giovedì 12 settembre 2013

"Ero Bergoglio, sono Francesco"


Il libro di Cristian Martini Grimaldi: "Ero Bergoglio, sono Francesco". Introduzione di Giovanni Maria Vian

Immagini e parole. Immagini e parole raccolte a Buenos Aires — a poche ore dall’annuncio dell’elezione di Papa Francesco — per raccontare la gioia del popolo argentino e per capire meglio chi è Jorge Mario Bergoglio dalle testimonianze di chi ha vissuto con lui per anni. Questo, in sintesi, il libro di Cristian Martini Grimaldi "Ero Bergoglio, sono Francesco" (Venezia, Marsilio, 2013, pagine 111, euro 12), che raccoglie una serie di foto e articoli realizzati per l'Osservatore Romano.  Di seguito l’introduzione del  direttore e il capitolo conclusivo del libro.
*Introduzione di Giovanni Maria Vian. Sei mesi fa, il 13 marzo, l’elezione del cardinale arcivescovo di Buenos Aires - Reportage dalla fine del mondo.
«Ho capito che il nuovo Papa verrà da lontano. Non importa da dove, io sarei disposto ad andarci subito e a scriverne per l’Osservatore». Come spesso era accaduto con Cristian Martini Grimaldi, collaboratore del giornale tanto brusco quanto timido, la proposta non era arrivata direttamente e mi aveva preso alla sprovvista. Erano i primissimi giorni di una sede vacante il cui inizio per la prima volta nella storia era stato annunciato con precisione: alle 20 del 28 febbraio. E non per qualche prodigioso vaticinio, ma perché era stato lo stesso Pontefice regnante — come fino a qualche decennio fa si diceva — ad annunciare la sua rinuncia la mattina dell’11 febbraio, giorno grigio e freddo.
Ho tergiversato un po’. Per le ristrettezze di bilancio non potevo offrire a Cristian altro che i compensi per gli articoli, ma già avevamo sperimentato la sua disinvoltura e la pratica di viaggi anche in capo al mondo da cui erano venuti pezzi punteggiati di curiosità e intelligenza. Poi la sua idea un po’ rétro di partire allo sbaraglio come un inviato di altri tempi — insieme alla convinzione, intuitiva ma così misteriosamente sicura, della provenienza dell’eletto — ha avuto la meglio, in tutti i sensi. Il 13 marzo, subito dopo l’inequivoca e gagliarda fumata bianca delle 19.06, nel cielo buio di una sera gelida e piovosa, Martini Grimaldi si è precipitato in piazza San Pietro, poi subito a casa e di lì in aeroporto, per partire all’alba. E ventiquattro ore dopo era a Buenos Aires.
Sono nati così i racconti immediati e vividi che tra il 16 marzo e il 6 aprile sono usciti sull’Osservatore Romano, ora rielaborati e integrati in questo vero e proprio reportage dalla “fine del mondo” che racconta il nuovo Papa. Che per alcuni aspetti è davvero un Papa nuovo, pur nella continuità di fondo che percorre le successioni nella sede romana: anche le più rivoluzionarie, secondo un’incessante capacità di rimettersi in gioco.
Mai infatti un vescovo di Roma era venuto da fuori del mondo mediterraneo, mai da quasi tredici secoli era stato scelto fuori dai confini europei, mai era stato eletto un gesuita, mai un successore dell’apostolo Pietro aveva assunto un nome che, pur non appartenendo in origine alla tradizione cristiana, comunica con immediatezza anche ai non cattolici la radicalità evangelica nel richiamo al santo di Assisi, definito dalle fonti medievali alter Christus, un secondo Cristo.
Da queste pagine Jorge Mario Bergoglio emerge con pochi tratti, quasi lampi nella notte delle periferie di Buenos Aires che l’arcivescovo attraversava. Davvero «preso alla fine del mondo», secondo l’espressione efficace e pertinente che ha usato appena eletto per presentarsi urbi et orbi, alla città di Roma, sua diocesi, e al mondo. Ed è un uomo vivo, quasi in presa diretta, disegnato dai cenni di un giornalaio o dalla conversazione con giovani strappati alla droga.
Nel libro, dunque, Bergoglio e il suo mondo sono protagonisti di un racconto senza filtri, costruito con le parole di chi gli è stato vicino o lo ha incontrato — collaboratori, gente semplice, confratelli, maestre, professori, che Martini Grimaldi ha cercato e conosciuto — e con l’aiuto di fotografie, anche inedite e rare. Così poco viste che lo stesso Papa Francesco non le conosceva, come ha notato nel vederle pubblicate sull’Osservatore Romano, che ogni giorno legge. Arrivando a prendere in mano la penna per ringraziare uno degli intervistati per quanto aveva raccontato al giovane venuto dall’Italia per capire.
Riconoscimento di amicizia, certo, ma che vale un imprimatur, inatteso e tanto più gradito.
Venti giorni per conoscere il nuovo vescovo di Roma
Cristian Martini Grimaldi

Il secondo giorno dopo essere arrivato nella capitale argentina incontro un giornalista di Buenos Aires che mi dice: «In questi giorni festeggiamo il Santo Padre come fosse il prete di quartiere di ciascuno di noi». È come se esistesse un vincolo diretto tra il popolo argentino e l’ormai ex cardinale. Globale e locale al tempo stesso. Un Papa dunque di assoluta modernità.
Figlio di emigranti in terra di immigrati, Bergoglio è naturalmente portato a convivere con le differenze — di lingua, di cultura, di religione — e conseguentemente ad avversare le chiusure, i confinamenti, pronto ad assumere uno sguardo aperto sul mondo. Il modello auspicato da Bergoglio non è la sfera — dove tutti i punti essendo equidistanti dal centro si livellano annullandosi — ma è il poliedro, dove tutte le parzialità mantengono sia l’unità che la loro particolarità.
Nel 2007, alla quinta conferenza generale dell’episcopato latinoamericano e dei Caraibi tenuta ad Aparecida in Brasile, Bergoglio venne eletto a grandissima maggioranza presidente della strategica commissione redattrice del documento finale, e nel documento si auspicava di trasformare la Chiesa in una comunità più missionaria.
Non è un caso che in gioventù avesse desiderato andare missionario in Giappone (rinunciò a causa della nota malattia), la sua è sempre stata una vocazione nutrita dalla passione per l’incontro con le altre culture. Un Papa che da arcivescovo, nella lettera pastorale per l’apertura dell’Anno della fede, chiede ai parroci di andare a sperimentare l’unzione nelle periferie, perché non è nelle pratiche introspettive e autoreferenziali che si può incontrare il Signore. Ma non sono solo parole dirette ai parroci, il suo sembra infatti anche un avviso ai naviganti, a quelli che spendono gran parte del loro tempo “chiusi” in rete: hacen falta pastores con olor a oveja, abbiamo bisogno di avere lo stesso odore delle pecore, e l’esperienza dell’odore la si fa sul campo.
L’invito a fare esperienza della periferia di cui parla Bergoglio è dunque anche un invito a non lasciarci schiacciare nella routine casalinga e lavorativa, per allargare e approfondire la nostra consapevolezza, sollecitare l’esercizio di vecchie abitudini troppo a lungo trascurate, mettere da parte l’uso di certi strumenti accentratori e autoreferenziali e ricalibrare le nostre vite su pratiche più concrete.
Per questo Bergoglio — a colloquio con Abraham Skorka — dice di guardare negli occhi coloro a cui si fa l’elemosina e di toccare con mano il mendicante per strada. È un invito a mettere da parte l’illusione di poter cancellare le distanze attraverso mediazioni e strumenti grazie ai quali con facilità e poco sforzo pensiamo di ripulirci la coscienza, perché le distanze invece esistono, sono reali, e vanno colmate per essere pienamente comprese nelle loro tragiche dimensioni. Il suo è un linguaggio “fisico”, un lessico ricco di termini organici — carne, occhio, mano — perché la vicinanza con gli “ultimi” deve essere concreta, letteralmente epidermica.
La periferia, sinonimo di povertà, è anche metafora della profondità, dell’uscita dai condizionamenti, dalle abitudini, dalle dipendenze — anche tecnologiche — che appiattiscono le nostre esistenze, tanto che il 16 ottobre del 2010, in occasione della tredicesima giornata pastorale sociale, Bergoglio pronuncia parole di critica contro l’abuso del sofisma quale modalità artificiosa di comunicazione sempre più diffusa nel quotidiano. Il sofisma è un espediente tipico del mondo dei social network. Il sofisma inganna stravolgendo la verità, è una forma di seduzione a effetto che rifugge, scavalcandolo, il confronto dialogico di idee.
Insomma, l’invito di Bergoglio è quello di provare a rinunciare al piacere di essere alla moda usando parole alla moda, di provare a difenderci dal contagio di “parole vuote” senza “memoria”, che non hanno alcun legame con la nostra interiorità più profonda, ma sono solo automatismi condizionati da un linguaggio corrivo sempre più asfittico. Dunque la sua è un’esortazione a svincolarci dalle costrizioni psicologiche generate dalle tendenze conformiste del momento, di cui le nostre vite sembra non possano più fare a meno e che rischiano di atrofizzare, di assorbire, la nostra naturale capacità di connetterci fisicamente e spiritualmente con l’altro e di maturare quell’esperienza d’amore che è il senso di tutta una vita.
Nei venti giorni passati a Buenos Aires, mi sono fatto una mia idea personale dell’uomo Bergoglio, frutto però dei numerosi dialoghi avuti con la gente comune, e con i tanti amici e colleghi del Santo Padre. Come mi scrisse in una corrispondenza privata padre Vendramin, Bergoglio è un uomo che parla più con i gesti che con le parole. Rifugge dalle teorizzazioni, e quando parla utilizza spesso un linguaggio metaforico tipico delle parabole, aneddoti, esperienze personali, storie riferite, anche citazioni di film, eventi simbolo che hanno lo scopo di esemplificare un atteggiamento morale, un insegnamento, o semplicemente di rendere più eloquente il proprio pensiero. Perché è solo attraverso una testimonianza di vita vissuta che si “umanizza” un concetto, e si evita così il rischio della vuota retorica, della predicazione moraleggiante.
Un uomo pragmatico, Bergoglio, che molta importanza dà al lavoro manuale («il bello del lavoro è che si vedono i risultati e ci si sente divini») perché per i poveri, per i quali tanto si è impegnato, spesso il lavoro manuale è l’unica via d’uscita da una vita di miseria e stenti.
Ma anche un uomo dalla grande carica spirituale, una figura guida, conforto e accudimento spirituale di molti di coloro che ho intervistato. La preghiera è il suo costante sostegno. Quel “reza por mi!”, cifra caratterizzante tutti gli interventi scritti e orali di Bergoglio, è il chiaro segno di una necessità profonda. Più sono alte le nostre responsabilità, più è grande il nostro “potere”, maggiormente sentiamo il bisogno di trovare conforto e incoraggiamento attraverso la preghiera.
La preghiera sostiene spiritualmente e moralmente colui che la pratica, aiuta la concentrazione, rinvigorisce la volontà. La preghiera è un esercizio che intensifica l’esperienza religiosa. Sta all’energia mentale e spirituale di un pastore esattamente come l’esercizio in palestra sta al mantenimento fisico di una persona che usa il corpo come principale strumento di lavoro.
La preghiera nel mondo odierno, dove si preferisce investire il proprio tempo per uno scopo immediatamente conseguibile, sembra non avere più alcun senso, perché non è funzionale a dare un risultato nell’immediato. Ma «l’anima» scrive Romano Guardini «deve apprendere a non vedere dovunque scopi, a non essere troppo sensibile ai motivi utilitari [...] bensì deve sapere anche vivere semplicemente. Essa deve apprendere a liberarsi almeno nella preghiera dalla irrequietudine dell’attività utilitaria, imparare a esser prodiga di tempo per Dio, deve trovare parole e pensieri e gesti per il santo gioco senza domandarsi a ogni momento: a che scopo e perché? [...] Da ultimo anche la vita eterna non sarà che il compimento di questo gioco. E chi non comprende questo potrà afferrare poi che il compimento celeste della nostra vita è un cantico eterno di lode?».
La società che Papa Francesco immagina attraverso i suoi discorsi, le sue omelie, le sue interviste (quando era cardinale) è una società improntata al rinnovamento del valore del silenzio e delle pause — intese come spazi di discontinuità dal quotidiano affanno da dedicare alla riflessione e allo stare in famiglia — e all’incontro con l’altro in carne e ossa.
Sentiamo spesso pronunciare la parola “umiltà”, Papa Francesco con la sua storia dimostra che l’umiltà la si può praticare, e che questa umiltà non nuoce ai grandi obiettivi. Anzi, li può incoraggiare. L’uomo affacciato a San Pietro, vestito di bianco, con la sua vecchia croce da vescovo al collo, emana una solennità naturale, e questa è umiltà incarnata.
Mi ha detto il rettore della cattedrale di Buenos Aires, Alejandro Russo: «Il Santo Padre non ha una ricetta politica o economica per risolvere i problemi del mondo, ma ha una cosa più importante: ha lo spirito della ricetta».
E quello di Jorge Mario Bergoglio è uno spirito costruito e maturato attraverso la pratica, quella pratica che lo ha portato vicino ai poveri e agli emarginati delle baraccopoli («il pastore che si isola non è un pastore ma un parrucchiere»). I poveri di un Paese in via di sviluppo, un Paese pieno di contraddizioni — che ha le potenzialità per sfamare oltre trecento milioni di persone e non riesce a evitare che in milioni patiscano per la denutrizione — ma anche un Paese forte di una grande spiritualità popolare. Il gesto di Bergoglio, subito dopo la sua elezione, di andare a pregare davanti all’immagine più importante della Vergine a Roma, la Salus populi Romani, è un gesto che imita una consuetudine radicata nel suo popolo. Il pellegrinaggio dei giovani a Luján, la più grande manifestazione di fede popolare in Argentina e dunque in questo gesto c’è tutta l’argentinità di Bergoglio.
Per concludere, mi piace riprendere una risposta che padre Russo diede durante una conferenza stampa due giorni dopo l’elezione di Papa Francesco. Una giornalista accennò alla vicenda della presa di posizione di Bergoglio riguardo al battesimo che alcuni preti si rifiutavano di dare ai figli di coppie non sposate o ai figli di madri nubili. Russo disse che da quella vicenda emergevano due parole con le quali si può riassumere il profilo del Santo Padre: verità e misericordia, due parole che nella Chiesa vanno intrinsecamente unite.
La verità è il deposito di fede, di relazioni, di insegnamenti che Gesù Cristo ci ha dato, e che deve essere usato con misericordia. Male interpretando un requisito canonico, alcuni preti non battezzavano i bambini nati da coppie non regolarmente sposate. Bergoglio dice che non si può negare il battesimo in nessun caso. Se la verità della Chiesa non è applicata con misericordia, allora quella, semplicemente, non è la verità.

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La veglia in piazza San Pietro e la missione di Papa Francesco. La forza del silenzio.

(Lucetta Scaraffia) Una stupenda serata romana di fine estate ha fatto da perfetta cornice alla veglia per la pace di sabato sera in piazza San Pietro, senza dubbio un momento forte del pontificato di Papa Francesco, anche perché si è svolta in contemporanea con eventi analoghi in tanti Paesi del mondo. E questo irradiamento mondiale si sentiva, ampliando l’eco delle preghiere ma soprattutto dei silenzi.Sono stati i lunghi momenti di silenzio, infatti, a far sentire la forza di questo incontro: momenti durante i quali veramente non si sentiva volare una mosca, anche se gremita era non solo la piazza, ma anche via della Conciliazione fino al Tevere, da persone che hanno resistito per tutte le quattro ore della veglia, compattamente. Soprattutto il tempo dedicato alla muta adorazione del Santissimo è stato intenso, e si è sentita, anzi quasi toccata la potenza della preghiera, la forza della richiesta di pace da parte di tanti credenti riuniti a Roma e nel mondo.
Si sentiva che il messaggio di Papa Francesco è passato: basta con l’acquiescenza passiva, basta con la rassegnazione di fronte alle violenze e all’ingiustizia. Ogni fedele, con la preghiera e con la penitenza, può cambiare il mondo. Soprattutto se comincia a portare la pace nel piccolo spicchio di mondo dove si trova a vivere.
La missione di Francesco è soprattutto quella di risvegliare la chiamata di ogni cristiano e di dare un senso attivo alla vita di ognuno. Una delle frasi più significative della meditazione del Papa è stata infatti quella in cui dice che non sono normali la violenza e la sopraffazione per interessi privati, cioè che bisogna risvegliarsi da una passività giustificata da un superficiale pessimismo e scuotere gli esseri umani, convinti che l’utilità egoistica sia il fine abituale dell’agire umano.
È una sorta di sveglia, di allarme che lancia a un’umanità rassegnata e immobile, come ha già fatto più volte riferendosi alla Chiesa. Papa Francesco sa che la Chiesa fa parte del mondo, e non si può purificarla senza cambiare con forza l’atteggiamento dei credenti di fronte al mondo.
La risposta al suo appello, da parte di credenti e non credenti, a Roma come in tutto il mondo, è stata superiore alle aspettative. Si direbbe quasi che ci fosse una speranza nascosta nel cuore di gran parte dell’umanità, che aspettava solo una voce che la risvegliasse.
Ne dovranno tenere conto i capi di Stato dei Paesi democratici, ma anche gli altri: l’aria sta cambiando, anche la crisi ha costretto a ripensare in modo critico a un’etica del profitto individuale, del piacere egoistico, e c’è una maggiore disponibilità, forse, a pensare anche agli altri.
L'Osservatore Romano