sulla Lettera ai Colossesi), e i tre costituiscono «una famiglia, piccola Chiesa» (Omelia 20,6 sulla Lettera agli Efesini).
Sollecito per i poveri, Giovanni fu chiamato anche «l’Elemosiniere». Da attento amministratore, infatti, era riuscito a creare istituzioni caritative molto apprezzate ed efficienti.