sabato 25 maggio 2013

Trasfusione di speranza



A Palermo la beatificazione del prete ucciso dalla mafia nel 1993. Quel sorriso di don Pino Puglisi

«Martire, autentico pastore secondo il cuore di Gesù, seminatore evangelico di perdono e di riconciliazione», don Giuseppe Puglisi, il parroco di Brancaccio assassinato dalla mafia vent’anni fa, è stato beatificato a Palermo sabato mattina, 25 maggio. Almeno ottantamila i fedeli che, giunti da ogni parte della città e dell’intera Sicilia, si sono radunati nel Foro Italico-Umberto I. Il rito è stato presieduto, in rappresentanza di Papa Francesco, dal cardinale Salvatore De Giorgi, arcivescovo emerito di Palermo. Lui stesso, il 15 settembre 1999, avviò il processo di beatificazione — il decreto è stato promulgato da Benedetto XVI il 28 giugno 2012 — e oggi ha letto la bolla papale nella quale è stabilita anche la festa liturgica del nuovo beato alla data del 21 ottobre.
L’applauso scrosciante dei presenti, alzatisi tutti in piedi, ha sottolineato il momento in cui è stato scoperto il grande arazzo raffigurante il volto sorridente del prete palermitano ucciso nel giorno del suo cinquantaseiesimo compleanno, il 15 settembre 1993. E mentre venivano portate le reliquie all’altare il cielo era solcato dal volo di numerose colombe.
La messa è stata celebrata dal cardinale arcivescovo Paolo Romeo, che ha tenuto l’omelia. «Sorride ancora — ha detto — don Pino. Più guardiamo il suo volto, più sentiamo che il suo sorriso ci unisce tutti. Finalmente possiamo invocarlo beato. La Chiesa riconosce nella sua vita sigillata dal martirio in odium fidei un modello da imitare».
Commentando il vangelo di Giovanni (12, 20 ss.) — proclamato anche in greco — il cardinale Romeo ha evidenziato come la similitudine del chicco di grano sintetizzi bene tutta l’esistenza del beato Puglisi. In lui «la logica della scelta diventa logica di impegno e di sacrificio, che però dà vera gioia. Nei 33 anni della sua vita sacerdotale — ha aggiunto — fu chicco perché accettò di morire un poco ogni giorno donandosi senza riserve “per Cristo a tempo pieno”, come amava ripetere». Un messaggio destinato oggi in particolare ai giovani che si sforzano di costruire il futuro, alle famiglie in difficoltà, agli ammalati, a chi è in cammino vocazionale: perché la vita ha valore «solo se siamo disposti a condividerla, spezzandola per gli altri».
Ma soprattutto don Puglisi parla ai sacerdoti. «Non fu mai — ha ricordato l’arcivescovo di Palermo — prete per mestiere. La mano mafiosa che lo ha barbaramente assassinato, ha liberato la vera vita di questo chicco di grano, che nella ferialità della sua opera di evangelizzazione, moriva ogni giorno per portare frutto. Quella mano assassina ha amplificato oltre lo spazio e il tempo la sua delicata voce sacerdotale, e lo ha donato martire non solo a Brancaccio ma al mondo intero».
Successivamente il porporato si è soffermato sulla paternità del nuovo beato sintetizzata dall’acronimo “3P”, padre Pino Puglisi, e sulla sua «accoglienza che non guardava l’orologio», sebbene amasse definirsi «un rompiscatole». Egli fu «servo, pastore e padre, soprattutto verso i suoi prediletti»; i bambini, gli ultimi e i poveri; «gente spesso lontana dalle devozioni e dalle sagrestie» per la quale fu «un padre discreto nell’accompagnamento e nell’ascolto generoso», capace anche di ironizzare sui suoi difetti fisici, a cominciare «dalle sue orecchie grandi».
Ma sulle cose serie il parroco di San Gaetano non ha mai scherzato, specie nel quartiere Brancaccio dove «trovò bambini e giovani quotidianamente esposti a una “paternità” falsa e meschina, quella della mafia del quartiere, che rubava dignità e dava morte in cambio di protezione e sostegno». Perciò «la sua azione mirò a rendere presente un altro padre, il “Padre Nostro”. Secondo lui — ne ha ripetuto un gioco di parole riferito a uno dei nomi dell’organizzazione mafiosa — di “nostro” non può esserci “cosa”, che si impone a tutti attraverso un “padrino” onnipresente. Di “nostro” c’è solo Dio che ama tutti dentro e fuori la Chiesa». E questo trovò realizzazione nel «Centro Padre nostro», casa di accoglienza e struttura di pastorale parrocchiale «per vivere la missione al servizio della persona nella sua totalità». E così facendo il parroco martire «sottraeva alla mafia di Brancaccio consenso, manovalanza, controllo del territorio».
Infatti — ha proseguito il cardinale Romeo — «i mafiosi, che spesso pure si dicono e si mostrano credenti, muovono meccanismi di sopraffazione ed ingiustizia, di rancore, di odio, di violenza, di morte». E in proposito il ricordo del celebrante è andato alle altre vittime della mafia come i magistrati Rosario Livatino, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino: «L’azione assassina dei mafiosi ne rivela la vera essenza. Essi rifiutano il Dio della vita e dell’amore». Parole queste scandite dal lungo applauso dei fedeli, poi rinnovato quando l’arcivescovo ha rilanciato il grido di Giovanni Paolo II dalla Valle dei Templi il 9 maggio 1993: «Convertitevi, un giorno verrà il giudizio di Dio».
Il suo martirio «non ammonisce soltanto chi impasta religiosità esteriore e accondiscenza al male, ma interpella tutti a vivere ogni forma di male nel mondo professando una fede saldamente fondata sulla Parola e compiuta nella carità. La nostra fede vincerà solo se verrà testimoniata — ha concluso citando il beato — sintetizzando insieme evangelizzazione e promozione umana».
Almeno una quarantina i presuli concelebranti, soprattutto siciliani. Tra loro, i vescovi Mariano Crociata, segretario generale della Conferenza episcopale italiana, e Carmelo Cuttitta, ausiliare di Palermo, e l’arcivescovo Vincenzo Bertolone, postulatore della causa di canonizzazione, che tracciando il profilo biografico di don Puglisi all’inizio del rito, lo ha definito il «primo martire della mafia».
«L’esempio e l’intercessione di don Puglisi sacerdote esemplare, martire della fede e della carità educativa, in particolare verso i giovani, continui a suscitare nella comunità ecclesiale e civile risposte generose e coerenti alla chiamata di Cristo», ha auspicato in un messaggio il cardinale segretario di Stato, Tarcisio Bertone. «La beatificazione di padre Pino Puglisi — ha aggiunto — è un momento di festa e di testimonianza per la Chiesa che è a Palermo, in Sicilia e nell’Italia intera».
La cerimonia — durante la quale i fratelli del nuovo beato Gaetano e Franco Puglisi hanno aperto la processione offertoriale — è stata allietata da canti composti appositamente per la circostanza ed eseguiti da un coro polifonico di 230 elementi. Tra i presenti il presidente del Senato italiano Pietro Grasso e numerose personalità politiche nazionali e locali. Anche il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha fatto pervenire un messaggio in cui parla della «figura di un sacerdote il cui martirio costituisce una grande testimonianza di fede cristiana, di profonda generosità e di altissimo coraggio civile. L’orrore suscitato in tutto il Paese dal barbaro assassinio di don Puglisi e la sua intensa e feconda esperienza pastorale, svolta sempre nelle realtà più difficili della Sicilia» — ha aggiunto il capo dello Stato — continuano a costituire «un esempio per tutti coloro che non intendono piegarsi alle prevaricazioni della criminalità mafiosa».
L'Osservatore Romano
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(Mons. Vincenzo Bertolone, Arcivescovo di Catanzaro-Squillace postulatore della causa di canonizzazione) Viviamo un tempo in cui il cristianesimo sembra non riscaldare più molti cuori ed è minacciato da sfide visibili e da un silenzio indifferente. Eppure, nonostante tutto, esso vive e si rigenera. Anche nel sangue dei martiri. Lo ricorda la beatificazione di don Pino Puglisi. Esito felice di una causa giunta all’approdo finale dopo aver dato risposta a due interrogativi basilari: davvero è stato assassinato in odio alla fede? Nessun altro motivo può essere addotto a giustificazione del suo omicidio? Quello di don Puglisi non fu un crimine come tanti altri, ma un atto contro la fede che egli professava e contro il ministero sacerdotale che esercitava. Egli fu assassinato perché sacerdote testimone della verità della fede, dell’unicità di Dio, della salvezza delle anime, della sacralità della vita, della dignità della persona umana. Tutto scritto in una vita, quella di Pino Puglisi, breve ma radiosa. Come il sorriso che ne diventa la nota distintiva e che scioglie i ghiacci e il peccato, al punto che il suo sicario, Salvatore Grigoli, una volta saltato il fosso, spiegherà d’aver scelto di cambiare registro e di voler collaborare con la giustizia anche perché spinto dalla forza di quel sorriso.
Puglisi nasce a Palermo, nel rione di Settecannoli, il 15 settembre 1937. A sedici anni entra nel seminario arcivescovile di Palermo. Il 2 luglio 1960 è ordinato sacerdote dal cardinale Ernesto Ruffini. Nel 1967 diventa cappellano all’istituto Roosevelt per orfani di lavoratori, nel quartiere Addaura, e vicario presso la parrocchia Maria Santissima Assunta, nella borgata di Valdesi. Tra il 1970 ed il 1978 è parroco a Godrano, paese dell’entroterra dilaniato da faide. Nel frattempo continua a insegnare religione, prima in una scuola media e dal 1978 e fino alla morte nel liceo classico palermitano Vittorio Emanuele II. Il 9 agosto 1978 è nominato prorettore del seminario minore di Palermo; il 24 novembre 1979 direttore del centro diocesano vocazioni. Nel 1983 diviene responsabile del centro regionale vocazioni e membro del consiglio nazionale. Nell’ottobre del 1990, mentre svolge il suo ministero sacerdotale anche presso la casa Madonna dell’Accoglienza di Boccadifalco, in favore di ragazze madri in difficoltà, viene nominato parroco della chiesa di San Gaetano, nella borgata di Brancaccio, dominata da boss sanguinari. D’intesa con l’arcivescovo, il cardinale Salvatore Pappalardo, chiama a operare nella zona alcune Sorelle dei poveri di Santa Caterina da Siena, alle quali affiderà, nel 1993, il centro di promozione Padre Nostro, per l’evangelizzazione e l’educazione dei bambini, strappandoli ai malavitosi che se ne servono come manovalanza criminale.
L’evangelizzazione in senso stretto è il cuore del suo agire. La quotidianità semplice della pastorale della Chiesa è la cifra del suo agire. Anni di intenso ministero sacerdotale; una formazione teologica illuminata sempre dalla Parola di Dio e aggiornata secondo le indicazioni magisteriali e la dottrina sociale della Chiesa; l’obbedienza al proprio pastore e la certezza della necessità dell’azione educativa costituiscono per lui le coordinate per essere testimone di Cristo e interprete di un cristianesimo vissuto con quella radicalità delle scelte che rende differenti i corsi delle vicende umane. Al punto che dall’altare, più volte, lui stesso ammonisce: «Se Dio è con noi chi sarà contro di noi? Io non ho paura di morire, se quello che dico è la verità».
Il 15 settembre 1993, giorno del suo cinquantaseiesimo compleanno, la mafia lo uccide. E che di mafia si tratti in odio al ministero sacerdotale lo attestano elementi inconfutabili: due distinte sentenze penali con forza di giudicato, a carico di esecutori e mandanti che sapevano di colpire un testimone di Cristo; la natura anticristiana della mafia; le testimonianze acquisite in sede di inchiesta canonica; la coerenza dimostrata con la disponibilità al supremo sacrificio, non deliberatamente cercato, ma coscientemente e serenamente accettato.
I capi del mandamento mafioso di Brancaccio, sopprimendolo pensavano di aver vinto. Sbagliavano: la fama del martirio si diffonde subito. Nel dicembre 1998 il cardinale Salvatore De Giorgi annuncia di voler dare inizio all’inchiesta per il riconoscimento del martirio. La causa si concluderà il 5 giugno 2012 con il riconoscimento che il servo di Dio fu ucciso in odium fidei per la sua fedeltà a Cristo e alla Chiesa. Il caso può essere così sottoposto a Benedetto XVI, che il successivo 28 giugno firma il decreto e autorizza la beatificazione per martirio.
In ossequio alla loro religione i mafiosi uccidono Puglisi in odio alla sua, e ciò non può essere assimilato a un semplice problema di legalità o illegalità, giustizia e ingiustizia sociale: la mafia è una religione e non solo un fenomeno criminale, e non ammette altre fedi. È questo, e non altro, che ha provocato l’odio dei mandanti e dell’assassino, che sapeva bene di ammazzare un uomo della Chiesa di Cristo coerente con la sua fede, fino al martirio.
Cosa resta, oggi, di quel sacrificio? La figura di Puglisi, esempio di tanti altri che come lui hanno affrontato o continuano coraggiosamente ad affrontare in Sicilia e altrove senza riserve né cedimenti la sfida al male ed ai maligni, è una trasfusione di speranza per i preti, per la gente, per le Chiese di Sicilia, dell’Italia e del mondo intero. È il segno di un Vangelo che rinasce e attecchisce comunque, specie in territori, purtroppo infelici, spesso coincidenti con i sud del mondo, dove le organizzazioni criminali, più semplicemente la violenza, mortificano la vita, con ciò negando in radice l’insegnamento di Cristo. Il suo martirio è stato il segno dell’insanabile e definitiva rottura tra Vangelo, mafia ed altre consimili società delinquenziali. È la profezia per l’oggi: la solitudine nella quale avvenne il suo martirio è diventata la compagnia della nostra azione.
L'Osservatore Romano