sabato 28 settembre 2013

E Paolo VI riformò la Curia



Convegno a Concesio. Fu il concilio a chiedere il rinnovamento poi preparato e attuato dal Papa. E Paolo VI riformò la Curia

Pubblichiamo, in una nostra traduzione, stralci di una delle relazioni della prima sessione dei lavori del convegno «Il concilio e Paolo VI. A cinquant’anni dal Vaticano II» che si tiene nella sede dell’Istituto Paolo VI a Concesio (Brescia) dal 27 al 29 settembre.
(Evelyne Maurice, Facultés Jésuites de Paris) Il concilio è molto chiaro: chiede una vera riforma della Curia e ciò emerge a tutti i livelli del suo lavoro. Già nella fase ante-preparatoria, nelle risposte dei vescovi pervenute da tutto il mondo, questo tema si ripresenta spesso.
S’insiste sulla riorganizzazione di alcuni dicasteri — per esempio il Sant’Uffizio o Propaganda — su un decentramento necessario per accogliere i vescovi residenziali, su una maggiore internazionalizzazione, sulla diminuzione del numero dei vescovi titolari nella Curia e sul possibile aumento dei laici, su una migliore articolazione della funzione dei nunzi e sui loro rapporti con i vescovi, sulla natura del potere propria dei dicasteri romani.
Bisogna aggiungere che nessuno nega il considerevole lavoro svolto dai dicasteri durante la preparazione del Vaticano II e neppure i servizi resi nel corso delle sessioni e delle inter-sessioni. Paolo VI osserva tutto ciò da fine conoscitore di questa istituzione nella quale ha passato buona parte della sua vita e che ha potuto valutare con un certo distacco quando era arcivescovo di Milano. Tutto ciò gli consente di avere una visione completa del suo funzionamento: l’ha servita e ne ha tratto la parte migliore.
È dunque perfettamente in grado di discernere ciò che è efficace, ciò che è precario, ciò che è troppo umano. Dopo quattro anni di lavoro assiduo diretto personalmente dal Papa, la commissione cardinalizia emette le sue conclusioni. Sebbene la mancanza di tempo non ci consenta di proseguire l’analisi, dobbiamo segnalare subito che questa riforma è preceduta dalla creazione del Sinodo dei vescovi, il 15 settembre 1965 (con il motuproprio Apostolica sollicitudo), decisione senza precedenti nella Chiesa romana.
La riforma è progressiva. La riorganizzazione inizia fin dal 1965. Nel suo discorso del 24 giugno 1967 al Sacro Collegio Paolo VI, da fine stratega, prepara le menti e i cuori a un’adesione serena al rinnovamento. Invita i suoi interlocutori a essere collaboratori disinteressati e strumenti competenti per il grande lavoro che attende la Chiesa. Si tratta di mettere in atto le decisioni conciliari. Il 15 agosto 1967 viene promulgata la costituzione apostolica Regimini ecclesiae universae. Fedele all’annuncio fatto dal Santo Padre nel 1963, questa costituzione offre le linee essenziali per la riorganizzazione e la modernizzazione. Alcuni organismi vengono rinnovati e assumono una struttura più attuale. Altri perdono la propria autonomia per essere integrati in diversi dicasteri secondo le necessità del ministero. La Segreteria di Stato assume un’importanza ancora più grande, in quanto Segreteria del Santo Padre.
Il Papa ha voluto esaudire quanto auspicato dal concilio. La Curia assume una fisionomia più internazionale, come a prolungare l’esperienza universale degli anni conciliari. Alcuni vescovi residenziali vengono nominati nei dicasteri e possono quindi intervenire nelle decisioni da prendere. Viene introdotto un limite di cinque anni per le funzioni dei capi dei diversi dicasteri, con dimissioni automatiche alla morte del Sommo Pontefice. Si opera anche una certa decentralizzazione, in quanto alcune decisioni riservate alla Curia possono essere prese a livello delle Chiese particolari.
È importante notare che il legame tra la Curia e i vescovi diocesani ne risulta rafforzato. Si stabilisce una sorta di condivisione dei compiti, che rappresenta un grande cambiamento a cui l’organismo centrale che è la Santa Sede si deve abituare. La costituzione stabilisce anche un dialogo e una concertazione più grandi, forse a immagine del metodo del Papa durante il concilio. Si fissa una riunione regolare dei diversi capi dei dicasteri e degli organismi principali della Curia romana convocati dal segretario di Stato. L’obiettivo è di accrescere la coesione, la coerenza negli orientamenti generali e d’impedire divergenze dannose per il servizio da rendere al bene della Chiesa universale. Vi possono essere trattate questioni di competenza di diversi dicasteri. Assomiglia, fatte le debite proporzioni, a un consiglio di ministri, e non può non ricordare, con i dovuti adeguamenti, le proposizioni fatte dai Padri durante il concilio.
Non si può concludere l’analisi sulla riforma della Curia senza sottolineare che, per il Papa, questa ha un duplice volto. Certo, le misure tecniche sono indispensabili per migliorare il funzionamento della Curia, ma non avrebbero senso senza un’altra riforma alla quale Paolo VI fa riferimento nel suo discorso al Sacro Collegio e alla Prelatura Romana il 22 dicembre 1967. Tale riforma non riguarda il diritto canonico. È lasciata a ognuno e consente ai collaboratori più stretti del Papa di accogliere senza reticenze le numerose istanze che giungono a Roma dalle Chiese locali. È l’adesione a un rinnovamento spirituale, un rinnovamento più intimo, più profondo. È una riforma di una tale ampiezza da poter essere attuata nella Chiesa solo sotto l’impulso di un indispensabile spirito di fede e di sacrificio.
Paolo VI va annoverato tra i grandi Papi che hanno rinnovato l’organismo secolare della Curia, allo stesso modo di Sisto V (1588) o Pio X (1908). Ha accolto una sfida impossibile: riformare un’istituzione nella quale ha operato per più di trent’anni e della quale conosce le grandezze e le debolezze. L’ha saputa far avanzare a piccoli passi, certo con fermezza, sempre con rispetto e considerazione, ma senza transigere sull’essenziale. Si è dimostrato un pastore eminente che ha sempre ricercato, con grande libertà interiore e immensa pazienza, il maggior consenso possibile, perché nessuno si sentisse perdente.
Non è solo il Papa che ha accompagnato i lavori del concilio ma anche quello che l’ha messo in pratica con una lucidità tutta personale e un grande senso dell’unità che gli hanno consentito di trovare il momento buono per agire. Per lui la Curia è una collaboratrice nel governo della Chiesa universale. In tal senso, deve sapersi rimettere in discussione, al fine di svolgere meglio il suo servizio in funzione dei bisogno dei tempi e dei luoghi.
Ci sembra che tre convinzioni abbiano accompagnato Paolo VI in questo cammino: il dovere di mettere in atto il concilio, l’amore per la Chiesa e per l’umanità e il servizio alla sua unità, senza mai dimenticare che per lui non c’è riforma esteriore senza conversione spirituale.
L'Osservatore Romano

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Così Paolo VI cambiò lo «stile» della Chiesa
Lo stile di Paolo VI, nei suoi vari significati, ha esercitato un’enorme influenza sul Vaticano II. Come spesso si dice, Giovanni XXIII ha fatto salpare con coraggio la nave, ma Paolo VI l’ha guidata felicemente in porto attraverso una difficile navigazione. Vogliamo menzionare solo un esempio dello stile, della sensibilità e della visione con cui Paolo VI ha interpretato e guidato il Concilio. Nel novembre 1962 la lettera dal Concilio indirizzata da Montini alla diocesi di Milano commentava il delicato dibattito riguardante le fonti della Rivelazione. Egli offre ai suoi lettori milanesi una sintesi affascinante di quella che chiama la «dialettica umana» che ci si deve aspettare in un Concilio e che egli vedeva presente già nel primo Concilio di Gerusalemme. Ma il suo resoconto della situazione della prima sessione conciliare rivela l’equilibrio tipico della sua dialettica, una caratteristica del suo stile di pensiero.

Riguardo al tema della Rivelazione egli inizia evocando i timori e le perplessità di alcuni dei padri conciliari: era necessario riaprire tali questioni dopo le numerose prese di posizione del magistero nel passato? Come può essere trattata una questione teologica di questo genere se ci si chiede di evitare definizioni dogmatiche? Egli risponde che, considerando la complessità della Rivelazione, non dobbiamo essere stupiti dalla pluralità di modi di vedere e che le tensioni del dibattito danno prova dell’amore per la verità presente nei diversi oratori. Egli enumera nei termini seguenti gli elementi della dialettica: «Unità e cattolicità, antichità e modernità, fissità e sviluppo... visione delle cose nella loro radice e visione delle conseguenze che da essa derivano».

Tutto ciò significa che la discussione conciliare sarà «complicata e vivace», ma la speranza è di offrire «nuova luce al mondo» riguardo alla profonda realtà della Rivelazione. Ancora una volta troviamo qui l’attitudine caratteristica della sensibilità di Montini, la sua capacità di essere consapevole senza paura della complessità moderna, e tuttavia con una prudenza tipicamente equilibrata, perché il suo ultimo orizzonte di interpretazione di questa «dialettica umana» è radicato nella fede e in un senso profondo della tradizione ecclesiale. Se passiamo a considerare alcune delle sue riflessioni nel periodo successivo al Concilio, un significato centrale spetta al discorso del gennaio 1966, rivolto ai diplomatici accreditati presso la Santa Sede.

Nel primo discorso papale di questo genere, dopo la chiusura del Concilio avvenuta esattamente un mese prima, Paolo VI sceglie di commentare il Vaticano II in termini di stile (anche se non usa questa parola). Egli parla di una Chiesa che adotta «di preferenza il linguaggio dell’amicizia» in contrasto «con l’atteggiamento che ha segnato alcune pagine della sua storia» e invita perciò gli ambasciatori a comprendere i testi del Concilio come «dichiarazioni di pace, di amicizia per il mondo moderno». In altre parole, l’assenza di condanne e lo stesso stile o linguaggio dei documenti simboleggia, per così dire, la fine di antiche ostilità fra la Chiesa e la modernità. Vale la pena di ricordare che il titolo editoriale dato a questo discorso è «Linguaggio dell’amicizia e invito al dialogo: note di "stile conciliare"». Il significato di questo discorso è che quando Paolo VI parla di linguaggio non è semplicemente questione di vocabolario, ma di una nuova relazione o stile, che incarna una mutata attitudine verso la storia e verso la complessa area della cultura moderna nel suo insieme.

Appare chiaro che lo stile personale di Paolo VI – nell’espressione e nella visione generale – era inevitabilmente più ricco e complesso di quanto avrebbe potuto essere lo stile di un Concilio. E tuttavia è stata questa ricchezza e complessità del suo stile a guidare il Vaticano II verso i suoi grandi risultati. Lo stile di una persona, nel senso di una sensibilità incarnata e espressa di fronte alla realtà, sarà sempre più sottile dello stile di un testo, anche dello stile storicamente nuovo scelto per i testi del Vaticano II. Su questa linea, vorrei concludere con un ulteriore sguardo sullo stile dell’incontro di Montini con la modernità. Si tratta della sua straordinaria recensione, apparsa nel 1937, del Diario di un curato di campagna di Bernanos, romanzo pubblicato in francese l’anno precedente. La recensione è un capolavoro di complesso discernimento della complessità. Egli non era completamente convinto di alcuni dettagli del romanzo; era preoccupato per taluni rischi e rimaneva esitante riguardo a un’immagine eccessivamente paradossale della fede. E tuttavia giudica il libro magnifico, delicato, profondo, bello (tutte parole sue).

Troviamo qui una chiave risolutiva per comprendere lo stile di Montini come disposizione che lo porta a far convergere tre orizzonti: un riconoscimento della complessità moderna, una preoccupazione per estremismi e squilibri e una celebrazione riconoscente della profondità spirituale in tutte le sue molteplici manifestazioni. In conclusione, alcune parole di questa recensione sono applicabili al di là della discussione di un importante romanzo e contengono qualcosa del suo umanesimo cristiano: la letteratura e l’arte, egli ci dice, sono tanto più potenti quanto più lo stile è nascosto, perché ala sua magia consiste nell’obliarsi per servire la realtà e il pensiero che vuole trasfondere la realtà... [ma ciò implica sempre] la segreta simpatia di chi vuole consolare e beneficare». Lo stile di papa Montini ha aiutato il Concilio a trovare il suo proprio stile di consolazione. Benché lo stile conciliare non possa essere identificato con il suo stile personale, è stata senza dubbio la sua sensibilità personale ed ecclesiale che ha dato forma al Concilio e ha guidato la sua navigazione verso la sua propria rilettura della realtà in uno stile pastorale differente.

Michael Paul Gallagher (Avvenire)