martedì 28 maggio 2013

Misericordia e castigo nello Jus Ecclesiae



(Francesco Coccopalmerio) Di seguito la prima parte di un intervento del cardinale presidente del Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi al convegno «Misericordia e castigo nello Jus Ecclesiae» che si è svolto in Romania, nel convento di Roman, per iniziativa della Provincia francescana dei conventuali. 
Il convegno è stato organizzato grazie al contributo della Facoltà di Teologia pastorale dell’Istituto Teologico Francescano di Romania, dell’Accademia historico-iuridico-theologica «Petrus Tocanel», del Comitato nazionale italiano per lo studio del principio di solidarietà, fraternità e uguaglianza da Leone XIII alla Costituzione europea e dell’Accademia Giuridica Utriusque Iuris di Roma.

 di Francesco Coccopalmerio

«È inevitabile che vengano scandali, ma guai all’uomo a causa del quale viene lo scandalo» (Matteo, 18, 7). «Chi scandalizza uno solo di questi piccoli che credono in me, conviene che gli venga appesa al collo una macina da mulino e sia gettato nel profondo del mare» (Matteo, 18, 6). Questa parola di Gesù ci ricorda con vivo dolore che purtroppo il male esiste, che purtroppo i delitti avvengono e che sono particolarmente gravi quando causano danno (nei testi chiamato “scandalo”) a coloro che credono in Gesù, specie a quelli più piccoli.
A questo punto si pone il problema, si pone la domanda certamente ansiogena, anzi angosciosa: quale è, quale deve essere il comportamento corretto della Chiesa, in modo particolare del vescovo diocesano, che è responsabile ultimo del bene dei suoi fedeli? In tale domanda è contenuto il diritto penale. Che cosa è il diritto penale? Possiamo offrire una spiegazione. in forma del tutto sintetica e quindi assolutamente elementare: la Chiesa individua in modo diretto oppure conosce dal diritto divino alcune azioni, che sono negative, contrarie al Vangelo, alla morale cristiana, alla vita della comunità; per il soggetto responsabile di tali azioni statuisce una pena, cioè la privazione di un certo bene, privazione che causa una condizione di sofferenza. Basta un semplice sguardo per cogliere con immediata evidenza che i due elementi sopra indicati, azione negativa e conseguente pena a chi la compie, sono presenti nelle parole di Gesù: causare scandalo ai fedeli (è l’azione negativa), appendere una macina da mulino e gettare nel profondo del mare (è la conseguente pena a chi causa scandalo).
Non risulta sempre facile capire la natura e l’importanza del diritto canonico penale. Può essere utile partire da una situazione concreta, e cioè quella di un sacerdote, che compie una violazione del sigillo della confessione. Ci chiediamo dunque: di fronte a questo atto il vescovo diocesano come deve comportarsi, cosa deve fare? Risulta chiaro che, se il vescovo diocesano non facesse nulla, apparirebbe a tutti come colui che approva l’accaduto, cioè il male o che, per lo meno, non lo condanna. Nell’esempio sopra utilizzato, il vescovo diocesano apparirebbe come colui che dicesse: «Violare il sigillo della confessione non è un male grave. E ciò si ricava dal fatto che io, vescovo diocesano, non ho detto nulla, sono rimasto tranquillo». Ora appare evidente che ciò sarebbe inammissibile, per l’ovvio motivo che la Chiesa non può assolutamente approvare, o non può assolutamente non disapprovare, un atto negativo, cioè un male. Non può il vescovo chiudere gli occhi davanti al male, comportarsi, quindi, come se nulla fosse accaduto, “insabbiare” — come si dice — una violazione del sigillo sacramentale.
Mi piace riportare qui un brano di un lucido esegeta, che commentaMatteo, 18, 25-30 relativo al peccato del fedele e alla reazione della comunità ecclesiale: «La comunità deve prendere le distanze dal peccato. Il peccato la ferisce dentro e fuori. All’interno, perché costituisce motivo di scandalo per i piccoli e indebolisce la vita dell’intera comunità impedendole di produrre quei frutti a cui è chiamata. E all’esterno, perché le impedisce di apparire come segno innalzato fra le nazioni, di essere l’anticipo del mondo nuovo purificato e fraterno. In questo senso la reazione al peccato fa parte del perdono. Così ha fatto Gesù e così deve fare la comunità» (Bruno Maggioni, Il racconto di Matteo, Assisi, Cittadella, 1966).
E mi piace riportare altresì quanto Benedetto XVI ha chiaramente affermato nell’omelia dell’11 giugno 2010, in occasione della chiusura dell’Anno sacerdotale: «“Il tuo bastone e il tuo vincastro mi danno sicurezza”: il pastore ha bisogno del bastone contro le bestie selvatiche che vogliono irrompere tra il gregge, contro i briganti che cercano il loro bottino. Accanto al bastone c’è il vincastro che dona sostegno e aiuta ad attraversare passaggi difficili. Ambedue le cose rientrano anche nel ministero della Chiesa, nel ministero del sacerdote. Anche la Chiesa deve usare il bastone del pastore, il bastone col quale protegge la fede contro i falsificatori, contro gli orientamenti che sono, in realtà, disorientamenti. Proprio l’uso del bastone può essere un servizio di amore. Oggi vediamo che non si tratta di amore, quando si tollerano comportamenti indegni della vita sacerdotale. Come pure non si tratta di amore se si lascia proliferare l’eresia, il travisamento e il disfacimento della fede, come se noi autonomamente inventassimo la fede. Come se non fosse più dono di Dio, la perla preziosa che non ci lasciamo strappare via. Al tempo stesso, però, il bastone deve sempre di nuovo diventare il vincastro del pastore — vincastro che aiuti gli uomini a poter camminare su sentieri difficili e a seguire il Signore».
Se le cose stanno così, quale deve essere il comportamento del vescovo diocesano? Deve essere una reazione al male. Vediamo di spiegarci con maggiore precisione. Riprendiamo l’esempio sopra utilizzato: il vescovo diocesano ha notizia che un suo sacerdote ha violato il sigillo sacramentale; il vescovo conosce il suo dovere di reagire al male, cioè di far capire che l’accaduto è un male. In che consiste, o può consistere, o deve consistere, tale reazione? Dobbiamo essere convinti e dobbiamo affermare con decisione: la reazione al male comporta anche il discorso sulla pena come privazione di un bene, privazione che causa una condizione di sofferenza. La pena ha, dunque, la primaria duplice finalità di condannare il delitto, infliggendo un male a chi ha compiuto un male, e di riparare lo scandalo, dichiarando che certe azioni sono contrarie al Vangelo, alla morale cristiana, alla vita della Chiesa. La pena ha poi, una ulteriore duplice finalità: esortare o spingere alla conversione chi ha compiuto il male, conversione che contiene al contempo la adeguata riparazione del danno inferto alle vittime del delitto, e distogliere altri fedeli dal compiere azioni similari oppure il reo stesso dal ripetere il proprio errore.
Una facile obiezione: come è giustificabile che il compimento del bene o il non compimento del male, che presuppone, come ovvio, una scelta assolutamente libera, possa venire comandato, possa venire forzato mediante l’inflizione, o la eventuale inflizione, di una pena canonica? Alla obiezione si risponde che la nostra libertà è, purtroppo, spesso condizionata da elementi che la rendono assai precaria, così che essa necessita del “sostegno” di un elemento proveniente dall’esterno, quale è, appunto, la condizione di sofferenza determinata dalla pena.
È comunque innegabile che il castigo per amore, cioè per facilitare la conversione, può essere ritrovato in tutta la Sacra Scrittura. Ci limitiamo ad alcuni accenni dal solo Nuovo Testamento. Perfino in quello che riteniamo il «testamento spirituale» di Gesù troviamo una minaccia per amore: «Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo, ma chi non crederà sarà condannato» (Marco, 16, 16). Lo stesso ritroviamo con chiarezza nei primi discorsi degli apostoli: «E badate: chiunque non ascolterà quel profeta sarà estirpato di mezzo al popolo» (Atti degli apostoli, 3, 23). La minaccia è applicata nell’episodio di Anania e Saffira (Atti, 5, 1-11), il cui racconto si conclude con l’annotazione: «E un grande timore si diffuse in tutta la Chiesa e in quanti venivano a sapere queste cose» (Atti, 5, 11). Comunque il medesimo stile è facilmente ritrovabile in tutto il Nuovo Testamento, particolarmente negli scritti di Paolo soprattutto nel noto passo di 1 Corinzi, 5, 1-5, dove abbiamo un comportamento negativo (un incesto), una pena («la consegna a Satana», in altre parole la privazione di un bene) e una finalità («affinché il suo spirito possa ottenere la salvezza nel giorno del Signore», in altre parole la conversione e la salvezza del reo). Passo similare in 1 Timoteo, 1, 19-20: «Imeneo e Alessandro, che ho consegnato a satana, perché imparino a non più bestemmiare». 
Possiamo ugualmente citare 2 Corinzi, 10, 6, anche se il testo è meno determinato nel senso di una pena formalmente intesa: «Perciò siamo pronti a punire qualsiasi disobbedienza». La stessa coazione per amore possiamo chiaramente ritrovare fin nelle pagine dell’Apocalisse, i cui primi capitoli sono una dura requisitoria contro i rappresentanti di varie Chiese con rimproveri e minacce secondo il seguente, ripetuto schema: se il responsabile non si converte, verrà castigato (cfr. 2, 5.16.21-23; 3, 3.19). Particolarmente significativo nella logica del rimprovero e del castigo per amore è 3, 19: «Io, tutti quelli che amo, li rimprovero e li castigo». Riportiamo ancora il pensiero di Bruno Maggioni: «Ma anche in questa prospettiva di denuncia e correzione, che può giungere persino alla scomunica, si noti che lo scopo è sempre quello di aiutare il fratello a prendere coscienza del suo stato di separazione, perché possa, di conseguenza, ravvedersi. È l’unico scopo possibile. Come potrebbe essere diversamente per una Chiesa che vuole imitare il pastore che va in cerca della pecora smarrita? Potremmo anche dire che lo scopo è di creare ai peccatori un disagio, perché è proprio in una situazione di disagio che spesso Dio si inserisce e spinge al ritorno (cfr. ad esempio la parabola del prodigo di Luca, 15)».
Se le cose stanno come le abbiamo indicate, se la natura e la funzione del diritto canonico penale sono quelle descritte, i vescovi diocesani devono sentire, e non possono non sentire, l’importanza del diritto penale e conseguentemente il loro dovere di applicarlo nei casi concreti, come autentica manifestazione del loro amore pastorale.
L'Osservatore Romano