giovedì 22 agosto 2013

In cerca di un futuro



Soluzioni durevoli al dramma di profughi e rifugiati. In fuga da guerra e miseria.

(Joseph Kalathiprarambil, Vescovo segretario del Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti) I rifugiati e i richiedenti asilo, nonostante le dolorose esperienze che hanno dovuto superare nella loro vita, affrontano la loro situazione con notevole coraggio, intraprendenza e creatività.
Essi credono con tutto il cuore che il futuro offrirà loro un cambiamento, con nuove possibilità e sono fiduciosi di poter ricostruire la propria vita. Personaggi come Miriam Makeba, Albert Einstein, Salvador Dalì, Anna Frank, Marlene Dietrich, Victor Hugo, Frédéric Chopin hanno raggiunto uno status speciale nella società, dopo aver superato tante difficoltà. Ed erano dei rifugiati.
L’arrivo di richiedenti asilo in un Paese o in una regione è solo l’inizio di un lungo processo. Innanzitutto, si deve provvedere a organizzare aiuti di prima necessità, nel pieno rispetto dell’essere umano, sia nei campi profughi sia nei Paesi di arrivo. La persona non può rimanere in un campo profughi o in un rifugio in quanto ogni essere umano ha bisogno di un focolare. Al riguardo, la comunità internazionale ha riconosciuto che è necessario provvedere a dare delle risposte. Fin dall’inizio del suo mandato, l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Acnur) si è attivato per promuovere la protezione dei rifugiati e per trovare soluzioni ai loro problemi. Ecco perché sono state individuate tre soluzioni durevoli: il rimpatrio volontario, l’integrazione locale e il reinsediamento in un Paese terzo. Dagli anni Sessanta fino alla metà degli anni Novanta, i profughi sono stati incoraggiati a stabilirsi nella nazione che aveva concesso loro lo status di rifugiato. Tuttavia, a poco a poco gli Stati hanno preferito la soluzione del rimpatrio volontario, anche se le altre due soluzioni sono rimaste valide e sono ancora praticate in molte situazioni diverse.
Il rimpatrio volontario è un segnale incoraggiante. Esso consente ai rifugiati di tornare a casa quando la pace è ormai ristabilita o quando le motivazioni per le quali sono fuggiti non sussistono più. Ciò significa anche che queste persone dovranno avere la possibilità di prendersi cura di se stesse. Vi deve però essere il pieno sostegno della comunità internazionale per incentivare le iniziative di riconciliazione e di pace che possano portare a grandi movimenti di ritorno volontario in patria, come è successo qualche anno fa in Angola, Eritrea, Rwanda, Sierra Leone e Somalia. Sono, poi, necessarie risorse adeguate per contribuire al ritorno a casa dei rifugiati e degli sfollati in condizioni di sicurezza e con dignità, garantendo istruzione, assistenza sanitaria, attività produttive e infrastrutture di base. Questo richiede che vengano presi in considerazione gli aspetti sociali ed economici della ricostruzione post-conflitto. Le persone dovrebbero essere messe in grado di affrontare questa sfida nei loro Paesi, che molte volte si trovano ancora nel caos. Inoltre, devono essere riallacciati buoni rapporti con la popolazione rimasta nel territorio anche per risolvere eventuali tensioni riguardo il diritto di proprietà di case e terreni.
La realtà, tuttavia, dimostra che non tutto avviene secondo quanto scritto nel copione. Ad esempio, nel 2004 vi è stato il rimpatrio ai loro villaggi rurali e alle loro città di 190.000 rifugiati liberiani, sparsi in tutta l’Africa occidentale. Lo si è visto particolarmente nella diocesi di Cape Palmas, dove per un certo numero di anni la Caritas è stata attivamente coinvolta e tutt’ora mostra grande impegno per loro. Qualche anno prima, il vescovo e il clero, anch’essi rifugiati, avevano preso l’iniziativa di tornare, dando così fiducia alle altre persone che sono rientrate spontaneamente e in maniera massiccia. Tuttavia, non hanno potuto avvalersi di alcuna assistenza da parte dell’Acnur, poiché erano tornati troppo presto, quando non era ancora in vigore alcun programma. Caritas Cape Palmas allora aveva organizzato, con l’aiuto di Caritas Internationalis, programmi adatti alla loro situazione. Mesi dopo, ha avuto inizio anche il ritorno volontario ufficiale organizzato dall’Acnur. Tuttavia, si è scoperto che la procedura per il ritorno era insufficiente e la sua attuazione non era adatta alla realtà locale. Per esempio, non era stato previsto alcun attrezzo agricolo tra gli aiuti nell’assistenza di ritorno, e neppure approvvigionamenti con capacità di ricovero. Questo ha portato difficoltà e disagi ai rifugiati che rimpatriavano.
Durante la sessione dell’assemblea generale delle Nazioni Unite del 7 novembre 2006, l’alto commissario per i rifugiati, António Guterres, ha così descritto questa situazione: «Una pentola di cottura e qualche seme non sono di grande aiuto quando una famiglia torna a casa per ricostruire la sua vita nel bel mezzo di una così ampia devastazione». E nell’ottobre 2004, durante la riunione del comitato esecutivo dell’Acnur, il rappresentante della Santa Sede ha dichiarato: «Il rimpatrio volontario non significa solo tornare indietro. Infatti, vi è il rischio che le persone vengano spostate da una situazione difficile a una vita di miseria nel loro Paese».
Quanto all’integrazione locale, va ricordato che, tra il 1960 e il 1980, molte nazioni africane hanno accolto un gran numero di rifugiati, fornendo loro la terra e sostenendo i loro sforzi per diventare autosufficienti. Ciò ha permesso una loro integrazione nel Paese di arrivo, ed alcuni rifugiati hanno anche ottenuto la cittadinanza nei Paesi che hanno garantito loro l’asilo. Nel 2010, la Tanzania ha concesso la cittadinanza a 162.000 rifugiati burundesi, a seguito della conclusione positiva del processo di integrazione locale, che era iniziato nel lontano 1972 con la loro richiesta di asilo.
L’integrazione locale richiede ai rifugiati uno spirito di adattamento alla vita quotidiana, che a volte è molto diversa o non conosciuta nel loro Paese di origine. Come lavare le finestre, quando si è vissuti ai tropici in una casa in cui le finestre non avevano il vetro? Come pulire la cucina, quando invece si cucinava all’aperto? Quali piante sono ornamentali e quali sono le erbacce che devono essere tagliate? Come si può vedere da questi semplici esempi, si pongono molte domande. Sapere come muoversi nel quotidiano è importante per essere accettati dai vicini di casa e per integrarsi gradualmente nella società. Inoltre, devono essere compilati tanti “documenti”, mentre anche la lingua è un fattore di difficoltà. In questo processo, svolgono un ruolo indispensabile i volontari, che provengono molte volte dalle Chiese.
Gradualmente i rifugiati si abituano al nuovo ambiente. Essi partecipano alla vita quotidiana e può accadere che, a poco a poco, altri membri del villaggio scoprano alcuni dei doni che possiedono. Ci sono tante belle storie. L’accompagnamento è necessario durante il processo di integrazione e dimostra rispetto per l’altro, mentre allo stesso tempo cambia anche la persona che assiste. Ciò è radicato in un atteggiamento cristiano e mostra in concreto l’attività che la Chiesa promuove. «Chi si nutre con fede di Cristo alla mensa eucaristica — ha affermato Benedetto XVI all’Angelus del 19 giugno 2005 — assimila il suo stesso stile di vita, che è lo stile del servizio attento specialmente alle persone più deboli e svantaggiate. La carità operosa, infatti, è un criterio che comprova l’autenticità delle nostre celebrazioni liturgiche».
Il reinsediamento, infine, è una soluzione che offre speranza alle persone in difficoltà. Esse sono invitate a lasciare il Paese in cui hanno cercato protezione, per ricevere lo status di residenza permanente nella nazione che offre loro il reinsediamento. Così, i rifugiati saranno in grado di crearsi una nuova casa e ricominciare la loro vita. Questa soluzione offre buone possibilità, anche se l’inizio di questa nuova vita non sarà tanto facile. Le principali sfide da affrontare possono includere l’apprendimento della lingua, l’abitudine a un’altra cultura, con altri costumi, e, forse, l’adattamento a un’altra professione. Ma anche adeguarsi a quello che sembra essere normale non è scontato. Per esempio, quanto stupore vediamo sui volti dei rifugiati quando sperimentano la neve per la prima volta! Ancor più difficile sarà per loro accettare che i figli acquisiscano progressivamente altri costumi e valori. Durante tutto questo processo i nuovi arrivati hanno bisogno di persone che siano presenti con loro, disposte ad aiutare, ad ascoltare e a curare. Ciò faciliterà il processo di integrazione nella società e permetterà che contribuiscano con le loro risorse alla vita sociale, culturale e civile. Sta anche alla capacità degli individui di prendersi cura di se stessi e delle proprie famiglie con dignità, per soddisfare tutte le esigenze essenziali e condurre una vita appagante nella società. L’integrazione favorisce un futuro comune per tutti i residenti in un Paese.
L’Acnur stima che oggi nel mondo circa 800.000 rifugiati abbiano bisogno di reinsediamento, ma solo 80.000 ingressi sono stati messi a disposizione da 26 nazioni. Questo significa che solo un rifugiato su dieci, a rischio e in necessità di reinsediamento, potrà ricevere la protezione di cui ha bisogno. I principali Paesi attivi nel processo di reinsediamento sono gli Stati Uniti, la Svezia, il Canada, la Norvegia e l’Australia. Sedici Paesi europei hanno fornito l’8 per cento del reinsediamento globale. L’Unione europea ha promesso per il 2020 di aumentare i posti di reinsediamento a 25.000.
Rimpatrio volontario, integrazione e reinsediamento sono dunque i modi più promettenti per garantire un futuro a coloro che fuggono. Nel tempo, devono essere coinvolti tutti gli attori dello sviluppo in modo che nessun divario esista tra soccorsi e sforzi di ripresa. Il dramma dei rifugiati e delle persone forzatamente sradicate, insieme ai Paesi coinvolti, esige che le infrastrutture sociali ed economiche siano restaurate e potenziate. Come si legge al numero 79 del documento Accogliere Cristo nei rifugiati e nelle persone forzatamente sradicate. Orientamenti pastorali, pubblicato nel giugno scorso e redatto congiuntamente dal nostro dicastero e dal Pontificio Consiglio Cor Unum, «questo richiede sostegno, anche finanziario, per una pace sostenibile, che si prenda cura di istruzione, assistenza medica, riabilitazione, ricostruzione dello Stato e ripresa dell’economia, nonché di programmi di sminamento, di trattamento di diverse forme di trauma, di smobilitazione e reintegrazione dei combattenti e dei bambini soldato. La ricostruzione sociale deve includere gli antichi partiti avversari così che, nel caso di conflitto interno, sia data loro la possibilità di vivere assieme come cittadini del medesimo Paese».
L'Osservatore Romano