martedì 17 settembre 2013

La lezione di Francesco sul Potere




Il  tweet di Papa Francesco: "Ci sono tanti bisognosi nel mondo d'oggi. Sono chiuso nelle mie cose, o mi accorgo di chi ha bisogno di aiuto?" (17 settembre 2013)

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Bastonate apostoliche di Francesco all’antipolitica (e pure ai preti d’ufficio)

“Apri il giornale e bastonano, guardi la tv e bastonano. Sempre il male, sempre contro. C’è l’abitudine di dire solo male dei governanti e fare chiacchiere sulle cose che non vanno bene”. Troppo comodo, insomma, giudicare chi ci governa stando seduti in poltrona, salendo sui tetti, organizzando sit-in o riempiendo le piazze con bandiere e slogan di protesta più o meno volgari, senza “dare il nostro contributo”, limitandosi a dire “io non c’entro, sono loro che governano”. Il rapporto tra governante e governato è stato al centro dell’omelia pronunciata ieri mattina dal Papa, poco dopo l’alba, nella piccola cappella di Santa Marta. “Tante volte abbiamo sentito che un buon cattolico non si immischia in politica, ma questo non è vero”, ha aggiunto. “Un buon cattolico si immischia in politica, offrendo il meglio di sé, perché il governante possa governare”. Insomma, chi in questi anni fosse diventato sostenitore del patriota dannunziano Guido Keller che dopo l’impresa di Fiume gettò dal proprio aereo un pitale colmo di rape e carote su Montecitorio, farebbe bene a ripassare la dottrina sociale della chiesa cattolica, secondo la quale “la politica è una delle più alte forme della carità”. Il cittadino, dunque, “non può lavarsene le mani”, benché ormai “ci sia l’abitudine di pensare che dei governanti si deve solo chiacchierare, parlare male di loro e delle cose che non vanno bene”. Certo, la tentazione di dire che quel politico “è una cattiva persona che deve andare all’Inferno”, c’è e spesso è pure forte. Ma il cattolico deve pregare anche per il proprio governante (che deve essere umile e amare il suo popolo), “e non lo dico io, ma san Paolo”, ha precisato Bergoglio.

“Alla chiesa serve coraggiosa creatività”

Poco dopo, a bordo della Ford Focus blu, Francesco ha raggiunto San Giovanni in Laterano per l’incontro con il clero romano. Alla chiesa, ha detto rispondendo alle domande delle centinaia di sacerdoti presenti, “serve conversione pastorale e coraggiosa creatività”. Bisogna “cercare strade nuove”, far sì che la chiesa sia sempre più accogliente. Basta con quelli che “in parrocchia sono più preoccupati di chiedere soldi per un certificato che al Sacramento”, ha aggiunto. Così facendo, “si allontana la gente”. C’è necessità, invece, di più “accoglienza cordiale”, e il prete misericordioso deve essere il primo a farsene carico. Non è più tempo di sacerdoti “rigoristi e lassisti”, anzi, da loro bisogna guardarsi bene. Il prete deve sentire “la fatica del lavoro”, perché “la conversione si fa in strada, non in laboratorio”. Infine, ribadendo quanto già detto a bordo dell’aereo Rio-Roma lo scorso luglio, “la chiesa deve fare qualcosa per risolvere i problemi delle nullità matrimoniali. Ridurre la questione al divieto o meno di fare la comunione significa non comprendere il vero problema”. Al clero di Roma Francesco ripete quanto disse, cinque anni fa, ai sacerdoti di Buenos Aires. Non a caso, prima dell’incontro di ieri, ha voluto che il cardinale vicario Agostino Vallini distribuisse ai preti romani il testo da lui preparato in quella occasione. Poche pagine che riprendevano i punti salienti del documento che chiudeva la V Conferenza dell’episcopato latinoamericano di Aparecida, e che aveva in Bergoglio il presidente del comitato di redazione. E’ lì, spiegava il futuro Papa, che si delinea la chiesa del futuro. In quei paragrafi si leggono i presupposti per la grande missione di nuova evangelizzazione da portare avanti nel Ventunesimo secolo. Un programma, disse lui stesso sei anni fa, che andava ben oltre i confini del Sudamerica.
M. Matzuzzi (Il Foglio)

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La lezione di Francesco sul Potere
di Franca D'Agostini
in “La Stampa” del 16 settembre 2013
Sembra ormai chiaro che il Papa sta dando una lezione: agli intellettuali, ai politici, alle gerarchie 
ecclesiastiche. E la lezione è metodologica, prima che dottrinale: l'hanno sottolineato indirettamente
Gian Enrico Rusconi sulla Stampa (12/8) ed esplicitamente Vito Mancuso su Repubblica (13/8). La 
dottrina che il Papa difende è infatti molto simile a quella del cardinale Martini, come è stato detto, 
ma direi di più: non è lontana in fondo da ciò che è noto a qualunque fedele cattolico, non distratto 
da questioni politiche contestuali (famiglia, aborto, evoluzione, omosessualità, ecc.). Mentre 
l'insegnamento nuovo consiste piuttosto in quel che Francesco fa ed è.
Però occorre capire bene quale sia in definitiva questa lezione impartita per via metodologica Che 
cosa, in sintesi, il Papa sta insegnando? L'ipotesi che vorrei suggerire è che Francesco sta dando una
lezione sul potere: che cosa è, come si esercita, quale è il suo scopo autentico. Tema di primario 
interesse in un momento storico come questo, in cui si celebra, come dice Mosés Naïm La fine del 
potere (Mondadori, 2013).
Va precisato che non è una lezione di strategia, ma di concettualità pura e semplice: che cosa è il 
potere? perché esiste questa parola nella nostra lingua? e come possiamo mantenerci fedeli alle 
ragioni per cui l'abbiamo creata? Nella sua lettera a Eugenio Scalfari c'è infatti una «spia» che credo
sia piuttosto importante, e che è passata, mi sembra, del tutto inosservata. È il punto in cui 
Francesco scrive: «bisogna intendersi bene sui termini e, forse, per uscire dalle strettoie di una 
contrapposizione assoluta» (tra credenti e non credenti) occorre «reimpostare in profondità la 
questione». Notate la doppia proposta intendersi sui termini, e andare in profondità. La prima parte 
della lezione è dunque chiara se qualcuno si trova nella posizione di dover riflettere su un 
disaccordo irriducibile, e se ha la possibilità (il potere) di comporlo, la prima cosa da fare è vedere 
se non si tratta di un disaccordo verbale, di concetti, e parole; la seconda è andare alle origini, 
vedere che cosa c'è sotto, perché se il confronto è onesto, «nel fondo» c'è la possibilità di accordo. È
una lezione semplicissima, ed è il metodo che comunemente si mette in opera in filosofia, che è 
appunto lavoro sui concetti e sui cosiddetti «fondamenti». Dunque la prima parte della lezione ci 
ricorda che se siamo in democrazia, esercitare il potere in casi di disaccordi irriducibili significa 
«fare filosofia». D'altra parte il suo predecessore l'aveva già indicato. Uno dei requisiti portanti del 
magistero di Ratzinger è stato «l'appropriazione della filosofia» (parole sue) da parte della Chiesa. È
peraltro la tesi che guida il lavoro della patristica (una parte della storia della teologia cristiana con 
cui Ratzinger è particolarmente simpatetico), perché proprio questo fecero i Padri, impegnati a 
chiarire e difendere il messaggio evangelico: si «appropriarono» del logos greco. La differenza 
rispetto al Papa precedente sta nel fatto che Francesco non teorizza questa appropriazione, ma la 
mette in opera, tanto è vero che la sua lettera a Scalfari è piena di «stipulazioni» concettuali 
riguardanti i fondamenti. Di qui per esempio la scelta della definizione di verità come «relazione», 
definizione ben nota in filosofia, e tipicamente capace di catturare l'attenzione degli scettici.
La seconda parte della lezione riguarda direttamente l'idea di potere. Francesco dice che autorità è 
l'«exousia», che vuol dire: proveniente dall'essere (ousia). Proprio perché proviene dall'essere, 
scrive il Papa, l'autorità «si impone da sé», non ha bisogno di grande sforzo per esprimersi. Sul 
piano filosofico e dottrinale può essere un'acquisizione che ha qualche antecedente, ma non conta: 
anche in questo caso il genio di Francesco è stato farne non il contenuto ma lo stile del suo 
magistero. Come sappiamo infatti Bergoglio ha compiuto una prima e fondamentale operazione: 
rimanere se stesso, con le sue scarpe e le sue abitudini, lasciando che fosse il suo semplice essere a 
essere autorevole.
Infine, la terza lezione è la più importante, e investe una definizione di potere che i filosofi tardomoderni della politica, educati da Machiavelli, Schmitt, Weber, non hanno mai seriamente preso in 

considerazione. E la definizione è questa: il vero potere, il più alto, quello rispetto al quale tutti gli