sabato 20 luglio 2013

La morte che santifica


il_settimo_sigillo
di Sergio Sessa
È un pensiero che è nato in me in questi giorni, alla luce della celebrazioni di alcuni funerali di questi ultimi tempi riguardanti persone “eccellenti” legate al mondo dello spettacolo o famose per altri motivi. La morte è sempre un argomento strano di cui discutere e su cui riflettere; provoca nelle persone un senso di disagio e una volontà immediatamente conseguente di liquidare rapidamente il discorso, rapidità che a volte (sempre) mi lascia a dir poco perplesso.
Parlo, evidentemente di tutte quelle persone, nostri fratelli, che, non avendo ancora ricevuto (chiesto?) la grazia della fede in Cristo non hanno argomenti sufficienti che possano dare un significato a questo evento con il quale prima o dopo dobbiamo fare tutti i conti. Perciò non rimane, appunto, la strada di esorcizzare la morte, volgendo sempre lo sguardo altrove quando il suo vuole incrociare il nostro, anche se solo per un attimo. Il risultato però è che lasciamo sempre che sialei che viene incontro a noi e mai il contrario; che la subiamo come il nemico per eccellenza, ed è per questo che ci terrorizza tanto.
A scanso di equivoci, il credente, anche il più “ferrato in materia”, non può permettersi certo, per un qualche conforto che gli viene dalle fede, un atteggiamento di  sufficienza o distacco di fronte ad una vita che un attimo prima esisteva e un attimo dopo svanisce (almeno ai nostri occhi), facendo sentire e pesare la sua assenza spesso più di quanto non aveva fatto quando era a disposizione di tutti (anche di se stessa evidentemente).
Non a caso, come insegnano i santi Padri della Chiesa, che hanno posto con le loro riflessioni sull’evento della Rivelazione, delle basi solide su cui si è sviluppato poi il nostro Credo, la morte non è realtà estranea alla vita, semplicemente per il fatto (ovvio) che quando ci bussa alla porta siamo ancora vivi, anche se a volte in condizioni fisiche e/o psichiche ridotte al minimo.
Bisognerebbe perciò parlare del morire, più che della morte in sé; nel senso che, per il cristiano, aspetto al quale forse non si pensa molto, tutti impegnati a mandare avanti la baracca (in senso buono) della nostra vita, tutta l’esistenza dovrebbe essere in fondo una scuola nella quale imparare l’arte del morire; sì, la morte come appuntamento che ci trova, personalmente, preparati, pronti, come un incontro con una persona speciale che abbiamo preparato per lungo tempo e di fronte alla quale perciò non trovarsi in imbarazzo.
In tutto questo, per tornare da dove ero partito, è davvero curioso, (faccio questa riflessione in punta di piedi per il rispetto verso chi il Signore ha chiamato a Sé e per il dolore dei suoi cari e amici), è curioso dicevo, come durante l’ultimo addio alla persona deceduta, tutti tendano ad osannarla e, appunto, santificarla, sempre e comunque, come se tutta la sua vita fosse stato un modello da imitare in tutto e per tutto; come se non avesse commesso errori o come se non avesse pensato (detta un po’ brutalmente)  a nutrire il proprio ventre, piuttosto che donarsi tutta al prossimo nella carità e nella verità.
Beh, forse non è sufficiente tessere le lodi di una persona defunta per purificarla e renderla così “giusta” davanti al Signore, il quale non può essere pensato “solo” il Dio della misericordia dimenticando il fatto di essere anche Giudice, giusto certo, ma sempre Giudice. (E, in ogni caso, sembra che per molti, Dio cominci ad esistere il tempo necessario per il trapasso del caro defunto, non un attimo prima, non un attimo dopo). Dunque, se il giudizio è già stato emesso dagli uomini, al momento del commiato, al Signore non resterebbe altro che certificare la qualità della vita della persona defunta così come stabilito dai parenti e amici.
Ho paura che le cose non funzionino esattamente in questo modo. Forse dietro tutto questo c’è un costume e atteggiamento un po’ subdolo (che non viene da Dio per intenderci), secondo il quale se tutti  tendiamo a comportarci così, perché è giusto rendere omaggio alla persona defunta (omettendo volutamente tutte le eventuali magagne e cattiverie varie commesse in vita), ci autoconvinciamo, preparando in questo modo una sorta di antidoto fatto in casa contro la paura che genera il pensiero della morte, che mentre siamo in vita, in fondo possiamo sempre e comunque fare di testa nostra, “spenderci” per ciò che piace, alimentati dalla (ingannevole) spensieratezza che, in ogni caso, quando arriverà il nostro turno, tutto, come per magia si metterà a posto e tutti vivranno felici e in pace (se nel pensiero e nel cuore dei nostri cari, in un paradiso che ci siamo inventati, o in un improbabile Nirvana dai contorni a dir poco indefiniti poco importa).
Per noi credenti, al di là (o meglio al di qua) di un giudizio sul singolo, penso che il mistero della morte dovrebbe essere una occasione seria per riflettere sulla nostra vita, quella che sto vivendo ora, oggi. Chiedermi cioè davvero se sto percorrendo una strada che conduca ad un incontro (con Lui) o se invece, piò o meno inconsciamente, la mia vita è una grande fuga da qualcosa che mi spaventa e angoscia e che non riesco a guardare “in faccia”. In fondo è dalla meta che si comprende (molto) meglio il percorso da fare.