sabato 20 aprile 2013

Tra economia e solidarietà




(Paolo Pecorari) Il perdurare dell’attuale crisi economica e finanziaria rende opportuna qualche considerazione sull’economia sociale di mercato e sulle sue relazioni con la dottrina sociale della Chiesa, intesa come il risultato di una riflessione sulle complesse realtà dell’esistenza dell’uomo, nella società e nel contesto internazionale, alla luce della fede e della ragione (Giovanni Paolo II). Ciò comporta un’impostazione non individualistica, bensì personalistica dell’economia, a cominciare dal riconoscimento dei limiti della teoria classica, che, esasperando e assolutizzando il ruolo dell’homo oeconomicus, pone come unico obiettivo la massimizzazione della funzione di utilità, col risultato che ogni intervento esterno al libero gioco della domanda e dell’offerta, ogni correttivo all’azione della «mano invisibile», diventa indebito, anzi dannoso. 
Nessun dubbio che le relazioni interpersonali concretizzantisi nello scambio si svolgono nel mercato e che in esso gli operatori economici manifestano le loro esigenze e tentano di soddisfare i loro bisogni. Il mercato però non è solo il luogo della libera concorrenza, libera nel senso di priva di qualsiasi coordinamento e controllo. Pur essendo espressione della volontà dei contraenti, esso necessita di regole per rendere effettiva l’ottimale allocazione delle risorse, senza la quale l’inefficienza è particolarmente deleteria, dal momento che non danneggia solo i singoli operatori, ma, in ultima analisi, l’intera comunità. 
Posta sulla base di norme certe ispirate a principi etici condivisi, la concorrenza, lungi dal mirare a una astratta neutralità, diventa un bene di pubblica tutela. Allo scopo, è fondamentale il ruolo dello Stato, nel senso che la mano pubblica può (e deve) intervenire nei processi economici secondo la logica della sussidiarietà, la quale nell’utile individuale non vede l’unico indicatore da prendere in considerazione, ma solo uno degli indicatori, mentre nell’economia sociale di mercato riconosce l’importanza fondamentale delle risorse umane, oltre che, ovviamente, del progresso scientifico-tecnologico, delle disponibilità finanziarie. Un tale intervento non riduce la libertà, ma la rende efficace e più estesa, come scrive Wilhelm Röpke, che, mentre legittima l’azione dello Stato in economia, rigetta ogni forma di cogente e oppressivo dirigismo. 
In altre parole, si tratta di armonizzare libero mercato e intervento pubblico, a condizione che il secondo sia conforme alle leggi “scientifiche” del primo e soddisfi nel contempo le esigenze della crescita, dell’equità, della giustizia. Ciò perché se da un lato l’economia di mercato è condizione necessaria per l’edificazione di una società dal volto umano, e dunque tale da consentire lo sviluppo integrale della persona, dall’altro lato, attenendosi a “condizioni quadro” istituzionali, esige un’efficace regolamentazione delle forme di concorrenza, dell’ordinamento monetario, della politica tributaria, del lavoro, dell’ordinamento territoriale, superando le logiche particolaristiche e rinunciando alla difesa di troppo frammentati interessi. 
Occorre beninteso distinguere tra intervento pubblico e intervento pubblico, tra intervento pianificatore (statalistico) e intervento sussidiario: uno pervasivo, l’altro sostanziato di solidarietà e rispettoso dei corpi intermedi; uno da evitare, l’altro da perseguire, tenendo conto che non tutto si esaurisce sul piano dell’utilitarismo individuale e materiale. In particolare, per ciò che attiene alla solidarietà, gioverà ricordare che la nozione di essa permea la dottrina sociale della Chiesa e, per taluni aspetti, anche la tradizione giudaico-cristiana, la quale, concependo Dio come Padre, porta all’idea di umanità intesa come famiglia (gli uomini figli di Dio e fra loro fratelli). D’altra parte, la solidarietà non va confusa con l’assistenzialismo, ossia col rapporto squilibrato tra un soggetto che eroga risorse e uno che le riceve, senza che altro obbligo sussista tra i due.
Si tratta di una precisazione fondamentale soprattutto nelle società complesse, dove le molteplici articolazioni e la differenziazione dei ruoli esigono che, per quanto possibile, ciascuno faccia la sua parte, dia la propria collaborazione, consapevole del carattere di complementarità dell’agire soggettivo. Non tenere presente tale distinzione introduce elementi distorsivi e la solidarietà, da organica quale può e deve essere, diviene meccanica, perché accompagnata dall’allentarsi dei vincoli di appartenenza sociale. Su questo specifico punto, è significativo che la Rerum novarum e la Quadragesimo anno si richiamino all’organicismo sociale e che tale magistero non conosca soluzioni di continuità fino a Benedetto XVI.
Tralasciare la dimensione organicistica modifica la natura della solidarietà, ne restringe gli orizzonti, ne circoscrive l’ambito. Alla solidarietà endogena, “fra di noi”, in un piccolo gruppo, in una corporazione, può seguire il conflitto o, quanto meno, l’estraneità nei confronti di altri soggetti collettivi. Il tutto accentuato dall’atomizzazione della vita sociale e dalla competizione che evolve in egoismo. 
Di qui l’esigenza di alimentare e far crescere un terzo tipo di solidarietà, non chiusa ma aperta, che potrebbe essere chiamata “istituzionale”, in quanto è allo Stato (sussidiario) che spetta di realizzare un sistema di servizi e politiche sociali coinvolgenti, attraverso la ridistribuzione (equo sistema fiscale), tutti i cittadini, sia pure in modo differenziato.
Solidarietà autentica ed economia sociale di mercato non sono dunque confliggenti. Bisognerebbe riflettere su ciò e adoperarsi, con rinnovata energia, a trovare soluzioni il più possibile adeguate ai problemi e sempre, comunque, a misura d’uomo.
L'Osservatore Romano, 20 aprile 2013.