sabato 21 settembre 2013

Questo Papa è un social network



Papa Francesco non può essere definito un uomo da Twitter o Facebook, è lui stesso un social network", dice padre Antonio Spadaro, il cyberteologo gesuita direttore de La civiltà cattolica ed editorialista di Wired Italia, che per primo ha intervistato il pontefice.
Di seguito qualcuno dei commenti alla intervista-enciclica di Papa Francesco.
*
La Stampa, 21 settembre 2013
di ENZO BIANCHI
“Chi è  Jorge Mario Bergoglio?”, “Io sono un peccatore. Questa è la definizione più giusta. E non è un modo di dire, un genere letterario. Sono un peccatore”. Così si presenta papa Francesco e sentiamo subito che questo suo dire non è retorica ma espressione della verità: la verità di chi è stato umiliato dal peccato e lo confessa ai fratelli come propria vera identità davanti a Dio. Un’operazione di autenticità per nulla facile. Per questo i padri del deserto dicevano: “Chi riconosce il suo peccato è più grande di chi risuscita un morto!”. Bergoglio – la domanda riguardava l’uomo Jorge Mario, non ancora il papa – si riconosce dunque uomo debole e fragile, peccatore, che tuttavia confida nell’amore di Dio, dono che non necessita di essere meritato.  
Questa prima risposta fornisce la chiave d’ingresso all’intera intervista concessa ad Antonio Spadaro. Ed è sull’essere confratelli gesuiti che i due interlocutori prendono slancio nel dialogo, perché papa Bergoglio è un gesuita in tutte le sue fibre: non a caso i riferimenti presenti nell’intervista sono quasi tutti a uomini della Compagnia di Gesù. I santi Ignazio e Francesco Saverio, il beato Pietro Favre, i teologi de Lubac e de Certeau – un patrologo tra i più raffinati e un teologo tra i più acuti della modernità – poeti come Hopkins, uomini carismatici come padre Arrupe, che io stesso ho conosciuto come un santo che ha saputo vivere anche le umiliazioni da parte di Giovanni Paolo II in un’obbedienza estrema e rappacificata. Da questa appartenenza alla tradizione gesuita, sgorga l’attenzione di papa Francesco per il discernimento, operazione spirituale indispensabile su cui hanno indagato i padri monastici orientali e che è stata ripresa da Ignazio di Loyola come uno dei punti capitali dell’itinerario di sequela del Signore nel mondo e nella storia. Ho sempre detto – e l’ho scritto nella regola per la mia comunità – che chi presiede abbisogna di saldezza, discernimento e misericordia come carismi indispensabili per il suo ministero di unità. Papa Francesco appare saldo come una roccia, ben fondato su Cristo, e impegnato a discernere per governare con sapienza. Quanto alla misericordia, basta vedere quanto ha fatto in questi sei mesi di papato e quanto ribadisce nell’intervista: ha perdonato e continua a perdonare, a costo di non far emergere le urgenze di riforma della curia e della chiesa. Nelle sue omelie mattutine a Santa Marta ammonisce e rimprovera, anche con durezza e passione, quanti condividono il governo della chiesa, gli “uomini di chiesa”, ma contemporaneamente annuncia il perdono e lascia al loro posto i vari collaboratori.

Papa Francesco mostra di non avere e di non volere un programma prefissato di pontificato, ma di essere deciso a percorrere la strada dell’adesione alla realtà che gli si presenta giorno dopo giorno, cercando nel Vangelo le scelte da inverare. Dalla sua esperienza personale cerca di trarre istruzione per non ripetere errori commessi in passato: così confessa che nel suo esercizio di giovane provinciale della Compagnia, zelante e con poca esperienza, ha governato in modo piuttosto autoritario. Anche per questo motivo, Bergoglio sente la consultazione “reale, non formale” come una grazia e un aiuto: ascoltare gli altri, ascoltarli in profondità, raccogliere i pensieri di tutti e poi fare discernimento per poter decidere nella preghiera, sotto la guida dello Spirito santo, per quanto è possibile a un uomo che si esercita nell’obbedienza alla parola di Dio e nella retta intenzione.
Rilevate queste sfaccettature sull’uomo, il cristiano e il vescovo Bergoglio, che dire della chiesa di papa Francesco? Egli proviene da una chiesa giovane, dall’altro capo del mondo rispetto a Roma, dalla periferia geografica rispetto a un centro ultramillenario. È il primo papa non europeo e questo dato è molto più decisivo di quanto potessimo presumere. Nella mia vita ho già conosciuto sette papi, con quante differenze tra loro, soprattutto tra i papi del concilio e il primo papa straniero dopo secoli, Giovanni Paolo II. Già allora c’è stato un profondo mutamento nell’esercizio del papato e, di conseguenza, nell’indirizzo della chiesa, ma con Bergoglio il mutamento è ancora più profondo. La sua appartenenza a una delle giovani chiese di cui nell’intervista dice che “sviluppano una sintesi di fede, cultura e vita in divenire”, dunque hanno una visione “diversa da quella sviluppata dalle chiese più antiche”. Sono chiese giovani, che hanno forza, che guardano al futuro, che sentono la loro emersione come una grazia e una possibilità di mostrare con frutto un nuovo cristianesimo dopo secoli di sofferenza, povertà, soggezione all’occidente. Ma papa Francesco sa anche che nelle antiche chiese c’è una riserva di sapienza di cui certamente vuole tenere conto. 
Comunque, giovane o ricca di anni, la chiesa è un “ospedale”, immagine presente nella regola di Benedetto, dove l’abate è ammonito a ricordarsi che la comunità è composta di persone malate, fragili, deboli, bisognose di essere ascoltate, curate, custodite, “miserate”, per riprendere il “miserando” del motto episcopale di Bergoglio. Ecco perché per papa Francesco la “prossimità” è una postura fondamentale: il prossimo non esiste in sé, il prossimo esiste quando ognuno di noi decide di rendere l’altro suo vicino, facendosi egli stesso prossimo, “più vicino”. Bergoglio conosce bene questa verità evangelica, e sa anche come manifestarla con gesti e parole efficaci.
Da tutto questo emerge una visione precisa di chiesa. Non solo una chiesa che conosce il primato della misericordia – aspetto del quale tutti si sono già accorti e sul quale molto è già stato detto, anche dopo l’intervista – ma anche una chiesa sinodale, una chiesa nella quale camminare insieme, fare “syn-odos”, strada insieme: fedeli, presbiteri, vescovi e papa. Nell’intervista papa Francesco lo spiega con chiarezza: la sinodalità come metodo di vita e di governo della chiesa. Nessuna rinuncia al ministero petrino, ma questo dev’essere collocato – come aveva abbozzato il concilio Vaticano II – nella sinodalità episcopale e quindi nella sinodalità di tutta la chiesa. Non sono novità assolute, perché chi ha memoria ricorda per esempio la lettera pastorale “Camminare insieme” del cardinale Pellegrino.  Quante somiglianze tra quell’arcivescovo di Torino e papa Francesco! Penso anche all’invito rivolto ai religiosi perché diano le loro case agli immigrati... Padre Pellegrino da quell’appello ricevette molta diffidenza soprattutto da parte di religiosi e religiose che non apprezzarono affatto la sua esortazione.
Nell’intervista non ci si sofferma sulle contraddizioni già incontrate e che certamente aumenteranno e accompagneranno costantemente il ministero di papa Francesco. Non vorrei apparire foriero di malaugurio, ma evangelicamente quando un cristiano – e tanto più un papa – innalza il vessillo della croce, non come arma contro i nemici ma come cammino di sequela del Signore, può solo andare incontro a incomprensioni e contraddizioni, in una solitudine istituzionale pesante e faticosa. Non può essere diversamente, perché così è accaduto a Gesù e chi lo segue fedelmente, prima o poi si ritrova nella medesima situazione. C’è un famosissimo quadro di Rembrandt: un Pietro vecchio in carcere, a terra, con un’espressione di sofferenza sul volto e le mani incatenate che però sono incrociate per pregare. È un Pietro che anche in carcere sembra cantare l’“Erbarme dich” della Passione secondo Matteo di Bach, nel piangere il suo essere peccatore. Il successore di Pietro sappia che, come sta scritto negli Atti degli apostoli così anche oggi, “mentre era in carcere, una preghiera saliva incessantemente a Dio da tutta la Chiesa per lui”.

*

Francesco, i miei dubbi e le mie certezze 
di Vittorio Messori
in “Corriere della Sera” del 21 settembre 2013
Credo che stia capitando a molti: la lettura della trentina di pagine della Civiltà Cattolica con
l'intervista a Francesco sembra chiarire loro chi sia davvero e che intenda fare colui che ama
definirsi «vescovo di Roma». Una Roma che pur confessa di non conoscere, al di là di alcune
famose basiliche. Perché nasconderlo?
Molti, nella Chiesa, erano perplessi per uno stile in cui sembrava di avvertire qualcosa di populista,
da sudamericano che in gioventù non fu insensibile al carisma demagogico di Peròn.
Gli scarponi ortopedici neri; la croce solo argentata; l'abito papale e i paramenti liturgici talvolta
trascurati; l'andare a piedi o in utilitaria, comunque sul sedile anteriore; il rifiuto dell'alloggio
pontificio, della villa di Castel Gandolfo, della scorta; i bambini baciati in piazza; le telefonate fatte
di persona qua e là; il parlare a braccio, a rischio di equivoci; l'esigere subito il tu dall'interlocutore;
certe reazioni emotive, per foto e storie trovate sui giornali. Per quanto mi riguarda (e per quanto
poco importi, ovviamente), tutto questo disturbava certo snobismo intellettuale da cui fui contagiato
in quasi vent'anni di scuole torinesi, per giunta pre-sessantottarde. Con questo stile «all'argentina»,
contrastava certa schizzinosa «retorica dell'antiretorica» appresa da quei miei maestri di austerità e
di understatement subalpini. Ci sono stati mesi recenti in cui mi rallegravo per il buon momento di
sobrietà, di rigore, di profili volutamente bassi: per Papa, un professore emerito bavarese, per
presidente del Consiglio, un altro professore emerito della Bocconi, l'equivalente nostrano d'una
delle Grandes Écoles parigine. Per completare la Triade, al Quirinale avrei sognato un Luigi
Einaudi ma, in mancanza, m'accontentavo della serietà e della discrezione di Giorgio Napolitano,
egli pure non sospetto di cedimenti a sentimentalismi e retoriche.
Insomma, io pure ero tra i perplessi. Sia comunque chiaro: come mi è capitato altre volte di
ricordare, in una prospettiva cattolica ciò che conta è il Papato, è il ruolo — che gli è attribuito dal
Cristo stesso — d'insegnamento e custodia della fede; mentre non ha rilievo teologico il carattere
del Papa del momento, cui si chiede solo la salvaguardia dell'ortodossia e la guida della Chiesa tra i
marosi della storia. Non vi sono, qui, indici di gradimento personale, il credente segue ed ama ogni
pontefice, «simpatico» o meno che gli sia, in quanto successore di quel Pietro cui Gesù affidò la
cura del Suo popolo. Ma ecco ora l'intervista al più antico periodico non solo cattolico ma italiano,
al quindicinale fondato ben 163 anni fa. Un gesuita, padre Antonio Spadaro, a colloquio — sul
giornale dei gesuiti — col primo pontefice gesuita della storia. Un giocare totalmente in casa,
dunque. E non a caso. In effetti, leggendo, si comprende come la strategia del Papa che ha voluto
chiamarsi Francesco non sia affatto caratteriale ma sia in realtà nella tradizione migliore dei figli
non del Poverello, bensì d'Ignazio. Il carisma dei discepoli del guerriero basco fu il comprendere
che il mondo va salvato così com'è, ci piaccia o no; che l'utopia cristiana deve sempre confrontarsi
con la realtà concreta; che non deve scandalizzare l'amara concretezza di Machiavelli, per il quale
gli uomini sono quelli che sono, non quelli che vorremo che fossero. È a quest'uomo, non a uno
ideale e inesistente, che va proposta la salvezza portata dal Cristo.
La fortuna dei gesuiti, il loro successo in remote missioni e al contempo alla corte di re e imperatori
(un successo che li portò poi alla soppressione del 1773 per mano, guarda caso, di un Papa
francescano), quella fortuna fu il frutto di un carisma che lo stesso Bergoglio indica nel
«discernimento». Quello che i nemici della Compagnia chiamarono «ipocrisia», «opportunismo»,
«mimetismo» e i giansenisti «lassismo» e che invece, spiega lo stesso papa Francesco, «è la
consapevolezza che i grandi princìpi cristiani vanno incarnati secondo le varie circostanze di luogo,
di tempo, di persone». L'evangelizzazione sia flessibile e tenga conto della debolezza umana, «il
confessionale non sia una camera di tortura», per usare le parole testuali di Bergoglio. È proprio ciò
che ispirò quella casistica che, per i rigorosi, tutto sembrò accettare e giustificare e contro la quale
furono scagliate le Lettere provinciali di Blaise Pascal. Lettere che costituiscono un capolavoro
letterario ma un infortunio teologico per quel genio, pur straordinario e, ammesso che importi, assai
amato da chi qui scrive. Malgrado le esagerazioni (condannate poi dalla stessa Compagnia, prima
ancora che dalla Chiesa) avevano ragione i gesuiti: la misericordia, la comprensione, le raffinatezze
se non le acrobazie dialettiche per non escludere nessuno dalla comunione ecclesiale, furono e sono
mezzi di apostolato ben più efficaci che l'arcigna severità, il legalismo scritturale e canonico, il
moralismo implacabile, l'ortodossia usata come un randello. I rigoristi sono ossessionati dall'aut aut
— o questo o quello — mentre i gesuiti tentarono, sempre e dovunque, di praticare un et et — sia
questo che quello — che permetta al maggior numero possibile di creature di Dio di raggiungere la
salvezza eterna. Fu l'intransigenza di altri ordini che portò alla disastrosa rovina dell'inculturazione
del Vangelo tentata dalla Compagnia in Asia, in America, in Africa e che solo il Vaticano II doveva
riscoprire e valorizzare.
È da questo desiderio di convertire il mondo intero, usando il miele ben più che l'aceto, che deriva
una delle prospettive più convincenti tra quelle confidate dal Papa al confratello: il ritrovare, cioè, la
giusta gerarchia cristiana. I decenni postconciliari hanno visto, nella Chiesa, lo scontro sulle
conseguenze da trarre dalla fede: politiche, sociali e, soprattutto, morali. Ma della fede stessa, della
sua credibilità, del suo annuncio al mondo, ben pochi sembrano essersi preoccupati. Ben venga,
dunque, il richiamo del Vescovo di Roma: si ri-evangelizzi, annunciando la misericordia e la
speranza del Vangelo. Il resto seguirà. Non vi è, nelle sue parole, alcun cedimento sui cosiddetti
«princìpi non negoziabili» in materia etica. Ma vi è, giustamente, l'insistenza sulla doverosa
successione: prima la fede e poi la morale. Prima convochiamo, accogliamo e curiamo i feriti dalla
vita e poi, dopo che avranno conosciuto e sperimentato l'efficacia della misericordia del Cristo,
diamo loro lezioni di teologia, d'esegesi, d'etica. Una sfida, forse un rischio? Papa Francesco fa
capire di esserne consapevole ma di essere soprattutto consapevole dell'aiuto, che non potrà
mancare, di Chi lo ha scelto, pur lontano com'era dall'attenderlo e dal desiderarlo.

*

Così restano spiazzati gli orfani del ratzingerismo

di M. Faggioli
L’intervista di papa Francesco a padre Antonio Spadaro direttore di Civiltà Cattolica, tradotta e pubblicata simultaneamente per le riviste dei gesuiti in tutto il mondo, rivela molto, se non tutto, di Jorge Mario Bergoglio e di papa Francesco. La traduzione di un testo (e di un testo così lungo, quasi dodicimila parole in inglese) è sempre un atto di interpretazione, e come primo traduttore (dei cinque che hanno curato la versione in inglese) non è facile per il sottoscritto parlare dell’intervista del papa senza cadere nella tentazione di super-interpretare un testo che è molto trasparente e parla a tutti con immagini molto chiare: la chiesa come un ospedale da campo, il ministero pastorale come cura delle ferite, la fede cristiana come cammino.
L’eccezionalità del documento parla molto dell’eccezionalità del momento attuale nella storia della chiesa contemporanea. Un documento fuori dal comune per il genere letterario (ha il valore di un’enciclica più un’intervista), per il linguaggio adoperato (pastorale, ma fitto di riferimenti alla tradizione biblica e teologica), per la franchezza nel parlare dei fallimenti personali del papa di Roma (da giovanissimo e autoritario provinciale dei gesuiti, al papa che dice «non sono mai stato di destra»).
Si sbagliava chi pensava (anche tra i cardinali che lo hanno eletto) di ridurre papa Francesco alla figura transitoria e bonaria di uno sceriffo incaricato di far pulizia nella Curia romana. Bergoglio sta facendo pulizia anche nel linguaggio e nello stile della Chiesa, mettendo da parte le ideologizzazioni tipiche di un cattolicesimo comunitarista ed escludente, e togliendo parecchi alibi: ai profeti del connubio cattolicesimo-conservatorismo, agli avvocati di una modernizzazione tout court della Chiesa, e a quanti vedono nel cattolicesimo una tradizione spenta, ripiegata e rabbiosa nei loro confronti e della complicata vita reale della persona umana nel mondo di oggi.
L’effetto spiazzamento è particolarmente visibile nel mondo degli orfani del ratzingerismo, che è sempre stato assai meno raffinato di Ratzinger: Il Foglio e i para-lefebvriani qui in Italia come il vaticanista de L’Espresso (sic!) Sandro Magister; i latinizzanti nel vasto universo cattolico; gli apologeti dell’americanismo cattolico negli Usa (il filosofo Robert George, i vescovi Tobin e Chaput, ideologi come George Weigel). Dopo questa intervista è caduta ogni illusione di poter dimidiare il fattore Bergoglio e di poterne fare un comodo strumento per battaglie di parte: contro la Curia romana, contro Bertone, contro Ruini, e contro Benedetto XVI, se è per questo.
Moltissimi aspetti meriterebbero di essere ripresi e analizzati in questa autobiografia teologica del primo papa globale, sotto forma di una intervista lunga dodicimila parole: dal punto di vista teologico, il centro è l’idea di una Chiesa che si sottomette al Vangelo (non alle ideologie) e di una Chiesa che si concepisce come un ospedale da campo che accetta tutti i feriti e non solo quelli che vorrebbe avere, perché è essa stessa fatta di feriti.
Papa Francesco parla qui da ferito, da peccatore, prima che da medico e da papa. Fa ritorno l’idea di papa Giovanni XXIII di una Chiesa che deve usare «la medicina della misericordia», quella stessa misericordia che la Chiesa e i cristiani hanno usato con il giovane Bergoglio, specialmente nel periodo successivo al suo incarico di provinciale: un periodo di profondi ripensamenti, si direbbe quasi una crisi esistenziale all’interno del suo percorso di cristiano, di prete e di gesuita. I fallimenti personali di un papa, cristiano peccatore come gli altri, cessano di essere una figura retorica e diventano con questa intervista un elemento biograficamente tangibile, umanamente raccontabile, che non richiede procedure ermeneutiche particolari perché facile da ricondurre alla esperienza personale di ognuno.
Papa Francesco è stato eletto, sei mesi e una settimana fa, in uno dei momenti di debolezza più gravi nella storia del cattolicesimo contemporaneo: lo storico direbbe che dopo una lunga serie di 20 settembre 1870, the day after l’intervista di papa Francesco era finalmente il 20 settembre 2013. Il teologo direbbe, con san Paolo, «quando sono debole, è allora che sono forte».
*

Rassegna stampa:
- «Così riabilita migliaia di preti clandestini» (intervista a Alberto Melloni a cura di Andrea Tornielli in La Stampa) 
- Ma c'è chi teme l'argentino rivoluzionario (Marco Politi in il Fatto Quotidiano) 
- "Da noi la comunione è per tutti: risposati o gay" (Maria Teresa Martinengo in La Stampa) 
- Scongelare i cuori nella Chiesa? (Christine Pedotti in Témoignage Chrétien) 
- Modello ricorrente Nuovo dibattito sul celibato nella Chiesa cattolica (KNA (Katholische Nachrichten Agentur) in www.domradio.de) 
- "Vitalità della fede cattolica" (dpa, KNA e dr in www.domradio.de)

Le nomine del papa per cambiare la Curia   
Corriere della Sera - Rassegna "Fine settimana"
 
(Gian Guido Vecchi) Per Francesco è come sempre una giornata intensa: parla ai medici cattolici e dice che «il primo diritto di una persona è la sua vita» e «ogni bambino non nato, ma condannato ingiustamente ad essere abortito, ha il volto di Gesù Cristo», come pure  (...)


Editoriale - “Le Monde”- Rassegna "Fine settimana"
A sei mesi dalla sua elezione, papa Francesco prosegue, a piccoli passi, un aggiornamento, non del pensiero della Chiesa cattolica, ma del suo modo di essere nel mondo. In una lunga intervista concessa alle riviste gesuite di sedici paesi d'Europa e d'America, pubblicata (...)

 “Le Monde” - Rassegna "Fine settimana"
(Stéphanie Le Bars) In un nuovo esercizio di comunicazione, orchestrato dalla Compagnia di Gesù, di cui fa parte, papa Francesco ha precisato, giovedì 19 settembre, la sua visione della Chiesa, del suo governo e delle sue priorità. Pubblicata su sedici riviste gesuite di sedici (...)