martedì 27 agosto 2013

Trasparenza del mistero



La riforma della Chiesa.

(Inos Biffi) L’espressione «riforma della Chiesa» è antica e ricorrente e non di rado accalorata e irriflessa. Ha senza dubbio un suo significato, ma potrebbe essere gravemente fraintesa. Intanto occorre puntualizzare che cosa si intenda per Chiesa. Se per Chiesa si intende il Corpo di cui Cristo è il Capo, e quindi la “Carne” o la Sposa del Risorto, formata dall’umanità redenta e santificata, difficilmente si potrà parlare di una riforma della Chiesa.Nata dal Sangue del Crocifisso e dall’effusione del suo Spirito, che ne costituisce l’anima e la vitalità inesausta; oggetto della compiacenza e contemplazione divina fin dall’eternità, la Chiesa permane nel tempo senza inquinamenti e senza macchia, sottratta a ogni forma di consunzione e di invecchiamento. Anzi, unita col suo Signore, essa è destinata a vincere il tempo e a essere nella storia il principio e il criterio della riforma di quanti, pur facendone parte, non sono nella condizione della santità gloriosa; mentre la Chiesa, “luogo” della grazia di Cristo, è inalteratamente nuova, questi, invece, hanno un continuo bisogno di rinnovamento. Ed è proprio l’esserci della Chiesa immacolata a renderlo possibile. Solo che tutto questo può essere compreso a una imprescindibile condizione: quella di avere e di conservare la percezione della Chiesa come mistero di fede. E oggi sembra che a rarefarsi e ad attenuarsi sia esattamente questa percezione di fede, senza la quale la Chiesa non può essere né capita né accolta.
Con la conseguenza che, in tal caso, tutte le valutazioni che si possono fare a suo riguardo, incluse quelle positive, rischiano di avere un valore precario e marginale, di non oltrepassare l’apparenza e di confondere l’accessorio con l’essenziale.
Tornando alla riforma della Chiesa: essa è vera, e non retorica e superficiale, quando riesce a toccare e a trasformare intimamente in senso cristiano l’esistenza. È come dire che la Chiesa viene rinnovata nella misura in cui accresce il nostro essere Corpo di Cristo, e si approfondisce il vincolo sponsale che ci unisce a Gesù Sposo della stessa Chiesa. In breve: più uno è santo, più è Chiesa e più concorre alla sua riforma. Questo non vuol dire che non sia necessario o provvido operare mutamenti o ritocchi su aspetti contingenti dell’espressione e della vita della Chiesa, aspetti che il passare del tempo ha invecchiato e reso insignificanti, e perciò di intralcio al risalto dell’essenziale.
Ma a questo punto la questione diviene quella della riforma delle strutture della Chiesa. E allora importa distinguere con rigore, per non lasciarsi andare a parole in libertà.
Ci sono strutture che fanno parte della natura o dell’identità della Chiesa quale Cristo, che ne è l’unico Signore, l’ha istituita. È il caso della struttura gerarchica, da Gesù stesso impressa alla sua Chiesa, che, infatti, la volle edificata sulla roccia di Pietro, il primo degli apostoli: struttura gerarchica, che ora prosegue nel primato del vescovo di Roma e nel collegio episcopale, che in comunione col vicario di Pietro e sotto di lui esercita l’ufficio del magistero, della santificazione e del governo di tutta la Chiesa.
È chiaro che questa struttura — essendo costitutiva della Chiesa e appartenendo ai dati della fede — non è riformabile secondo le situazioni storiche ma è destinata a permanere immodificata. Lo stesso si dica della struttura sacramentale della Chiesa, generata da Cristo e dal suo Spirito mediante i sacramenti, a cominciare dal Battesimo e in maniera consumata dall’Eucaristia. Una Chiesa, priva dei sacramenti, non è la Chiesa di Gesù Cristo.
Accanto, tuttavia, alle strutture essenziali di istituzione divina, che formano la tradizione, ce ne sono altre invece che sono state assunte nel corso del tempo e che appartengono alla categoria delle tradizioni, e sono perciò suscettibili di mutamenti. Come, di fatto, è avvenuto ripetutamente, e a diversi livelli, nella storia della Chiesa. Si pensi alle riforme della liturgia — a quella, per esempio, del Vaticano II — o ai cambiamenti e innovazioni che hanno toccato le organizzazioni ecclesiastiche centrali, come le Congregazioni, la Curia romana, e che la sensibilità della stessa Chiesa ha ritenuto opportune o necessarie. E, questo, vincendo non raramente interni impigrimenti o diffuse resistenze e reazioni di quanti, con diversità di giudizio, non le condividevano, o non le ritenevano ineccepibili o sufficientemente ponderate.
D’altra parte, il criterio di tali riforme può essere chiaramente formulato e già lo abbiamo accennato: esse occorrono quando sopravvivano abitudini e usi che in concreto, per una varietà di motivi, invece di servire alla trasparenza del mistero della Chiesa, e di esserne un perspicuo linguaggio e un segno limpido e attraente, risultano di complicazione e di ingombro.
Ci sembra che queste considerazioni e precisazioni siano indispensabili per evitare discorsi impulsivi e rumorosi — o quanto meno vaghi — sulla riforma della Chiesa e proteggerci, come abbiamo detto, da parole in libertà.
L'Osservatore Romano