mercoledì 17 luglio 2013

La croce è essenziale


Il grande burrone

Un uomo sempre scontento di sé e degli altri continuava a brontolare con Dio perché diceva: “Ma chi l’ha detto che ognuno deve portare la sua croce? Possibile che non esista un mezzo per evitarla? Sono veramente stufo dei miei pesi quotidiani!”.
Il Buon Dio gli rispose con un sogno. 

Vide che la vita degli uomini sulla Terra era una sterminata processione. Ognuno camminava con la sua croce sulle spalle. Lentamente, ma inesorabilmente, un passo dopo l’altro.
Anche lui era nell’interminabile corteo e avanzava a fatica con la sua croce personale. Dopo un po’ si accorse che la sua croce era troppo lunga: per questo faceva tanta fatica ad avanzare.
“Sarebbe sufficiente accorciarla un po’ e tribolerei molto meno”, si disse.
Si sedette su un paracarro e, con un taglio deciso, accorciò d’un bel pezzo la sua croce. Quando ripartì si accorse che ora poteva camminare molto più spedito e leggero.
E senza tanta fatica giunse a quella che sembrava la meta della processione degli uomini.
Era un burrone: una larga ferita nel terreno, oltre la quale però incominciava la “terra della felicità eterna”. Era una visione incantevole quella che si vedeva dall’altra parte del burrone.
Ma non c’erano ponti, né passerelle per attraversare.
Eppure gli uomini passavano con facilità.
Ognuno si toglieva la croce dalle spalle, l’appoggiava sui bordi del burrone e poi ci passava sopra.
Le croce sembravano fatte su misura: congiungevano esattamente i due margini del precipizio.
Passavano tutti. Ma non lui. Aveva accorciato la sua croce e ora essa era troppo corta e non arrivava dall’altra parte del baratro. Si mise a piangere e a disperarsi: “Ah, se l’avessi saputo…”.
Ma, ormai, era troppo tardi e lamentarsi non serviva a niente.
(Bruno Ferrero, “Cerchi nell’acqua”, Editrice Elledici, 1996, pp. 70, 71)

******************************

Significato della sofferenza e della malattia
(tratto da: Giovanni Paolo II, Il progetto di Dio. Decalogo per il terzo millennio, Piemme, 1994, pp. 125-127)

Coloro che si accostano alla sofferenza con una visione meramente umana, non possono comprendere il suo significato e facilmente possono cadere nello sconforto: tutt’al più possono giungere ad accettarla con una triste rassegnazione di fronte all’inevitabile.
Noi cristiani, al contrario, istruiti nella fede, sappiamo che la sofferenza può trasformarsi – se l’offriamo a Dio – in uno strumento di salvezza, e in cammino di santità, che ci aiuta a raggiungere il cielo. Per un cristiano, il dolore non è motivo di tristezza, ma di gioia: la gioia di sapere che sulla Croce di Cristo ogni sofferenza ha un valore redentore.
Anche oggi il Signore ci invita dicendo: “Venite a me, voi tutti che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò” (Mt 11,28). Rivolgete, pertanto, a Lui il vostro sguardo, con la sicura speranza che egli vi darà sollievo, che il Lui troverete consolazione. Non abbiate timore di manifestarGli le vostre sofferenze, e talvolta anche la vostra solitudine; offriteGli quest’insieme di piccole, e spesso, grandi croci di ogni giorno, e così – anche se tante volte vi possono sembrare insopportabili – non vi peseranno, poiché sarà lo stesso Cristo che le porterà per voi: “Eppure Egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori” (Is 53,4).
Seguendo Cristo in questo cammino, sentirete la gioia intima di compiere la volontà di Dio. Una gioia che è compatibile con il dolore; perché è la gioia dei figli di Dio, che si sanno chiamati a seguire molto da vicino Gesù nel suo cammino verso il Golgota.
Chi segue Cristo, chi accetta la teologia del dolore di san Paolo, sa che alla sofferenza è legata una grazia preziosa, un favore divino, anche se si tratta di una grazia che rimane per noi un mistero, perché si nasconde sotto le apparenze di un destino doloroso. Certo non è facile scoprire nella sofferenza l’autentico amore divino, che vuole, mediante la sofferenza accettata, elevare la vita umana al livello dell’amore salvifico di Cristo. La fede, però, ci fa aderire a questo mistero e mette nell’anima di chi soffre, malgrado tutto, pace e gioia: a volte si giunge a dire, con san Paolo: “Sono pieno di consolazione, pervaso di gioia in ogni nostra tribolazione” (2Cor 7,4).
È nella prospettiva della fede, che la malattia assume una nobiltà superiore e rivela una particolare efficacia come aiuto al ministero apostolico. In questo senso la Chiesa non esita a dichiarare di aver bisogno dei malati e della loro oblazione al Signore per ottenere grazie più abbondanti per l’intera comunità. Se alla luce del Vangelo la malattia può essere un tempo di grazia, un tempo in cui l’amore divino penetra più profondamente in coloro che soffrono, non c’è dubbio che, con la loro offerta, i malati e gli infermi santificano se stessi e contribuiscono alla santificazione degli altri.
Ciò vale, in particolare, per coloro che si dedicano al servizio dei malati e degli infermi. Tale servizio è una via di santificazione come la malattia stessa. Nel corso dei secoli, esso è stato una manifestazione della carità di Cristo, che è appunto la sorgente della santità.
È un servizio che richiede dedizione, pazienza e delicatezza, unite a una grande capacità di compassione e di comprensione, tanto più che, oltre alla cura sotto l’aspetto strettamente sanitario, occorre portare ai malati anche il conforto morale, come suggerisce Gesù: “Ero malato… e mi avete visitato”.

******************************
Due asinelli
Alla grotta di Betlemme arrivarono anche due asinelli. Erano stanchi e macilenti. Le loro groppe erano spelacchiate e piagate dai pesanti sacchi che il mugnaio loro padrone caricava quotidianamente e dai colpi di bastone che non risparmiava.
Avevano sentito i pastori parlare del Re dei Re venuto dal cielo ed erano accorsi anche loro.
Rimasero un attimo a contemplare il Bambino. Lo adorarono e pregarono come tutti. All’uscita li attendeva lo spietato mugnaio.
I due asinelli ripartirono a testa bassa, con il pesante basto sulla groppa.
“Non serve a niente” disse uno. “Ho pregato il Messia che mi togliesse il peso e non l’ha fatto”.
“Io invece” ribattè l’altro, che trotterellava con un certo vigore “gli ho chiesto di darmi la forza di portarlo”.
(B. Ferrero, “La vita è tutto quello che abbiamo”, Editrice Elledici, 2002, p. 15)

******************************
Le grandi immagini giovannee.
La vite e il vino
(tratto da: Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, RCS 2007, pp. 303-305)

[…] Purificazione, frutto, rimanere, comandamento, amore, unità – sono queste le grandi parole chiave di questo dramma dell’essere nella vite in e con il Figlio, un dramma che il Signore pone dinanzi alla nostra anima con le sue parole. Purificazione – sempre di nuovo la Chiesa, il singolo, necessitano della purificazione: i processi della purificazione, tanto dolorosi quanto necessari, pervadono l’intera storia, pervadono la vita degli uomini che si sono donati a Cristo. In queste purificazioni è sempre presente il mistero di morte e risurrezione. L’autoesaltazione dell’uomo come anche delle istituzioni va tagliata via; ciò che è diventato troppo grande va ricondotto alla semplicità e alla povertà del Signore stesso. Solo attraverso tali processi di morte, la fertilità persiste e si rinnova.
La purificazione mira al frutto, ci dice il Signore. Qual è il frutto che Egli attende? […] Il frutto che il Signore si aspetta da noi è l’amore – che, con Lui, accetta il mistero della croce e diventa partecipazione alla sua autodonazione – e così la vera giustizia che prepara il mondo in vista del regno di Dio.
La purificazione e il frutto vanno insieme; solo attraverso le purificazioni di Dio possiamo portare un frutto che sfoci nel mistero eucaristico, conducendo così alle nozze che costituiscono l’obiettivo di Dio con la storia. Il frutto e l’amore vanno insieme: il vero frutto è l’amore che ha attraversato la croce e le purificazioni di Dio. Di tutto ciò fa parte il “rimanere”. In Giovanni 15,1-10 il verbo greco ménein(rimanere) compare dieci volte. Ciò che i Padri chiamano perseverantia – il resistere pazientemente nella comunione con il Signore attraverso tutte le vicissitudini della vita – viene qui posto con evidenza al centro. Un primo entusiasmo è facile, ma a esso segue la costanza anche sulle monotone vie del deserto che occorre attraversare nella vita – nella pazienza del procedere sempre uguale, quando il romanticismo della prima ora diminuisce e rimane soltanto il puro e profondo “sì” della fede. È proprio così che si forma il vino buono. Agostino, dopo le radiose illuminazioni dell’inizio, dopo l’ora della conversione, ha vissuto profondamente la fatica di questa pazienza, ed è proprio così che ha appreso l’amore per il Signore e l’immensa gioia dell’aver trovato.
Se il frutto che dobbiamo portare è l’amore, il suo presupposto è proprio questo “rimanere” che profondamente ha a che fare con quella fede che non lascia il Signore…

******************************
Il segnale

Un povero naufrago arrivò sulla spiaggia di un’isoletta deserta aggrappato ad un piccolo relitto della barca su cui stava viaggiando, dopo una terribile tempesta. L’isola era poco più di uno scoglio, aspra e inospitale.
Il pover’uomo cominciò a pregare. Chiese a Dio, con tutte le sue forze, di salvarlo e ogni giorno scrutava l’orizzonte in attesa di veder sopraggiungere un aiuto, ma non arrivava nessuno.
Dopo qualche giorno si organizzò. Sgobbando e tribolando fabbricò qualche strumento per cacciare e coltivare, sudando sangue riuscì ad accendere il fuoco, si costruì una capanna e un riparo contro le violente bufere.
Passò qualche mese. Il pover’uomo continuava la sua preghiera, ma nessuna nave appariva all’orizzonte.
Un giorno, un colpo di brezza sul fuoco spinse le fiamme a lambire la stuoia del naufrago. In un attimo tutto s’incendiò. Dense volute di fumo si alzarono verso il cielo. Gli sforzi di mesi, in pochi istanti, si ridussero a un mucchietto di cenere.
Il naufrago, che invano aveva tentato di salvare qualcosa, si buttò piangendo nella sabbia.
“Perché, Signore? Perché anche questo?”.
Qualche ora dopo, una grossa nave attaccò vicino all’isola. Vennero a prenderlo con una scialuppa.
“Ma come avete fatto a sapere che ero qui?” chiese il naufrago, quasi incredulo.
“Abbiamo visto i segnali di fumo” gli risposero.
(B. Ferrero, “Il segreto dei pesci rossi”, Editrice Elledici, 2000, pp. 22, 23)

******************************
La preghiera del Signore.
E non c’indurre in tentazione
(tratto da: Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, RCS 2007, pp. 193-197)

[…] Ci aiuta a fare un passo avanti il ricordarci della parola del Vangelo: “Allora Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto per essere tentato dal diavolo” (Mt 4,1). La tentazione viene dal diavolo, ma nel compito messianico di Gesù rientra il superare le grandi tentazioni che hanno allontanato e continuano ad allontanare gli uomini da Dio. Egli deve, come abbiamo visto, sperimentare su di sé queste tentazioni fino alla morte sulla croce e aprirci in questo modo la via della salvezza.
Così, non solo dopo la morte, ma in essa e durante tutta la sua vita deve in certo qual modo “discendere negli inferi”, nel luogo delle nostre tentazioni e sconfitte, per prenderci per mano e portarci verso l’alto. La Lettera agli Ebrei ha sottolineato in modo tutto particolare questo aspetto, mettendolo in risalto come parte essenziale del cammino di Gesù: “Infatti, proprio per essere stato messo alla prova ed avere sofferto personalmente, è in grado di venire in aiuto a quelli che subiscono la prova” (2,18). “Infatti non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia compatire le nostre infermità, essendo stato Lui stesso provato in ogni cosa, a somiglianza di noi, escluso il peccato” (4,15).
Uno sguardo al Libro di Giobbe, in cui sotto tanti aspetti si delinea già il mistero di Cristo, può fornirci ulteriori chiarimenti. Satana schernisce l’uomo per schernire in questo modo Dio: la sua creatura, che Egli ha formato a sua immagine, è una creatura miserevole. Quanto in essa sembra bene, è invece solo facciata. In realtà all’uomo – a ogni uomo – interessa sempre e solo il proprio benessere. Questa è la diagnosi di Satana, che l’Apocalisse definisce “l’accusatore dei nostri fratelli, colui che li accusava davanti al nostro Dio giorno e notte” (Ap 12,10). La diffamazione dell’uomo e della creazione è in ultima istanza diffamazione di Dio, giustificazione del suo rifiuto.
Satana vuole dimostrare la sua tesi con Giobbe, il giusto: se solo gli venisse tolto tutto, allora egli lascerebbe presto perdere anche la sua religiosità. Così Dio concede a Satana la libertà di mettere alla prova Giobbe, anche se entro limiti ben definiti: Dio non lascia cadere l’uomo, ma permette che venga messo alla prova. Qui traspare già in modo sommesso e non ancora esplicito il mistero della vicarietà, che prende una forma grandiosa in Isaia 53: le sofferenze di Giobbe servono alla giustificazione dell’uomo. Mediante la sua fede provata nella sofferenza, egli ristabilisce l’onore dell’uomo. Così le sofferenze di Giobbe sono anticipatamente sofferenze in comunione con Cristo, che ristabilisce l’onore di noi tutti al cospetto di Dio e ci indica la via per non perdere, neppure nell’oscurità più profonda, la fede in Dio.
Il libro di Giobbe può anche esserci d’aiuto nel discernimento tra prova e tentazione. Per maturare, per trovare davvero sempre più la strada che da una religiosità di facciata conduce a una profonda unione con la volontà di Dio, l’uomo ha bisogno della prova. Come il succo dell’uva deve fermentare per divenire vino di qualità, così l’uomo ha bisogno di purificazioni, di trasformazioni che per lui sono pericolose, che possono provocarne la caduta, che però costituiscono le vie indispensabili per giungere a se stessi e a Dio. L’amore è sempre un processo di purificazioni, di rinunce, di trasformazioni dolorose di noi stessi e così una via di maturazione…
Così possiamo ora interpretare la sesta domanda del Padre nostro già in maniera un po’ più concreta. Con essa diciamo a Dio: “So che ho bisogno di prove affinché la mia natura si purifichi. Se tu decidi di sottopormi a queste prove, se – come nel caso di Giobbe – dai un po’ di mano libera al Maligno, allora pensa, per favore, alla misura limitata delle mie forze. Non credermi troppo capace. Non tracciare troppo ampi i confini entro i quali posso essere tentato, e siimi vicino con la tua mano protettrice quando la prova diventa troppo ardua per me”. In questo senso san Cipriano ha interpretato la domanda. Dice: quando chiediamo “e non c’indurre in tentazione”, esprimiamo la consapevolezza “che il nemico non può fare niente contro di noi se prima non gli è stato permesso da Dio; così che ogni nostro timore e devozione e culto si rivolgano a Dio, dal momento che nelle nostre tentazioni niente è lecito al Maligno, se non gliene vien data di là la facoltà” (De dom. or. 25).
E poi, ponderando il profilo psicologico della tentazione, egli spiega che ci possono essere due differenti motivi per cui Dio concede al Maligno un potere limitato. Può accadere come penitenza per noi, per smorzare la nostra superbia, affinché sperimentiamo di nuovo la povertà del nostro credere, sperare e amare e non presumiamo di essere grandi da noi: pensiamo al fariseo che racconta a Dio delle proprie opere e crede di non aver bisogno di alcuna grazia. Cipriano, purtroppo, non specifica poi il significato dell’altro tipo di prova: la tentazione che Dio ci impone ad gloriam – per la sua gloria. Ma in questo caso non dovremmo ricordarci che Dio ha messo un carico particolarmente gravoso di tentazioni sulle spalle delle persone a Lui particolarmente vicine, i grandi santi, da Antonio nel deserto fino a Teresa di Lisieux nel pio mondo del suo Carmelo? Tali persone stanno, per così dire, sulle orme di Giobbe come apologia dell’uomo, che è al contempo difesa di Dio. Ancor più: sono in modo del tutto particolare in comunione con Gesù Cristo, che ha sofferto fino in fondo le nostre tentazioni. Sono chiamate a superare, per così dire, nel proprio corpo, nella propria anima le tentazioni di un’epoca, a sostenerle per noi, anime comuni, e ad aiutarci nel passaggio verso Colui che ha preso su di sé il gravame di tutti noi.
Nella preghiera che esprimiamo con la sesta domanda del Padre nostro deve così essere racchiusa, da un lato, la disponibilità a prendere su di noi il peso della prova commisurata alle nostre forze; dall’altro, appunto, la domanda che Dio non ci addossi più di quanto siamo in grado di sopportare; che non ci lasci cadere dalle sue mani. Pronunciamo questa richiesta nella fiduciosa certezza per la quale san Paolo ci ha donato le parole: “Dio è fedele e non permetterà che siate tentati oltre le vostre forze, ma con la tentazione vi darà anche la via d’uscita e la forza per sopportarla” (1Cor 10,13).

******************************
La perla

Disse un’ostrica a una vicina: “Ho veramente un gran dolore dentro di me. È qualcosa di pesante e di tondo, e sono stremata”.
Rispose l’altra con borioso compiacimento: “Sia lode ai cieli e al mare, io non ho dolori in me. Sto bene e sono sana sia dentro che fuori”.
Passava in quel momento in granchio e udì le due ostriche, e disse a quella che stava bene ed era sana sia dentro che fuori: “Sì, tu stai bene e sei sana; ma il dolore che la tua vicina porta dentro di sé è una perla di straordinaria bellezza”.
(B. Ferrero, “40 storie nel deserto”, Editrice Elledici, 1996, p. 54)

******************************
I contenuti essenziali della nuova evangelizzazione
Gesù Cristo
(tratto da: Benedetto XVI, L’elogio della coscienza, Cantagalli, 2009, pp. 134-136)

[…] Oggi è grande la tentazione di ridurre Gesù Cristo, il figlio di Dio, solo a un Gesù storico, a un uomo puro. Non si nega necessariamente la divinità di Gesù, ma con certi metodi si distilla dalla Bibbia un Gesù a nostra misura, un Gesù possibile e comprensibile nei parametri della nostra storiografia. Ma questo “Gesù storico” è un arteffato, l’immagine dei suoi autori e non l’immagine del Dio vivente (cfr. 2 Cor 4,4s; Col 1,15).
Non il Cristo della fede è un mito; il cosiddetto Gesù storico è una figura mitologica, auto-inventata dai diversi interpreti. I duecento anni di storia del “Gesù storico” riflettono fedelmente la storia delle filosofie e delle ideologie di questo periodo.[…]
Vorrei brevemente accennare a due aspetti importanti. Il primo è la sequela di Cristo: Cristo si offre come strada della mia vita. Sequela di Cristo non significa imitare l’uomo Gesù. Un tale tentativo fallisce necessariamente, sarebbe un anacronismo. La sequela di Cristo ha una meta molto più alta: assimilarsi a Cristo, e cioè arrivare all’unione con Dio. Una tale parola suona forse strana nell’orecchio dell’uomo moderno. Ma in realtà abbiamo tutti la sete dell’infinito, di una libertà infinita, di una felicità senza limite. Tutta la storia delle rivoluzioni degli ultimi due secoli si spiega solo così. La droga si spiega solo così. L’uomo non si accontenta di soluzioni sotto il livello della divinizzazione. Ma tutte le strade offerte dal “serpente” (cfr. Gen 3,5), cioè dalla sapienza mondana, falliscono. L’unica strada è la comunione con Cristo, realizzabile nella vita sacramentale. Sequela di Cristo non è un argomento di moralità, ma un tema “misterico”, un insieme di azione divina e di risposta nostra.
Così troviamo presente nel tema della sequela l’altro centro della cristologia al quale volevo accennare: il mistero pasquale – la croce e la risurrezione. Nelle ricostruzioni del “Gesù storico” di solito il tema della croce è senza significato. In una interpretazione “borghese” diventa un incidente di per sé evitabile, senza valore teologico; in una interpretazione rivoluzionaria diventa la morte eroica di un ribelle. La verità è diversa. La croce appartiene al mistero divino, è espressione del suo amore fino alla fine (cfr. Gv 13,1). La sequela di Cristo è partecipazione alla sua croce, è unirsi al suo amore, alla trasformazione della nostra vita, che diventa nascita dell’uomo nuovo, creato secondo Dio (cfr. Ef 4,24). Chi omette la croce, omette l’essenza del cristianesimo (cfr. 1 Cor 2,2).

******************************

L’uomo che volle cambiare la propria croce

Era un uomo povero e semplice. La sera, dopo una giornata di duro lavoro, rientrava in casa spossato e pieno di malumore. Guardava con astio la gente che passava in automobile o quelli seduti ai tavolini dei bar.
“Quelli sì che stanno bene”, brontolava l’uomo, pigiato nel tram, come un grappolo d’uva nel torchio. “Non sanno che cosa vuol dire tribolare… Tutto rose e fiori, per loro. Avessero la mia croce da portare!”.
Il Signore aveva sempre ascoltato con molta pazienza i lamenti dell’uomo. E, una sera, lo aspettò sulla porta di casa.
“Ah, sei tu, Signore?”, disse l’uomo, quando lo vide. “Non provare a rabbonirmi. Lo sai bene quant’è pesante la croce che mi hai imposto”. L’uomo era più imbronciato che mai.
Il Signore gli sorrise bonariamente. “Vieni con me. Ti darò la possibilità di fare un’altra scelta”, disse.
L’uomo si trovò all’improvviso dentro una enorme grotta azzurra. L’architettura era divina. Ed era piena di croci: piccole, grandi, tempestate di gemme, lisce, contorte.
“Sono le croci degli uomini”, disse il Signore. “Scegline una”. L’uomo buttò con la malagrazia la sua croce in un angolo e, fregandosi le mani, cominciò la cernita.
Provò una croce leggerina, ma era lunga e ingombrante. Si mise al collo una croce da vescovo, ma era incredibilmente pesante di responsabilità e di sacrificio. Un’altra, liscia e graziosa in apparenza, appena fu sulle spalle dell’uomo cominciò a pungere come se fosse piena di chiodi. Afferrò una croce d’argento, che mandava bagliori, ma si sentì invadere da una straziante sensazione di solitudine e di abbandono. La posò subito. Provò e riprovò, ma ogni croce aveva qualche difetto.
Finalmente, in un angolo semibuio, scovò una piccola croce, un po’ logorata dall’uso. Non era troppo pesante, né troppo ingombrante. Sembrava fatta apposta per lui. L’uomo se la mise sulle spalle con aria trionfante. “Prendo questa!”, esclamò. Ed uscì dalla grotta.
Il Signore gli rivolse il suo sguardo dolce dolce. E in quell’istante l’uomo si accorse che aveva ripreso proprio la sua vecchia croce: quella che aveva buttato via entrando nella grotta. E che portava da tutta la vita.
(B. Ferrero, “Il canto del grillo”, Editrice Elledici, 1996, pp. 44, 45)
(L. Perfori)