giovedì 27 giugno 2013

Col cuore affaticato dalla preghiera.




La vita consacrata secondo l’arcivescovo Jorge Mario Bergoglio. A colloquio con suor Nora Antonelli, superiora generale delle figlie dell’Immacolata Concezione di Buenos Aires

(Nicola Gori) Col cuore affaticato dalla preghiera. Testimone di Cristo in autenticità e giustizia, con il cuore «affaticato dalla preghiera» e aperto alle necessità degli altri. Già negli anni in cui era alla guida dell’arcidiocesi di Buenos Aires, Jorge Mario Bergoglio aveva ben chiaro il profilo umano e spirituale della persona consacrata. Una consapevolezza frutto della particolare attenzione alla vita religiosa, che per il futuro Pontefice è sempre stata un obiettivo pastorale prioritario, come attestano i numerosi incontri di formazione e di riflessione da lui stesso promossi.
Lo testimonia suor Nora Antonelli, superiora generale delle figlie dell’Immacolata Concezione di Buenos Aires, che nell’intervista al nostro giornale rievoca questo aspetto del ministero dell’arcivescovo Bergoglio e parla del suo rapporto con la congregazione religiosa fondata da madre Eufrasia Iaconis.
Quando ha conosciuto Jorge Mario Bergoglio?
Nel 1997, quando già vescovo ausiliare e vicario generale di Buenos Aires, venne nominato arcivescovo coadiutore dell’arcidiocesi per affiancare il cardinale Antonio Quarracino, che aveva problemi di salute. Il 28 febbraio 1998 il cardinale Quarracino morì. In quegli stessi giorni partecipai a una delle messe di suffragio che venivano celebrate in cattedrale. A un certo punto, durante il rito, mi accorsi che sulla panca dietro di me era seduto monsignor Bergoglio. Mi sorpresi molto di vederlo lì piuttosto che in prima fila. Tempo dopo, e ancora meglio adesso, l’ho capito: stava in mezzo al popolo. Questo è il primo ricordo che ho di lui. E da allora mi è sempre rimasto impresso.
È cambiato qualcosa quando è diventato arcivescovo di Buenos Aires e poi cardinale?
È rimasto certamente quello che si può definire il suo «basso profilo», cioè quel desiderio di discrezione e umiltà, nutrito di serenità e compostezza. Questo modo di essere suscitava ammirazione. Ricordo quando venivano organizzate le marce giovanili, alle quali partecipavano migliaia di ragazzi e ragazze lungo le strade della città, soprattutto in occasione della solennità del Corpus Domini. Mentre i partecipanti si dirigevano verso la cattedrale, il cardinale appariva all’improvviso all’angolo di una strada e con un microfono chiedeva loro di fare silenzio. Poi invitata a riflettere su certi aspetti fondamentali della fede e le sue parole giungevano nel profondo.
Quali tratti del suo magistero le sono rimasti impressi?
Attraverso le omelie, i messaggi e le lettere, si è reso evidente un elemento centrale del suo pensiero: l’apertura. Apertura del cuore di ognuno, apertura delle porte, apertura nel servizio. Dopo aver letto una sua lettera scritta alcuni anni fa per i sacerdoti, i consacrati e le consacrate, ho compreso che questa apertura non ha niente a che fare con l’attivismo fine a se stesso. In quella lettera Bergoglio sottolineava che «dobbiamo essere uomini e donne lavoratori fino al limite e, a allo stesso tempo, con il cuore affaticato nella preghiera». Ci esortava a dedicare ogni giorno più tempo alla preghiera.
Quali caratteristiche risaltavano nel suo rapporto con la gente?
Ho sempre visto in lui una grande sensibilità e preoccupazione per le persone che soffrono, per i poveri, per i malati. Mi è rimasto impresso in particolare un episodio legato alla nostra congregazione religiosa. Nel dicembre 2010, come tutti gli anni, ho inviato al cardinale Bergoglio gli auguri di Natale con un pensiero della nostra consorella Maria Pierina De Micheli, che proprio in quell’anno era stata beatificata. Qualche tempo prima, gli avevo fatto sapere delle difficoltà che avevamo nel portare avanti una determinata missione in diocesi. Nella risposta ai miei auguri, scritta di suo pugno, c’era una frase che conservo ancora impressa nel cuore: «Per me questo Natale ha molta tristezza. Le figlie dell’Immacolata Concezione lasciano...». Bergoglio faceva capire che, senza la nostra presenza, tante anime sarebbero rimaste abbandonate. Queste e altre parole mi hanno commosso moltissimo. Allora ho deciso di telefonargli per rassicurarlo che, nonostante le tante difficoltà, avremmo continuato comunque il nostro servizio. Confesso che mi ha sempre impressionato la gratitudine dimostrata allora e in seguito, quando in altre occasioni me lo ha ripetuto per iscritto e personalmente.
In che modo il gesuita Bergoglio testimoniava la sua attenzione verso la vita consacrata?
Ogni anno riuniva i consacrati dell’arcidiocesi per un colloquio formativo che includeva anche un momento di dialogo, nel quale si esprimevano inquietudini, esperienze, preoccupazioni. Concludeva sempre l’incontro con la celebrazione della messa, prima della quale, ci salutava individualmente ripetendo: «Preghi per me». Ricordo che, a volte, ci parlava con parole forti e con energia, come per mettere in risalto l’essenziale della consacrazione; ci chiedeva di dare testimonianza operando con giustizia e autenticità. Ci ringraziava anche per quello che siamo e per quello che facciamo. L’8 settembre, data in cui in Argentina si celebra la giornata della vita consacrata, era per noi un altro momento significativo. Ci riunivamo con il nostro pastore nella cattedrale. Credo di poter esprimere il suo sentire con una frase che mi ha scritto: «Quante anime abbandonate... senza la tenerezza che solo sanno dare le religiose!». Voglio aggiungere una considerazione personale. Ho visto in questi giorni Papa Francesco affettuoso ed entusiasta in mezzo al suo popolo che ora è la Chiesa universale. E ho pensato: quello che tante volte ha detto a noi che facciamo parte della Chiesa particolare di Buenos Aires, oggi può annunciarlo a tutti. E questo è, senza dubbio, la sua grande gioia.
C’è un legame particolare tra Bergoglio e la vostra congregazione?
Le figlie dell’Immacolata Concezione sono state fondate a Buenos Aires dalla serva di Dio Eufrasia Iaconis. Nell’arcidiocesi abbiamo tre collegi per l’educazione dei giovani e svolgiamo la pastorale della salute nell’ospedale Pirovano. Ai grandi avvenimenti celebrativi della congregazione abbiamo sempre invitato l’arcivescovo di Buenos Aires. Quando nel 2004, per esempio, abbiamo festeggiato il centenario dell’approvazione diocesana, la messa solenne nella cattedrale è stata presieduta da Bergoglio. Da allora, ogni volta che ci incontra, ci dice affettuosamente: «Ecco le “eufrasine”», alludendo al nome della nostra fondatrice. All’inizio ci meravigliavamo che ci ricordasse con questo appellativo. Poi abbiamo avuto modo di conoscere una circostanza particolare della sua vita e così abbiamo capito il motivo. Direi che ci lega a lui proprio il nome della nostra fondatrice. E forse è qualcosa di più di una coincidenza il fatto che il 13 marzo, giorno della tanto attesa «fumata bianca» che ha annunciato la sua elezione, la Chiesa faccia memoria di santa Eufrasia vergine e martire.
Qual è la circostanza a cui si riferisce?
L’ultima volta che ho visto il cardinale Bergoglio è stato il 2 agosto 2012, nell’arcivescovado di Buenos Aires. Quel giorno ha presieduto la chiusura del processo diocesano per la causa di canonizzazione della nostra fondatrice. È stato proprio in quell’occasione che ha confidato un particolare della sua vita che nessuna di noi conosceva e che ci ha riempito di emozione. Ci ha raccontato di avere sentito parlare per la prima volta di madre Eufrasia negli ultimi mesi del 1953, quando aveva solo 17 anni. Nel settembre di quell’anno aveva scelto come direttore spirituale un sacerdote di Corrientes, don Carlos Benigno Duarte. Questo prete gli raccontava di aver studiato nel seminario di Villa Devoto e di aver conosciuto così la nostra congregazione, che proprio lì vicino aveva un collegio. Frequentando il nostro istituto, don Duarte aveva avuto modo di conoscere la vita e il carisma della fondatrice. E ne parlava con il giovane Bergoglio, al quale descriveva la figura e la testimonianza della religiosa definendola «una donna normale e forte». Da allora il nome di Eufrasia, che non è molto comune, è rimasto impresso nella mente di Bergoglio, come lui stesso ci ha confidato. Per questo ci ha detto che si rallegrava molto di aver potuto chiudere il processo diocesano, perché si sentiva ancor più legato a quella iniziale esperienza di conoscenza che ebbe della nostra fondatrice.
L'Osservatore Romano