sabato 14 settembre 2013

Nonsolosilvio 3


Dibattito dopo la lettera del Pontefice a Eugenio Scalfari. 

Il dibattito suscitato dalla lettera di Papa Francesco a Eugenio Scalfari dimostra che il rapporto fra credenti e non credenti è ben lontano da essere una questione dotta per pochi intellettuali — scrive Umberto Veronesi nel commento Perché non possiamo non ringraziare Francesco, pubblicato in prima pagina su «la Repubblica» del 14 settembre. «Non esiste donna o uomo — continua lo scienziato italiano — a cui non venga posta, da altri o dalla propria coscienza, la domanda: “E tu in che cosa credi?”. Io rispondo: “Credo non in Dio, ma nell’uomo”. E dopo aver letto attentamente la sua lettera, immagino che il Papa risponderebbe: “Credo in Dio e nell’uomo”. È quindi l’amore per l’uomo il punto di incontro fra Chiesa e laicità, ed è accanto all’uomo quel “tratto di strada insieme” che il Papa invita i laici a fare».
Secondo Joaquín Navarro-Valls «il vero motivo dominante» della lettera di Papa Francesco si ritrova nella prima domanda di Scalfari. «Pressappoco — scrive Navarro-Valls sullo stesso numero del quotidiano romano — era la seguente: com’è possibile conciliare i valori assoluti della fede con il relativismo della vita di oggi? Il Papa ha deciso di prendere il toro per le corna. Ha voluto cioè affrontare uno tra i dilemmi più critici e spettacolari della modernità, partendo dal significato verace e genuino che ha il credere per ogni semplice persona. Via gli orpelli culturali, via le maschere di appartenenza, per andare subito al nucleo essenziale che muove tantissime persone di oggi a sentirsi ancora attratte, interiormente ed esistenzialmente, dal cristianesimo. La fede nasce, questo ha detto Francesco, dall’incontro personale con Gesù». La fede, continua Navarro-Valls, «non nasce dal conformismo, e non si attua mediante una valida elaborazione ideologica e moralista. Con la stessa forza con cui ci si innamora continuamente tra esseri umani, ci si innamora pienamente e totalmente di Dio».
Già subito dopo la pubblicazione della lettera, su «la Repubblica» del 12 settembre scorso, il rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni, aveva affermato: «Questo pontificato non smette di sorprendere, ma le idee che Francesco esprime non sono certamente eterodosse. Sono presenti nella tradizione cristiana o si sono affermate più recentemente sulla scia del Concilio come dialogo e tolleranza, ma è la forza con cui le esprime e la capacità di trovare ascolto e risonanza che stupisce». E «il fatto che l’ebraismo sia radice santa del cristianesimo è fondamentale» sottolinea Di Segni riferendosi ai contenuti della lettera e ricordando come questa non sia un’idea condivisa da tutti i cristiani. «Opponendosi a queste correnti — continua — Francesco è coerente con il magistero di Benedetto. Decisamente notevole è l’espressione di gratitudine agli ebrei per la loro perseveranza nella fede», che, nota il rabbino, così «diventa un modello per i cristiani e per l’umanità, e questa è una svolta non improvvisa ma molto significativa di cui anche gli ebrei dovranno prendere coscienza».
Il dialogo con i non credenti non è un «accessorio secondario», ribadisce padre Laurent Mazas, direttore esecutivo del Cortile dei gentili, rispondendo a Sébastien Maillard in un’intervista pubblicata sul quotidiano francese «la Croix» del 12 settembre e dedicata all’approfondimento delle ragioni per cui il dialogo con i non credenti è necessario e prezioso. E, in un commento per «La Razón» del 13 settembre, Darío Menor ha scritto che con il suo gesto «Papa Francesco ha sedotto un buon numero di intellettuali atei o agnostici».
L'Osservatore Romano

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Dialoghi e digiuni

di F. Agnoli
Mi sono chiesto più volte, in questi giorni, se un cattolico può riconoscere una positività in pratiche, come il digiuno, proprie di altre fedi, e se, d’altra parte, abbia senso chiedere a dei non cristiani di “partecipare” ad un digiuno in cui si chiede al Dio di Abramo e di Cristo di scongiurare la guerra.
La domanda nasce da una concezione che a me sembra errata della parola “dialogo”:da una parte, per il pensiero dominante, le religioni sono tutte uguali ed interscambiabili (ma allora che senso ha dialogare tra equivalenti?); dall’altra, per alcuni, ogni riconoscimento ad altre confessioni  (ma sarebbe più corretto dire ad elementi presenti in altre confessioni), è di per sé portatore di indifferentismo e relativismo religioso, e perciò condannabile.  Ho creduto di poter rispondere, per quello che ho capito, che non è errato per un cattolico riconoscere “frutti spirituali” (che non significa soprannaturali) anche al digiuno “non cattolico” (escludendo qui, ovviamente, la parodia radicale).
L’argomentazione poggia sulla Tradizione stessa della Chiesa, che ha sempre riconosciuto alla religiosità in senso lato una sua importanza. I vecchi catechismi contenevano spesso, infatti, un elogio alle società pre-cristiane, persino politeiste. Scrive per esempio il Dragone, commentando il I comandamento, in modo elogiativo: “Solone ad Atene, Licurgo a Sparta… non trovarono alle loro leggi base più sicura della religione”. Altri commentatori, per introdurre il I comandamento, citano spesso la frase di Plutarco: “più facile trovare una città senza mura che una città senza dei”.
L’atteggiamento dei primi cristiani verso il paganesimo è ambivalente: la condanna netta dell’idolatria, in nome della Verità rivelata e assoluta, convive con l’apprezzamento verso ciò che di “naturalmente cristiano” è contenuto in ogni cultura. E’ questo l’atteggiamento di san Paolo, quando agli ateniesi pagani dice: «Cittadini ateniesi, vedo che in tutto siete molto timorati degli dei. Passando infatti e osservando i monumenti del vostro culto, ho trovato anche un’ara con l’iscrizione: Al Dio ignoto. Quello che voi adorate senza conoscere, io ve lo annunzio”.   Analogamentepossiamo rammentare, con Marta Sordi, la stima del martire Giustino (II sec.) per lo stoico Musonio Rufo, vissuto il secolo precedente e da lui chiamato “martire inconsapevole di Cristo”, e il giudizio di Tertulliano su Seneca, definito saepe noster (spesso nostro)Così molti secoli dopo gli “dei falsi e bugiardi” di Roma, per intenderci, non impediscono a Dante di scegliere come guida nei primi due mondi un pagano come Virgilio, e neppure di prendere dalla mitologia classica insegnamenti e figure.
Da Roma e dalla Grecia i cristiani prendono tutto ciò che possono (è il “sacro furto” di cui parla sant’Agostino): sino a copiare e salvare, in buona parte, il rito del matrimonio; sino a cambiare il segno di molte feste pagane, adottandole e trasformandole nello stesso tempo, come quando si vaglia con il setaccio la farina buona e si butta quella cattiva. E’ partendo da questo atteggiamento che si comprende perché siano stati i monaci a salvare tutto il patrimonio del mondo antico, pagano e politeista. Nulla dunque di più lontano dai cattolici dell’ignorare una capacità di dialogo con gli altri.
Per comprendere meglio, si può pensare anche alla grande tradizione dei missionari. Nella storia della Chiesa i missionari lasciano il proprio paese, la propria cultura, le proprie abitudini, per abbracciare usi, costumi, lingua di altri popoli, sino a sentirsi cinesi tra i cinesi, africani tra gli africani… Si pensi solo al fatto che sono stati i missionari europei, spesso, coloro che hanno scritto le prime grammatiche delle lingue più strane e disparate. I missionari portavano, è vero, qualcosa di irrinunciabile: Cristo. Ma in che modo? Con estrema cautela, prudenza, carità, cercando nelle culture con cui venivano a contatto di cogliere anche il positivo, per partire da esso. Per usarlo come base per instaurare un confronto. Nelle lettere di questi uomini troviamo mescolati la condanna ferma e forte di tante pratiche disumane ed anti cristiane, ma anche la lode per il sentimento religioso di alcuni popoli, o per la loro propensione verso questa o quella virtù. “Il rifiuto di tutto ciò che non è cristiano -mi dice un teologo dei Francescani dell’Immacolata- è propriamente protestante, non cattolico”.
Si può dunque dire che la ricerca “di ciò che (di buono) unisce”, compresa la valorizzazione umana di pratiche come il digiuno o l’elemosina presenti in altre fedi, appartiene proprio alla Tradizione della Chiesa; con la precisazione che il mandato di evangelizzare, dato da Cristo, è ineludibile, e impedisce di fermarsi lì, o di professare l’idea dei “cristiani anonimi” di Karl Rahner (per la quale, in fin dei conti, “mestier non era parturir Maria”), imponendo invece di far brillare, con la mitezza e l’umiltà di Cristo, la Verità della Rivelazione.
Fare della Verità ricevuta un possesso geloso, o un motivo di superbia e di arroganza, come pure misconoscere il dono ricevuto, negandolo, nascondendolo, svalutandolo, sono entrambi atteggiamenti, se ho ben compreso, non cattolici. Il Foglio, 12 settembre