giovedì 12 settembre 2013

Vorrei che la luce splendesse...



Dopo la lettera a Eugenio Scalfari. 
«Un racconto splendido, un’autobiografia affascinante» scrive Eugenio Scalfari su «la Repubblica» del 12 settembre in chiusura del lungo commento alla ormai celebre risposta del Pontefice ai suoi articoli pubblicati il 7 luglio e il 7 agosto scorsi. «Chi come me non solo non ha la fede ma neppure la cerca; chi come me sente il fascino della predicazione di Gesù e lo ritiene uomo e figlio dell’uomo, non può che ammirare un successore di Pietro che rivendica la Chiesa come luogo eletto affinché il sentimento di umanità custodito in vasi d’argilla non venga distrutto dai vasi di piombo che fuori e dentro la Chiesa spazzano i vasi d’argilla. Il Papa mi fa l’onore di voler fare un tratto di percorso insieme. Ne sarei felice. Anch’io vorrei — scrive in conclusione il fondatore del giornale romano — che la luce riuscisse a penetrare e a dissolvere le tenebre».
La «lettera a chi non crede» ha, del resto, suscitato echi e reazioni in tutto il mondo. «The Washington Post» — su cui, tra l’altro, è comparso, il 9 settembre, un articolato commento di Stephen Schneck su Francis, the Peace Pope — sottolinea come la lettera sia degna di particolare nota per le sue posizioni aperte e oneste sulla condizione spirituale dei non credenti.
Anche i media inglesi si soffermano in particolare sull’apertura al dialogo da parte del Pontefice. È il caso di «The Telegraph» («tono conciliante»), «The Guardian» («delle oltre 2500 parole utilizzate nella lettera — scrive Lizzy Davies — nessuna si orienta verso l’ira o l’indignazione») o «The Independent» (che plaude alla volontà di superare le barriere attraverso il dialogo).
Enzo Bianchi, invece, rimarca più il significato del gesto. «Un dato raro e prezioso — scrive il priore di Bose su «la Repubblica» — caratterizza la risposta di Papa Francesco alle questioni sollevate da Scalfari. Il Papa non si è limitato ad affermare che il dialogo è “espressione intima e indispensabile” nell’esistenza del credente, ma lo ha intavolato concretamente, avviandosi a percorrere “un tratto di cammino insieme”».
In una corrispondenza da Roma Juan Vicente Boo, su «Abc» ricorda l’articolo di Benedetto XVI uscito sul «Financial Times» il 20 dicembre del 2012, sul tema del «dare a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio», e vede nell’armonia tra la ragione e la fede il filo conduttore della Lumen fidei e conseguentemente anche della lettera del Papa.
Su «La Razón» si commenta invece il passo sui «fratelli ebrei» che hanno conservato la loro fede in Dio attraverso le bufere della storia. Anche chi non crede in Dio ha nel suo cuore i criteri per obbedire al bene, si legge nell’articolo che sottolinea come Dio perdoni chi ascolta la propria coscienza.
Anche sull’argentino «Clarín» si commenta la lettera del Papa al giornalista italiano, sottolineando il fatto che nonostante i suoi peccati e le sue contraddizioni, la Chiesa resta lo strumento con cui si comunica la presenza di Gesù: «Non ha senso dire credo in Dio e non credo nella Chiesa, ha detto il Papa» si legge nella corrispondenza di Julio Algañaraz. 
«Una tribuna molto particolare ha ospitato il dibattito» — scrive Aymeric Christensen in rete su «La Vie.fr», sottolineando il messaggio rivolto ai non credenti, tutto giocato sulla metafora della luce. Un’immagine che vede contrapposti i Lumi al presunto oscurantismo della Chiesa.
In un’intervista alla Radio Vaticana il presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, il cardinale Gianfranco Ravasi, ha infine commentato l’ampio testo di Francesco soffermandosi in particolare «sulla presentazione della fede come luce e non come tenebra misteriosa». Ebbene, prosegue il porporato, «penso che, in questa luce, la lettera del Papa sia anche il più alto patrocinio all’incontro del Cortile dei Gentili che il 25 di settembre faremo nel Tempio di Adriano a Roma, con il dialogo che condurrò proprio con Eugenio Scalfari».
Osservatore Romano

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Scalfari, un problema di coscienza
di Tommaso Scandroglio
Avete mai provato ad usare il traduttore automatico di Google?Se inserite una frase in inglese di media complessità il risultato in italiano che ne viene fuori a volte sfiora il comico tanto è errato. Ecco Scalfari è diventato il traduttore automatico del pensiero di Papa Bergoglio e di tutta la Chiesa da lui guidata.
Ne ha dato prova ieri (12 settembre) sulle pagine di Repubblicarispondendo alla lettera che un paio di giorni fa Papa Francesco gli aveva indirizzato. Molti sarebbero i passaggi interessanti da mettere sotto la lente di ingrandimento, me ne selezioniamo solo uno per motivi di brevità. Il bianco pizzetto di Repubblicariporta nuovamente un passo della missiva del Pontefice che lo ha particolarmente colpito: «la questione [del bene e del male] per chi non crede in Dio sta nell'obbedire alla propria coscienza. Il peccato, anche per chi non ha la fede, c'è quando si va contro la coscienza. Ascoltare e obbedire ad essa significa, infatti, decidersi di fronte a ciò che viene percepito come bene o come male. E su questa decisione si gioca la bontà o la malvagità del nostro agire».
Il traduttore automatico Scalfari, tutto emozionato dal fatto che il Pontefice presti attenzione a lui tra mille, gongola e subito sputa la traduzione in perfetto laichese: «Un’apertura verso la cultura moderna e laica di questa ampiezza, una visione così profonda tra la coscienza e la sua autonomia, non si era mai sentita finora dalla cattedra di San Pietro. Neppure papa Giovanni era arrivato a tanto e neppure le conclusioni del Vaticano II, che avevano auspicato l'inizio del percorso ai pontefici che sarebbero venuti dopo e ai Sinodi che avrebbero convocato». Insomma una grande novità sono le parole di Papa Francesco per le orecchie del fondatore di Repubblica. Non è nuovo invece l’atteggiamento di questo quotidiano che conia come inedite alcune affermazioni del Pontefice quando in realtà si inseriscono armoniosamente nel solco della Tradizione e del Magistero Cattolico (vedi la questione sull’omosessualità).
Anche in questo caso il Papa ha ripetuto pari pari ciò che dice la sana dottrina in merito al tema della coscienza. Ad esempio il Catechismo della Chiesa Cattolica al n. 1777 afferma: «Presente nell’intimo della persona, la coscienza morale le ingiunge, al momento opportuno, di compiere il bene e di evitare il male. Essa giudica anche le scelte concrete, approvando quelle che sono buone, denunciando quelle cattive». In modo analogo Giovanni Paolo II al n. 32 della Veritatis splendor scrive che la coscienza è «un atto dell'intelligenza della persona, cui spetta di applicare la conoscenza universale del bene in una determinata situazione e di esprimere così un giudizio sulla condotta giusta da scegliere qui e ora». Le citazioni si sprecherebbero. Ci fermiamo qui.
Scalfari però sostiene che la posizione del Papa è rivoluzionaria non solo rispetto alla paludata e conservatrice tradizione del Magistero cattolico, bensì anche rispetto – secondo alcuni cliché stereotipati – al progressismo di Giovanni XXIII e del Concilio Vaticano II. E allora andiamo a vedere cosa ha scritto Papa Roncalli sulla coscienza nella Pacem in Terris (3): «il Creatore ha scolpito l’ordine anche nell’essere degli uomini: ordine che la coscienza rivela e ingiunge perentoriamente di seguire: “Essi mostrano scritta nei loro cuori l’opera della legge, testimone la loro coscienza” (Rm 2,15)». Ci pare che dica le stesse cose del suo successore Francesco.
E in merito al Concilio Vaticano II? Come si espresse su questo tema? Ecco alcuni stralci. Così la Gaudium et spes (16): «Nell'intimo della coscienza l'uomo scopre una legge che non è lui a darsi, ma alla quale invece deve obbedire e la cui voce, che lo chiama sempre ad amare e a fare il bene e a fuggire il male, quando occorre, chiaramente parla alle orecchie del cuore [...]. L'uomo ha in realtà una legge scritta da Dio dentro al suo cuore [...]. La coscienza è il nucleo più segreto e il sacrario dell'uomo, dove egli si trova solo con Dio, la cui voce risuona nell'intimità propria».
E nella Lumen Gentium (16): «Quelli che senza colpa ignorano il Vangelo di Cristo e la sua Chiesa, e tuttavia cercano sinceramente Dio, e sotto l'influsso della grazia si sforzano di compiere con le opere la volontà di Dio, conosciuta attraverso il dettame della coscienza, possono conseguire la salvezza eterna». Sembra proprio che l’attuale Pontefice abbia solo ribadito la dottrina cattolica su questo punto.
Ma perché Scalfari sostiene invece che una tale frase del Papa sulla coscienza «non si era mai sentita finora dalla cattedra di San Pietro»? Forse per il seguente motivo.
Scalfari è caduto in un processo di semplificazione da sussidiario delle elementari: Papa Bergoglio è il papa buono, dunque progressista, non conservatore, vicino ai poveri, non legato all’astratta dottrina così nemica della felicità degli uomini ma più attento alle nostre necessità materiali, più umanista che teologo, più versato al lato pratico che a quello teorico, che nutre più simpatia per il dialogo e le domande che per i dogmi e le risposte assertive. Insomma un tipo ok per Repubblica. Ma se è buono non può che dire cose che la Chiesa – da sempre cattiva – non ha mai detto. E dunque il suo concetto di coscienza non può che sposarsi appieno con la modernità e la laicità, le quali – per dirla con Thomas Hobbes – affermano che «bene e male sono nomi che significano i nostri appetiti e le nostre avversioni».
Questo in sintesi il processo di traduzione automatica di quella “scimmia pensante” di Scalfari, per usare una definizione di sé coniata dallo stesso padre di Repubblica, che ha inteso la coscienza come il luogo di creazione della verità soggettiva sganciata dal riferimento oggettivo della legge naturale e di Dio. Così come ricorda l’enciclica Veritatis Splendor al n. 32: «All'affermazione del dovere di seguire la propria coscienza si è indebitamente aggiunta l'affermazione che il giudizio morale è vero per il fatto stesso che proviene dalla coscienza. Ma, in tal modo, l'imprescindibile esigenza di verità è scomparsa, in favore di un criterio di sincerità, di autenticità, di “accordo con se stessi”, tanto che si è giunti ad una concezione radicalmente soggettivista del giudizio morale».

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Lettera a Scalfari. Mons. Forte: Papa Francesco ci insegna cosa sia veramente dialogo

Ha destato ampia eco e continua a suscitare spunti di riflessione e confronto la lettera che Papa Francesco ha indirizzato ad Eugenio Scalfari, pubblicata ieri dal quotidiano “La Repubblica”. Sull’importanza di questo gesto nell’orizzonte del dialogo tra credenti e non credenti, mons. Bruno Forte:

R. – In questa lettera, Papa Francesco dice cose bellissime ma che appartengono totalmente alla fede, alla tradizione della Chiesa. A cominciare da quel punto che ha suscitato qualche stupore, quando dice che non si deve parlare di assolutezza in rapporto alla verità cristiana, perché la verità non è absoluta, non è sciolta, separata, ma è una verità che è relazione, amore in se stessa – Trinità Santa – e nel rapporto con gli uomini. Questo è un punto molto bello e molto importante, ma che appartiene – in realtà – alla grande tradizione cristiana. Ciò che è nuovo, per certi aspetti sorprendente e a mio avviso bello è che Papa Francesco intavoli questo dialogo con un pensatore, un giornalista di grande intelligenza, dichiaratamente non credente, e che questo sia, di fatto, tramite Scalfari, ospitato su un giornale come “La Repubblica”, un giornale che si caratterizza anche per un’impronta fortemente – come si dice – laica. Come se il Papa non avesse timore di amare la persona umana cosi com’è, dov’essa si trova, senza porre condizioni pregiudiziali all’incontro e al dialogo. Questo è veramente dialogo: un’apertura all’altro, nella fedeltà alla propria identità, ma anche nell’accoglienza profonda della persona dell’altro, così com’essa è.

D. – Con un gesto anche come questo – inedito – di una risposta via lettera, il Papa sembra quasi dire a tutti, a tutti i cristiani, di correre “il rischio” della relazione, sempre e con tutti, appunto?

R. – Credo che in questo il Papa voglia essere ciò che sin dall’inizio ha mostrato di essere: vuole essere anzitutto una persona umana e come tutte le persone umane, che – con l’aiuto di Dio – hanno potuto realizzare la propria vocazione alla pienezza d’umanità, che è l’amore, è una persona umana che vuole relazionarsi con tutti, senza schemi, senza etichette. Credo che sia questo lo stile di Francesco: uno stile singolarmente efficace, come si vede dall’accoglienza e dall’interesse che suscita, ma uno stile – come dire: non tattico, cioè non è qualcosa che Francesco fa per tattica; lo fa perché è così, perché è la sua identità profonda, il suo voler continuamente riferirsi al Dio vivente e proprio così relazionarsi all’altro, chiunque sia l’altro, nel rispetto, nell’accoglienza, nella verità e nell’amore.

D. – Assieme alla verità, un altro tema fondamentale toccato in questa lettera è la questione della coscienza, tema – questo – caro anche a Benedetto XVI …

R. – Certamente. Credo sia importante sottolineare il filo rosso che congiunge questi due Pontificati, che in realtà sono intimamente correlati. Io spesso ripeto che non ci sarebbe Francesco se non ci fosse stato il Pontificato coraggioso, umile, credente di Benedetto, la riforma spirituale della Chiesa, il senso del primato di Dio che egli ha impresso così fortemente alla vita ecclesiale. Francesco eredita tutto questo. Su questa eredità, egli esprime liberamente e con totale spontaneità la sua profonda identità di uomo di Dio, di uomo spirituale, di gesuita, dunque di persona che cerca di vivere continuamente alla presenza di Dio secondo la spiritualità di Ignazio di Loyola. Credo che anche il richiamo alla coscienza non sia che un aspetto profondo della spiritualità ignaziana: come ha detto il semiologo francese Roland Barthes – e l’affermazione è sorprendente proprio perché viene da questa fonte – il libro degli esercizi spirituali di Ignazio non è il libro della risposta, ma il libro della interrogazione e della domanda. In altre parole, gli Esercizi Spirituali ci aiutano a metterci in ascolto della voce della coscienza, che poi è il riflesso interiore di quello che Dio ha scritto per noi, dentro di noi, perché realizzassimo la nostra vocazione umana. E anche in questo il Papa è nella grande tradizione cattolica e nello stesso tempo riesce a presentarla in maniera semplice e profonda, in modo da non solo stupire, ma soprattutto attrarre e far pensare chi crede e chi non crede.
 Radio Vaticana 

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Ma Francesco non è Martini
di Massimo Introvigne
Il commento di Eugenio Scalfari – e non solo il suo – alla lettera, pubblicata l’11 settembre, che Papa Francesco ha ritenuto d’indirizzargli conferma che il dialogo con i «Gentili senza cortile» – cioè con gli atei che, come il giornalista italiano continua a spiegare a proposito di se stesso, non solo non hanno la fede ma neppure la cercano – è difficile, pericoloso ed esposto a tutte le manipolazioni. Questi commenti, nella sostanza, scambiano Papa Francesco per un «alter ego» del cardinale Carlo Maria Martini (1927-2012). Sempre di gesuiti si tratta, e i vaticanisti ci assicurano che al conclave del 2005 Martini tifava per Bergoglio. Scalfari e i suoi amici esultano, e qualche critico cattolico ultra-conservatore ripete le stesse cose semplicemente cambiandole di segno. Ma è proprio così?
La figura di Martini – che ho conosciuto personalmente in anni lontani, prima che diventasse cardinale – è più complessa e tormentata di quanto si creda, ma l’aspetto dell’arcivescovo di Milano che qui interessa, e che Scalfari chiama in causa a proposito di Papa Francesco, è la sua idea che fosse necessaria una svolta radicale e un cambio di rotta sostanziale rispetto ai pontificati del beato Giovanni Paolo II (1920-2005) e di Benedetto XVI. Ecco qui la svolta, scrive ora Scalfari: nella lettera Papa Francesco gli avrebbe scritto cose inaudite, mai sostenute da alcun Pontefice, sul dialogo con la cultura erede dell’Illuminismo, sugli Ebrei e sulla coscienza.
Nello spirito di dialogo instaurato dal Pontefice, possiamo anche immaginare che Scalfari sia in buona fede, né si tratta evidentemente di un esperto di Magistero pontificio. Certamente Scalfari, da illuminista, può pensare che ci si trovi di fronte a cose nuovissime quando legge frasi come «è necessario accogliere le vere conquiste dell’Illuminismo» e che per la Chiesa questa accoglienza ha richiesto «una lunga ricerca faticosa». C’è solo un problema. Queste frasi non sono di Papa Francesco. Sono di Benedetto XVI, nel discorso natalizio alla Curia Romana del 22 dicembre 2006, un testo particolarmente importante e solenne. E nel discorso di Ratisbona dell’11 settembre 2006 – di cui ci si ricorda, sbagliando, solo per la parte iniziale relativa ai musulmani – Papa Ratzinger trovava le radici dell’Illuminismo nell’eredità dei suoi amati filosofi greci, i quali già avrebbero proposto «una specie di illuminismo, che si esprime in modo drastico nella derisione delle divinità che sarebbero soltanto opera delle mani dell’uomo».
Naturalmente, Benedetto XVI non è un nipotino di Voltaire (1694-1778). Non lo è neanche Papa Francesco. Entrambi propongono un dialogo con l’Illuminismo che distingua momenti esigenziali – domande – accettabili da risposte che invece sono a vario titolo sbagliate. Benedetto XVI, nel suo viaggio negli Stati Uniti del 2008 – ma già nel discorso natalizio alla Curia Romana del 2005, dedicato al Concilio Vaticano II – aveva distinto fra due tipi di cultura illuminista, valorizzando quella anglosassone che porta alla Rivoluzione americana, rispetto a quella europea, che invece porta alla Rivoluzione francese. Questioni complesse, su cui gli storici discutono. Ma dove Papa Francesco è in continuità sostanziale con Benedetto XVI, il quale a Fatima il 12 maggio 2010 aveva affermato che per impostare il rapporto fra Chiesa e modernità occorre sempre partire dal Concilio Vaticano II «nel quale la Chiesa, partendo da una rinnovata consapevolezza della tradizione cattolica, prende sul serio e discerne, trasfigura e supera le critiche che sono alla base delle forze che hanno caratterizzato la modernità, ossia la Riforma e l’Illuminismo. Così da sé stessa [al Concilio] la Chiesa accoglieva e ricreava il meglio delle istanze della modernità, da un lato superandole e, dall’altro evitando i suoi errori e vicoli senza uscita». Scalfari è contento del dialogo dei Papi con le «istanze della modernità». Ma i Papi non hanno mai smesso di denunciare anche gli «errori e vicoli senza uscita».
Sugli Ebrei, Scalfari sembra attribuire a Papa Francesco la prima critica nella storia del Magistero alla cosiddetta «teologia della sostituzione», secondo cui la Nuova Alleanza fra Dio e la Chiesa in Gesù Cristo ha «sostituito» totalmente l’Antica Alleanza fra il Signore e Israele, così revocandola. Anche qui è all’opera l’illusione ottica che fa scambiare le indubbie novità di stile e di accenti di Francesco per rivoluzioni dottrinali, che non ci sono. Semmai, nell’incontro con gli Ebrei del 24 giugno 2013, Papa Francesco ha usato sul punto espressioni perfino più prudenti rispetto al beato Giovanni Paolo II e a Benedetto XVI. La critica di una certa teologia della sostituzione – anche questo un tema complesso, su cui tra i teologi coesistono legittimamente opinioni diverse – da parte del beato Giovanni Paolo II parte dall’incontro con gli Ebrei a Magonza del 17 novembre 1980 e dal famoso riferimento di quel Papa al «Vecchio Testamento, da Dio mai denunziato». Ci sono sei discorsi dello stesso beato Giovanni Paolo II che vanno nella stessa direzione, e cinque di Benedetto XVI. Ma in realtà – lo hanno rilevato studiosi come don Pietro Cantoni – la critica della teologia della sostituzione è molto più antica, e se ne trovano precedenti ben prima del Vaticano II. Certo non l’ha inventata Papa Francesco a uso e consumo di Scalfari.
Infine, la coscienza. Anche qui Scalfari attribuisce a Papa Francesco una rivoluzione che non c’è. Benedetto XVI ha beatificato il cardinale oratoriano John Henry Newman (1801-1890) che, ai suoi tempi, fu molto criticato per una frase divenuta celebre della sua «Lettera al Duca di Norfolk», secondo cui «se fossi obbligato a introdurre la religione nei brindisi dopo un pranzo (il che in verità non mi sembra proprio la cosa migliore), brinderò, se volete, al Papa; tuttavia prima alla coscienza, poi al Papa». Un brano che, quando era prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, il cardinale Ratzinger aveva commentato rivendicandone la piena ortodossia. «Questa dottrina sulla coscienza di Newman – scriveva autobiograficamente Ratzinger nel 1990 – è divenuta per me sempre più importante». Sì, il beato Newman aveva ragione e tutti – credenti e non credenti – siamo tenuti a seguire anzitutto la nostra coscienza. Ma la coscienza non è il luogo dell’arbitrio e del desiderio, non è – come si potrebbe ricavare da certi scritti del cardinale Martini – il luogo dove si trovano ragioni per contestare la legge naturale su temi come l’aborto o l’omosessualità. Al contrario, la coscienza è precisamente il luogo dove Dio ha depositato la legge naturale, la nozione del bene e del male. Quando Benedetto XVI nel 2010 si reca in Gran Bretagna per beatificare il beato Newman, ne celebra il suo dialogo (ancora) con le «istanze della modernità» e la sua profonda analisi della coscienza. Precisando però che «la via della coscienza non è chiusura nel proprio “io”, ma è apertura, conversione e obbedienza a Colui che è Via, Verità e Vita». Più o meno le parole che Papa Francesco ha scritto a Scalfari, cui ha proposto – alla fine – una catechesi sugli aspetti essenziali del Cristianesimo. Martini, con tutto il rispetto, talora scriveva cose un po’ diverse.

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E la civilizzazione «pasó de rosca». Come parla Jorge Mario Bergoglio
Anticipiamo — nella traduzione dallo spagnolo di Mariana Gabriela Janún — un articolo che sarà pubblicato venerdì 13 settembre sul sito di Alver Metalli «Terre d’America». L’autore è un giornalista, già alunno di Bergoglio quando questi insegnava Letteratura e Psicologia a Santa Fe negli anni 1964 e 1965.

(Jorge Milia) «¡Esta civilización mundial se pasó de rosca!», disse il Papa ai giovani di Rio de Janeiro. Anche qui Papa Francesco ha lanciato uno di quegli “argentinismi” che ha interiorizzato negli anni del suo lavoro pastorale come semplice prete. 
In meccanica, quando si stringe più del necessario una vite, la filettatura (rosca) si rompe e la vite comincia a girare a vuoto, non ha più presa sulla materia, sulla realtà insomma. Si dice che “si è spanata” (pasó de rosca). Da qui si capisce chi abbia coniato questa espressione che è entrata a far parte del linguaggio degli argentini e di Papa Francesco in particolare: i meccanici nelle officine di quartiere.
Essere pasado de rosca vuol significare anche che si è oltrepassato il limite, che si sono fatti così tanti giri attorno a qualcosa che ormai non si ragiona più, non si vede chiaro e ci si autoconvince che la vita sia quella delle giravolte. Poco importa che l’espressione si riferisca alle droghe o all’alcol, abusi non così diversi dagli abusi del potere, del denaro o delle influenze. Il risultato è lo stesso: non si vede più la realtà, non la si afferra nei suoi connotati reali, la si distorce esagerandola o la si svilisce mortificandola. 
In Brasile Papa Francesco mise a fuoco l’obiettivo di quelle giornate sin da quando mise piede su quell’amata terra: la gioventù. Fu proprio davanti ai giovani che si riferì a quella società, quella civiltà mondiale che se pasó de rosca, e nella sua visita all’ospedale San Francesco di Rio dipinse chiaramente la cruda realtà: «Quanti “mercanti di morte” che seguono la logica del potere e del denaro a ogni costo! La piaga del narcotraffico, che favorisce la violenza e semina dolore e morte, richiede un atto di coraggio di tutta la società».
Era necessario che lo dicesse in questo modo affinché i giovani, e anche quelli meno giovani, lo capissero: «Questa civiltà mondiale è andata oltre ogni limite perché ha creato un tale culto del dio denaro, che siamo in presenza di una filosofia e di una prassi di esclusione dei due poli della vita che sono la speranza dei popoli: i giovani e gli anziani». Chi era presente sul posto ricorda bene come queste parole ammutolirono tutti i presenti in cattedrale. Perché la denuncia non soltanto scuote quelli che sono stati denunciati, scuote tutti. Ognuno sente in qualche modo il peso del proprio silenzio, della complicità per non aver parlato, per non aver compiuto quell’«atto di coraggio» che Papa Francesco mostrava come necessario. 
Tanti pensatori indulgono oggigiorno in analisi sulla società divisa, confusa, disintegrata, complicata, sconcertata, frastornata e mille termini ancora per giustificare l’essere pasado de rosca. La giustificazione dell’errore invece del suo riconoscimento e la ricerca del perdono è una patologia con la quale si tenta di ammorbidire gli effetti senza bisogno di confessare il peccato. Francesco non la fa complicata: «Questa civiltà è andata oltre ogni limite».
L'Osservatore Romano

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Sorpresa, la Teologia della liberazione non è più una grave eresia

Con Bergoglio (che incontra Gutiérrez) torna l’opzione per i poveri. Lenta riabilitazione (marxismo escluso

Papa Francesco ha ricevuto in udienza Gustavo Gutiérrez, teologo peruviano e padre della Teologia della liberazione. Un incontro cui ha lavorato a lungo il prefetto della congregazione per la Dottrina della fede, il tedesco Gerhard Ludwig Müller. Questo incontro certifica almeno simbolicamente la fine delle guerre teologiche del passato sorte e sviluppatesi nel tormento del post Concilio. Qualche giorno fa, sull’Osservatore Romano – che alla completa riabilitazione della corrente di pensiero dei Gutiérrez e dei Boff sta dedicando ampio spazio, con estratti di libri, interviste e commenti – padre Ugo Sartorio (direttore del Messaggero di Sant’Antonio), scriveva che “con un Papa latinoamericano, la Teologia della liberazione non poteva rimanere a lungo nel cono d’ombra nel quale è stata relegata da alcuni anni, almeno in Europa”. Per l’esattezza, da circa un trentennio: da quando cioè l’ex Sant’Uffizio di Joseph Ratzinger emanò le due istruzioni Libertatis nuntius (1984) e Libertatis conscientia (1986) che assestarono un colpo pressoché definitivo a quel filone di pensiero, almeno nella sua deriva marxista.
Gutiérrez, domenicano, è il padre di quel movimento teologico che non è mai stato un fenomeno unitario, ma che è stato percorso da varie correnti diversificate e spesso contraddittorie. C’era sì la vocazione terzomondista, la dedizione totale ai poveri delle campagne e delle periferie, ma anche la lotta armata e preti rivoluzionari come quell’Ernesto Cardenal diventato ministro del governo sandinista nicaraguense e passato alla storia per la ramanzina che gli fece, lui inginocchiato all’aeroporto di Managua, un furibondo Wojtyla col dito alzato.
Il fatto è, ha spiegato Gutiérrez nell’edizione di ieri del quotidiano della Santa Sede, che “questi testi non sono stati letti bene. Nella prima istruzione si afferma che successivamente sarebbe stato elaborato un documento più positivo”. Un modo per dire, aggiunge, “che quello era un testo negativo, che guardava unicamente agli errori”. Un documento che però non ha mai visto la luce. Concorda, il prefetto Müller, che pochi mesi prima di essere nominato quale successore del cardinale William Joseph Levada alla Dottrina della fede, ricordò in un’intervista a un giornale tedesco che lo stesso Ratzinger aveva sottolineato non solo i pericoli delle deviazioni dalla dottrina, ma anche i “princìpi positivi” presenti nella Teologia della liberazione. Certo, dice Gutiérrez, nella Libertatis nuntius si parla di quel movimento teologico “in modo troppo generico. La Teologia della liberazione è fatta di nomi e di persone, non di idee staccate dal loro contesto”. Comunque sia, aggiunge, discutere di questo non ha più senso: “Oggi la Teologia della liberazione è più conosciuta e quindi più apprezzata di ieri”. Dopotutto, il cardinale João Braz de Aviz, brasiliano e sensibile ai venti della liberazione, chiamato da Benedetto XVI a guidare la congregazione degli Istituti di vita consacrata pochi anni fa, l’aveva detto: “La Teologia della liberazione non è solo utile, ma anche necessaria, perché ha permesso di scoprire l’opzione preferenziale per i poveri”. Un messaggio che il Papa argentino ha elaborato nella cifra più significativa di questo primo scorcio di pontificato.

Il doppio pregiudizio

Ma auspicare “una chiesa povera per i poveri” non significa schierarsi tra i sostenitori di quel movimento di pensiero. Tutt’altro. Bergoglio parlò di “correnti di pensiero sprofondate nello sconcerto dopo il crollo dell’impero totalitario del socialismo reale”, denunciando l’elemento marxista peraltro già condannato dalla chiesa. Chiarissimo era stato, a tal proposito, Giovanni Paolo II il 28 gennaio 1979, intervenendo alla conferenza generale dell’episcopato latinoamericano a Puebla, in Messico: “La concezione di Cristo come politico, rivoluzionario, come il sovversivo di Nazaret, non si compagina con la catechesi della chiesa”. Una stroncatura che per Leonardo Boff – nonostante abbia abbandonato il saio e sia felicemente sposato dice di “sentirsi francescano nello spirito” – è figlia di due pontificati “che sono stati caratterizzati da un ritorno alla grande disciplina e dal controllo delle dottrine”. Insomma, una strategia che ha dato luogo “a una specie di inverno che ha congelato molte iniziative”, scriveva a luglio sul Manifesto, in una delle sue numerose interviste seguite alla rinuncia del Pontefice tedesco da lui definito “doganiere della fede”. La teologia della liberazione, aggiungeva Sartorio sull’Osservatore Romano, è stata vittima di “un doppio pregiudizio”. Da una parte, “quello che non ha ancora metabolizzato la fase conflittuale della metà degli anni Ottanta, e ne fa una vittima del Magistero romano”. Dall’altra, il “rifiuto di una teologia ritenuta troppo di sinistra e quindi tendenziosa”.

La teologia del popolo di Francesco
Per Gerhard Müller – la cui nomina non ricevette in curia un’accoglienza benevola da parte di tutti, proprio per la sua vicinanza agli ambienti latinoamericani presidiati da Gutiérrez – “con la Teologia della liberazione la chiesa cattolica ha potuto ulteriormente accrescere il pluralismo al suo interno”. E questo perché “la teologia dell’America latina svela e propone oggi nuovi aspetti  che integrano una prospettiva europea spesso incrostata”. Ciò non significa, come pure qualcuno  teme, che per l’ex arcivescovo di Ratisbona e ora custode dell’ortodossia (nonché curatore dell’opera omnia teologica di Benedetto XVI) ci sia alcun passo indietro, alcun ripensamento circa la denuncia delle “gravi deviazioni ideologiche” sottolineate a suo tempo da Ratzinger. Semmai, la consapevolezza che è giunto il momento di guardare a quel movimento come “a una nuova comprensione della teologia”. Troppo in fretta, fa intendere il prelato tedesco, la Teologia della liberazione è stata data per morta, archiviata, circoscritta a quella turbolenta fase post conciliare. Anzi, chiarisce Gutiérrez, “è giovane, aperta a cambiamenti e sfide, piena di risorse” e “non ha perso di mordente, non fosse altro per il fatto che il tema della povertà è sempre lì, sempre più urgente”. Naturale, dunque, che ritrovasse vigore con il Papa sudamericano che agli ultimi sta dedicando la sua missione. Ma più che una Teologia della liberazione, quella di Bergoglio è teologia del popolo, dove non trovano posto richiami alla lotta di classe, alla teoria della dipendenza, al peccato strutturale e sociale. La sua è una lettura meramente evangelica.
M. Matzuzzi