lunedì 30 settembre 2013

Dialogo, conversione e povertà a servizio della pace.

 <br>

Tre Papi ad Assisi

(Ugo Sartorio) Tra i gesti memorabili del pontificato di Giovanni Paolo II figura di certo la giornata di preghiera ad Assisi del 27 ottobre 1986. Qui il concilio è stato interpretato creativamente grazie a uno stile di vicinanza senza precedenti tra diverse religioni. In questo modo il Papa polacco ha fatto fare un balzo in avanti impensato al dialogo tra le fedi. La nuova consapevolezza è una e una sola: Dio non ha che una passione e un’unica parola: la pace. Non deve essere invocato per legittimare guerre o violenze.Da allora, Assisi non solo si è ripetuta — come nel 1993, con la preghiera per la pace nei Balcani, e nel 2002, con la convocazione dei capi delle religioni dopo l’attentato alle Torri gemelle — ma si è dilatata. Il capolavoro di un giorno è diventato benedizione per tutti perché la forza debole della preghiera è potente di fronte a Dio e chiama in causa ogni popolo.
Se dalla metà degli anni Ottanta sino agli inizi degli anni Novanta si attenua la contrapposizione tra Est e Ovest che aveva caratterizzato gli anni della Guerra fredda, e se nell’ultimo decennio del secolo si contano numerose e sanguinose guerre con oltre cinque milioni di morti e sei di feriti in conflitti regionali anche molto cruenti, il primo decennio del nuovo millennio è segnato dal terrorismo e dalla ricerca di nuove forme di convivenza. Tutti eventi che sono stati accompagnati dalla speciale preghiera nata da Assisi.
Con un fenomeno che negli anni si è fatto via via sempre più vistoso: mentre si può dire che nel 1986 la tesi della secolarizzazione radicale intesa come recessione delle religioni andava per la maggiore, il venticinquennio successivo porterà le religioni alla ribalta della storia mondiale, nel bene e nel male, spingendo molti a parlare di de-secolarizzazione e di età post-secolare. Il ruolo di primo piano delle religioni è da intendere, naturalmente, non come privilegio da cavalcare, ma piuttosto come maggiore responsabilità verso le sorti comuni, sempre più comuni, del pianeta, per scongiurare lo «scontro di civiltà» paventato da alcuni.
Il rapporto di Benedetto XVI con Assisi e con il suo figlio più illustre, san Francesco, è personale, intimo, quasi viscerale. Se per Giovanni Paolo II Assisi è soprattutto luogo di incontro tra alterità religiose e quindi di dialogo, Papa Benedetto è affascinato dal tema della conversione di Francesco, dalla radicalità evangelica di questa figura singolare nella storia della Chiesa. La lettura dei 111 discorsi e interventi dove si fa riferimento al santo di Assisi nei primi sei anni di pontificato (cfr. Benedetto XVI e san Francesco, a cura di Gianfranco Grieco, Città del Vaticano, Libreria Editirice Vaticana - Unione Conferenze Provinciali d’Italia, 2011) restituisce questa impressione in modo esplicito.
Inoltre, non è da seguire la strada di chi intende contrapporre il magistero di Giovanni Paolo II e quello di Benedetto XVI, dal momento che disponiamo di testimonianze inequivocabili che attestano l’apprezzamento del Papa tedesco nei confronti dell’iniziativa del suo predecessore, come in occasione del ventennale: «L’iniziativa promossa vent’anni or sono da Giovanni Paolo II assume il carattere di una puntuale profezia. Il suo invito ai leader delle religioni mondiali per una corale testimonianza di pace servì a chiarire senza possibilità di equivoco che la religione non può che essere foriera di pace». E ancora: «A nessuno è lecito assumere il motivo della differenza religiosa come presupposto o pretesto di un atteggiamento bellicoso verso altri esseri umani». Certamente a Benedetto XVI sta a cuore il dialogo tra le religioni come «dialogo della verità», per vivere il quale non si possono fare sconti sull’identità, perché è convinto che parlare della verità della fede sia dovere e non presunzione.
Questa convinzione non gli ha però impedito, nella giornata del 27 ottobre 2011, di rilanciare con decisione la preghiera di Assisi. Con una novità che ha favorevolmente colpito, vale a dire il coinvolgimento, accanto ai rappresentanti delle confessioni cristiane e delle religioni, di non credenti in ricerca, in conseguenza dell’intuizione che — due anni prima — aveva fatto nascere nella Chiesa l’iniziativa del Cortile dei gentili affidata alla cura del dicastero romano per la cultura. Si può dire che da Benedetto XVI in poi le parole di Assisi risuonano, oltre che per gli uomini di ogni religione, anche per chi non crede o fatica a credere, perché la pace è bene di tutti e da tutti va difeso e promosso.
Oltre ai discorsi pronunciati durante il suo pontificato, gioca a favore della tesi dell’interesse preponderante di Benedetto XVI per il tema della conversione, paradigmatico in Francesco d’Assisi, il fatto che il 17 giugno 2007 egli abbia voluto iniziare la sua visita ad Assisi dal santuario del Sacro Tugurio a Rivotorto — oltre un secolo e mezzo dopo Gregorio XVI, che vi aveva sostato il 24 settembre 1841 — chiedendo esplicitamente di essere accompagnato all’antica chiesetta di Santa Maria Maddalena, il luogo dove, con tutta probabilità, agli inizi del Duecento sorgeva il lebbrosario nel quale Francesco maturò di cambiare vita servendo gli esseri più derelitti ed emarginati del suo tempo. Il riferimento al luogo dove erano segregati i lebbrosi e in cui scaturì la prima e decisiva conversione di Francesco sarà come un’eco che accompagnerà quel giorno tutti i discorsi del Papa.
Il legame tra Papa Bergoglio e il santo di Assisi è fissato, irrevocabilmente, nel nome scelto dal primo Pontefice sudamericano per lo svolgimento del ministero petrino. Una scelta sorprendente, che ha fatto discutere suscitando enormi aspettative. Papa Francesco, però, non guarda il santo attraverso le lenti di un romanticismo alla moda, ma vede il lui il grande riformatore della Chiesa attraverso la scelta radicale della povertà e ancor più concretamente dei poveri. Dialogando, da cardinale, con il rabbino Abraham Skorka, egli afferma: «Nella storia della Chiesa cattolica, i veri rinnovatori sono i santi. Sono loro i veri riformatori, quelli che cambiano, che trasformano, che sviluppano e risuscitano il cammino spirituale. Francesco d’Assisi ha apportato al cristianesimo una nuova concezione della povertà in opposizione al lusso, all’orgoglio e alla vanità dei poteri civili ed ecclesiastici dell’epoca. Ha sviluppato una mistica della povertà e della privazione, e ha cambiato la storia».
Se una delle espressioni più citate dal nuovo Pontefice è «periferie», con accezione larga, non è difficile comprendere la sintonia con il santo che scelse come emblema del suo ordine la minorità, raggiungendo tutti nella loro propria condizione per annunciare, prima con l’esempio e poi con la parola, il Vangelo che salva. Per incontrare gli ultimi, Francesco si fece uno di loro, sottomettendosi a tutte le creature, animate e inanimate, la qual cosa gli permise di realizzare una fraternità senza frontiere. «A me piace usare l’espressione “andare verso le periferie”, le periferie esistenziali. Tutti, tutti quelli, dalla povertà fisica e reale alla povertà intellettuale, che è reale, pure. Tutte le periferie, tutti gli incroci: andare là. E là, seminare il seme del Vangelo, con la parola e con la testimonianza» ha detto il Pontefice il 17 giugno inaugurando il convegno della diocesi di cui è vescovo. Inclusione per tutti, a partire dai lontani e dagli esclusi, dai migranti e richiedenti asili, com’è accaduto a Lampedusa e al Centro Astalli di Roma.
Su Francesco d’Assisi la convergenza con Benedetto XVI è facilmente individuabile nell’enciclica Lumen fidei, nella quale Papa Francesco «assume il prezioso lavoro» (n. 7) del predecessore con suoi contributi. «La luce della fede non ci fa dimenticare le sofferenze del mondo. Per quanti uomini e donne di fede i sofferenti sono stati mediatori di luce! Così per san Francesco d’Assisi il lebbroso» (n. 57). Il tema della conversione, che sta molto a cuore a Benedetto XVI, si coniuga con quello dell’incontro con gli ultimi, caro a Papa Francesco.
Come Giovanni Paolo II, anche il suo attuale successore ha la chiara visione di una pace mondiale alla quale le religioni nel rispetto e nell’esercizio della propria identità — «Fede e violenza sono incompatibili» ha detto all’Angelus del 18 agosto — possono e devono contribuire, e lo ha dimostrato indicendo una giornata di preghiera e digiuno per la pace in Siria, ma l’attenzione ai poveri e quindi alla giustizia globale è un dato che ritorna e fa la differenza. E nella lettera del 4 settembre scritta a Putin che presiedeva il G20, Papa Francesco parla della pace nel contesto di una nuova economia «in grado di consentire una vita degna a tutti gli esseri umani».
Molto possono anche le religioni in questa prospettiva. Il 25 luglio, intervistato dall’emittente brasiliana Rede Globo a Rio de Janeiro, Papa Francesco ha detto: «Credo che le religioni, le diverse confessioni — mi piace di più parlare di diverse confessioni — non possono andare a dormire tranquille finché ci sarà anche un solo bambino che muore di fame, un solo bambino senza educazione, un solo giovane o anziano senza un’assistenza medica. Ma il lavoro delle religioni, delle confessioni, non è beneficenza. È vero. Per lo meno nella nostra fede cattolica, nella nostra fede cristiana, saremo giudicati per queste opere di misericordia». L’attenzione ai poveri è dare credito allo sguardo amorevole di Dio che ha deciso, da sempre, di amare tutti a partire dagli ultimi, per non dimenticare nessuno.
Nel viaggio ad Assisi di Papa Francesco non potrà non risuonare ancora una volta quel «Francesco, va’ e ripara la mia casa» che ha scaldato il cuore di milioni di giovani sul lungomare di Copacabana il 27 luglio, insieme al richiamo alla radicale scelta di povertà che ha reso Francesco fratello universale, all’ultimo posto e per questo vicino a tutti. Ma vi è anche un tratto sociale e culturale che probabilmente emergerà, in linea con quanto mette in evidenza Giorgio Agamben, acuto interprete del santo di Assisi: «L’“altissima povertà” di Francesco, col suo uso delle cose, è la forma-di-vita che comincia quando tutte le forme di vita dell’Occidente sono giunte alla loro consumazione storica». Non siamo forse oggi, otto secoli dopo, allo stesso punto da cui Francesco d’Assisi è partito? Non abbiamo bisogno di una ripartenza, di ripensare un paradigma economico che ci ha portato al collasso? Non si invoca da ogni parte un nuovo ordine sociale che non si regga sulla cultura dello scarto?
Molto interessante, in proposito, è quanto scrive Joseph Ratzinger, nella sua tesi post-dottorale sulla teologia della storia in san Bonaventura, discussa nel febbraio 1957: «Nella Chiesa del tempo ultimo si imporrà il modo di vivere di san Francesco che, in qualità di simplex e idiota, sapeva di Dio più cose di tutti i dotti del suo tempo, poiché egli lo amava di più». Il tempo ultimo non è il tempo che verrà, un futuro indefinito che un giorno, chissà quando, ci sarà dato da vivere. Il tempo ultimo è il presente attraversato dall’oggi di Dio, da una possibilità sempre nuova di schierarsi dalla parte del Vangelo e delle sue beatitudini.
Il segreto di Francesco, semplificato al massimo, consiste proprio nel suo attaccamento al presente che gli permette di cogliere senza esitazione le risorse di grazia che sono nascoste in ogni vicenda umana e in ogni frammento del creato. Questa è la peculiarità con cui lo sguardo francescano si posa su ogni uomo e su ogni cosa, con fraternità e simpatia, creando legami con tutti, lanciando ponti ai lontani e aprendo varchi in ogni muro.
L'Osservatore Romano

*
Capire gli incontri di Assisi
di Massimo Introvigne
Il 30 settembre Papa Francesco ha incontrato i partecipanti all'incontro internazionale per la pace promosso dalla Comunità di Sant'Egidio, e ha loro rivolto un discorso che prepara la sua prossima visita ad Assisi e riprende l'interpretazione degli incontri interreligiosi della città francescana a suo tempo proposta da Benedetto XVI contro vari rischi di equivoco.
Questi incontri nascono, ha ricordato Francesco, dalla volontà del beato - e prossimo santo - Giovanni Paolo II (1920-2005). «Si era nel 1986, in un mondo ancora segnato dalla divisione in blocchi contrapposti, e fu in quel contesto che il Papa invitò i leader religiosi a pregare per la pace: non più gli uni contro gli altri, ma gli uni accanto agli altri». «Non doveva e non poteva restare - ha commentato Papa Francesco - un evento isolato», perché le urgenze non sono venute meno e ancora oggi soffiano venti di guerra. E noi «non possiamo mai rassegnarci di fronte al dolore di interi popoli, ostaggio della guerra, della miseria, dello sfruttamento. Non possiamo assistere indifferenti e impotenti al dramma di bambini, famiglie, anziani, colpiti dalla violenza».
Non si tratta però solo delle minacce di guerra in Siria, ma anche del terrorismo che negli ultimi giorni ha colpito soprattutto i cristiani. Riprendendo il cuore del discorso di Benedetto XVI nell'incontro di Assisi del 2011, Francesco ha affermato che «non possiamo lasciare che il terrorismo imprigioni il cuore di pochi violenti per seminare dolore e morte a tanti. In modo speciale diciamo con forza, tutti, continuamente, che non può esservi alcuna giustificazione religiosa alla violenza. Non può esservi alcuna giustificazione religiosa alla violenza, in qualsiasi modo essa si manifesti. Come sottolineava Papa Benedetto XVI due anni fa, nel 25° dell’incontro di Assisi, bisogna cancellare ogni forma di violenza motivata religiosamente».
Ma, ha ricordato Papa Francesco, l'insegnamento di Benedetto XVI ad Assisi non si fermava qui. Non c'è solo la violenza del fondamentalismo religioso, c'è anche quella antireligiosa. Dobbiamo dunque anche «vigilare affinché il mondo non cada preda di quella violenza che è contenuta in ogni progetto di civiltà che si basa sul “no” a Dio».
Le religioni che cosa possono fare? «Molto», risponde il Papa. «La pace è responsabilità di tutti. Pregare per la pace, lavorare per la pace». Francesco chiede il dialogo, ma invita a non confonderlo con l'ottimismo ingenuo. «Niente a che fare con l'ottimismo, è un'altra cosa».
Spesso il dialogo fallisce perché ci si accontenta di «intermediari»: mentre servono «mediatori». «I leader religiosi - invoca il Pontefice - siamo chiamati ad essere veri “dialoganti”, ad agire nella costruzione della pace non come intermediari, ma come autentici mediatori. Gli intermediari cercano di fare sconti a tutte le parti, al fine di ottenere un guadagno per sé. Il mediatore, invece, è colui che non trattiene nulla per sé, ma si spende generosamente, fino a consumarsi, sapendo che l’unico guadagno è quello della pace. Ciascuno di noi è chiamato ad essere un artigiano della pace, unendo e non dividendo, estinguendo l'odio e non conservandolo, aprendo le vie del dialogo e non innalzando nuovi muri!».
Assisi, ha concluso Francesco, non è solo un luogo di mediazione. È un luogo di preghiera, e senza la preghiera Assisi non si capisce o si capisce male. «Dialogo e preghiera crescono o deperiscono insieme. La relazione dell’uomo con Dio è la scuola e l'alimento del dialogo con gli uomini. Papa Paolo VI [1897-1978] parlava della “origine trascendente del dialogo” e diceva: “La religione è di natura sua un rapporto tra Dio e l'uomo. La preghiera esprime mediante il dialogo questo rapporto" (Enc. Ecclesiam suam, 72)». Continuiamo dunque a lavorare per la pace. Ma sapendo che la pace riposa sulla preghiera, e che dove è imposto il «no a Dio» non può esserci vera pace.