martedì 2 aprile 2013

Papa Francesco: Noi come cittadini, noi come popolo


In occasione del bicentenario della Nazione argentina, il cardinale Bergoglio tenne un importante discorso che riassume il suo pensiero sociale. Il testo è ora pubblicato in italiano con il titolo Noi come cittadini. Noi come popolo. Verso un bicentenario in giustizia e solidarietà 2011-2016 e una presentazione del vescovo Mario Toso (Città del Vaticano - Milano, Libreria Editrice Vaticana - Jaca Book, 2013, pagine 96, euro 9). Anticipiamo uno stralcio del volume e la prefazione del direttore della Scuola di Relazioni Internazionali della Facoltà di Scienze Sociali dell’università del Salvador.
La politica come forma alta di carità
(Jorge Mario Bergoglio) Ognuno di noi deve recuperare sempre più concretamente la propria identità personale come cittadino, ma orientato al bene comune. Etimologicamente, cittadino viene dal latino citatorium. Il cittadino è il convocato, il chiamato al bene comune, convocato perché si associ in vista del bene comune.
Cittadino non è il soggetto preso individualmente, come lo presentavano i liberali classici, né un gruppo di persone indistinte, ciò che in termini filosofici si definisce «l’unità di accumulazione». Si tratta di persone convocate a creare un’unione che tende al bene comune, in certo modo ordinata; ciò che viene definito «l’unità di ordine». Il cittadino entra in un ordinamento armonico, talora disarmonico a causa delle crisi e dei conflitti, ma comunque un ordinamento, finalizzato al bene comune.
Per formare comunità ciascuno ha un munus, un ufficio, un compito, un obbligo, un darsi, un impegnarsi, un dedicarsi agli altri. Queste categorie, che ci vengono dal patrimonio storico-culturale, sono cadute nell’oblio, oscurate di fronte all’impellente spinta dell’individualismo consumistico che unicamente chiede, esige, domanda, critica, moraleggia e, incentrato su se stesso, non aggrega, non scommette, non rischia, non “si mette in gioco” per gli altri.
Non basta l’appartenenza alla società per essere pienamente cittadino; per avere la piena identità di cittadino non basta, anche se è un grande passo, appartenere a una società. Stare in una società e appartenerle in quanto cittadino, nel senso di ordine, è un grande passo di funzionalità. Ma la persona sociale acquisisce la sua piena identità di cittadino nell’appartenenza a un popolo.
Questa è la chiave, perché identità è appartenenza. Non c’è identità senza appartenenza. La sfida dell’identità di una persona come cittadino è direttamente proporzionale al modo in cui essa vive questa sua appartenenza. A chi? Al popolo dal quale nasce e nel quale vive. (...) Quando parliamo di cittadino, quindi, lo contrapponiamo alla massa di persone. Il cittadino non è il mucchio, l’ammasso amorfo. Esiste una differenza sostanziale tra massa e popolo. Popolo è la cittadinanza impegnata, riflessiva, consapevole e unita in vista di un obiettivo o un progetto comune.
In questa prospettiva, la riflessione sul cittadino, la riflessione esistenziale ed etica, culmina sempre in vocazione politica, nella chiamata a costruire con altri un popolo-nazione, un’esperienza di vita in comune attorno a valori e princìpi, a una storia, a costumi, lingua, fede, cause e sogni condivisi.
Se dunque il cittadino è qualcuno che è convocato e obbligato a contribuire al bene comune, per ciò stesso fa politica, che, secondo il magistero pontificio, è una forma alta della carità.
La sfida di essere cittadino, oltre ad essere un dato antropologico, si inquadra nell’orizzonte del politico. Si tratta infatti della chiamata e del dinamismo della bontà, che si dispiega verso l’amicizia sociale. E non si tratta di un’idea astratta di bontà, di una riflessione teorica che fonda un vago concetto di etica, un “eticismo”, ma di un’idea che si sviluppa nel dinamismo del bene, nella natura stessa della persona, nelle sue attitudini.
Sono due cose diverse. Ciò che rende la persona un cittadino è il dispiegarsi del dinamismo della bontà in vista dell’amicizia sociale. Non è la riflessione sulla bontà che crea vie etiche, le quali, in ultima istanza, possono portare ad attitudini che non concretizzano tutta la nostra capacità di bene. Una cosa è la bontà, altra cosa è l’etica astratta. Può addirittura esistere un’etica senza bontà. Sono tipici di un “esistenzialismo mediocre” l’intelligenza senza talento e un “eticismo” senza bontà. L'Osservatore Romano, 3 aprile 2013.

* * *


(José Paradiso) Possiamo apprezzare la densità del testo che abbiamo davanti solo attraverso successive letture e mediante quell’esercizio così poco frequente in tempi frenetici che favorisce scoperte a ogni visita. Un testo che mette in discussione la superficialità facendo ricorso a un’accessibile profondità. Una carta nautica per chi deve dirigere, in particolare per gli uomini e le donne impegnati in politica, e una imbarcazione sicura per quelli che saranno condotti o rappresentati senza rassegnarsi alla passività.
Come prima reazione, ascoltando il cardinale Bergoglio che presentava questo testo in occasione della XIII Giornata di Pastorale Sociale, mi venne in mente una metafora automobilistica: Bergoglio accendeva i fari alti, sommandoli alle luci di posizione, quelle che illuminano il cammino immediato, che indicano quel che abbiamo davanti. Un approccio preoccupato per quanto è vicino, ma orientato verso l’orizzonte lontano. Così facendo offriva una chiave di lettura fondamentale per il consolidamento dell’equazione democrazia, sviluppo e giustizia sociale: dare risposte alle domande del presente, affrontare le carestie materiali e spirituali che opprimono tante e tante persone, ma farlo con lo sguardo rivolto al futuro e dando a questo futuro le più ampie garanzie di un contesto più propizio alla realizzazione della persona.
Riempire l’oggi di futuro è percorrere il cammino opposto a quello che propone l’invadente dominio del profitto. È mettere in discussione la frivola leggerezza della società dell’acquistare. Lo sguardo di Bergoglio è attento ed è anche una forma di riscatto. Attento perché esplora angoli che una retorica convenzionale e piena di luoghi comuni preferisce lasciare in penombra o ai margini. Perché va al fondo dei processi, mette in discussione i soliti discorsi e non si adegua agli usi e alle definizioni che sono abitualmente meno innocenti di quanto appaiano. Attento alla natura e alle conseguenze di un capitalismo che consuma umanità negli ingranaggi del consumismo; alle rinnovate forme di individualismo; al momentaneo e al dominio del breve termine; alla presenza mediatica che riduce la politica a spettacolo o a mera immagine e privilegia l’annuncio pubblicitario all’esposizione delle idee; all’intelligenza senza talento — prospettiva autoreferenziale lontana dalla saggezza.
Una forma di riscatto perché cerca di restituire densità ed essenzialità alla politica e al politico. Perché parla della dignità del concetto e della realtà di un popolo. Perché espone l’intima e necessaria connessione tra la memoria e il progetto. Memoria di tutto e di tutti. Del tragitto percorso e dei periodi di arresto più vicini a noi e che vedono in campo colpe e responsabilità che non sono simmetriche. Riscatto dell’idea di utopia, intesa non come visione totalizzante e totalitaria, ma come meta di un progetto storicamente realizzabile, come orizzonte condiviso. Riscatto delle possibilità concrete del momento storico che vive il Paese e della necessità di mettere da parte ostilità che molto spesso riproducono quello che criticano. Riscatto dell’idea di progetto.
Attenzione e riscatto si fondono nel titolo dato al testo: «Noi come cittadini. Noi come popolo». Cittadini in seno a un popolo. Nel concetto di popolo c’è una vibrazione emancipatrice. Un’impronta identitaria con radici profonde, linfa e frutti. Un’esperienza, densa, di fraternità quotidiana e di generosità senza aspettativa di ricambio, preservata dalla massificazione. Un sentimento di cittadinanza attiva che esercita i suoi diritti ed esprime aspirazioni collettive. Il coinvolgimento con la sorte e il destino di un popolo è molto più di quella solidarietà in dosi omeopatiche che serve solo a tacitare una coscienza inquieta. È costruzione in comune e riconoscimento dell’altro. È lo sforzo per dotare di significati che sottendano la partecipazione e il coinvolgimento non sporadico nella sorte della comunità, di tutti e di ciascuno. Coinvolgimento con chi ci è più vicino e con l’intera umanità.
È importante sottolineare il riscatto dell’idea di sviluppo. Al riguardo il testo propone di riprendere il filo di un tema attorno al quale, in un passato non molto lontano, emerse e si espresse, con acutezza critica e tensione per la giustizia sociale, gran parte del pensiero argentino e latino-americano più qualificato. Un concetto che avrebbe trovato tutta la sua profondità dottrinale nell’assimilarsi al «nome della pace» e che, mettendo in discussione i dettami economici, proponeva per le nostre società forme alternative che avrebbero evitato molti dei problemi di oggi, tutt’altro che meri dati statistici privi di dolore e sofferenza per centinaia di migliaia di persone.
Tuttavia, l’ideologia del mercato autoregolato avrebbe preso la rivincita e, per qualche tempo, un codice paradossalmente intitolato “consenso” sarebbe diventato norma obbligata di pratiche socialmente ed ecologicamente devastatrici. È l’apologia degli aggiustamenti strutturali; quello che si sarebbe potuto evitare si è realizzato.
Da qui l’importanza del recupero dell’idea di sviluppo, ma sommato all’aggettivo “integrale”, come traduzione di un significato e di esigenze incentrate sui bisogni e sulle possibilità di un uomo assediato da forze che vogliono condannarlo all’insignificanza.
Nella visione del cardinal Bergoglio, la vita dell’uomo contemporaneo si dibatte tra grandi tensioni bipolari: tra la pienezza e il limite; tra l’idea e la realtà; tra la globalizzazione e la localizzazione. Sono grandi dilemmi nei quali si gioca il suo destino e non gli resta altra soluzione che riconoscerli e trovare il modo di risolverli creativamente. E così, ogni principio per affrontarli scarta interpretazioni immobiliste e adattamenti passivi che si rifugiano nel loro carattere complesso o in letture semplificanti e frammentarie: il tempo come orizzonte dei processi, l’unità come risposta alla conflittualità insita nella vita sociale, il primato della realtà pensata attraverso l’idea e di un tutto che è ricco nella singolarità delle parti. In conclusione, le parole capaci di far superare l’offuscamento e l’indifferenza sono state dette. Non ci resta che aspettarne la necessaria eco. Che diventino volontà e realizzazione nell’agire di un popolo.
L'Osservatore Romano 3 aprile 2013


* * *


Esce oggi in libreria «Noi come cittadini. Noi come popolo» (Jaka Book, pp. 96, 9,00 euro), un volume dedicato all'intervento del cardinale Bergoglio tenuto in occasione del bicentenario della nazione Argentina e che riassume il suo pensiero sociale. La prefazione è del segretario di Iustitia et Pax, Mario Toso. Ne anticipiamo un brano.



I governanti molte volte si formano in ambienti e con visioni lontane dalle esigenze del popolo e a questa divaricazione «culturale» si è aggiunto il fattore economico, diventato il principale obiettivo delle classi dirigenti.
La nostra politica spesso non si è messa in modo deciso al servizio del bene comune. Si è trasformata in uno strumento di lotta per un potere asservito a interessi individuali e settoriali; di conquista di posti e spazi più che di gestione di processi; e non ha saputo, non ha voluto o non ha potuto mettere limiti, contrappesi, equilibri al capitale per sradicare la disuguaglianza e la povertà, che sono i flagelli più gravi di questo momento storico.


Su questo argomento non ci sono posizioni ufficiali né opposizione, c’è solo una sconfitta collettiva. È una responsabilità che ci accomuna tutti. Tanti potranno spiegarci quanto sia difficile governare un paese in tempi di grandi cambiamenti e in un contesto globale nel quale molte decisioni sono fuori dalla portata dei nostri governanti. Ma, per quanto dipende da noi, dobbiamo smettere di puntare il dito su chi ci sta di fianco o dietro; perché ciò che abbiamo finito col lasciare – di fianco, dietro e in definitiva al di fuori da tutto – è un numero importante di nostri fratelli.


Non possiamo rassegnarci a un’idea di democrazia a bassa intensità, a livelli di povertà come quelli che ancora abbiamo, alla mancanza di definizione di un progetto strategico di sviluppo e di partecipazione internazionale, a una fisionomia della nostra cultura politica che gioca al «tutto o niente» in qualsiasi campo, in cui tutte le questioni opinabili, discutibili, negoziabili o persino modificabili sono trattate come se l’esistenza stessa del paese dipendesse da esse. Vengono così messe a serio rischio la convivenza, la stabilità, la governabilità, la necessaria sicurezza della vita in democrazia e, cosa ancora più grave, si mette a rischio quello per cui abbiamo tanto lottato: la crescita economica, l’aumento dell’occupazione, la relativa diminuzione della povertà, una serie di misure positive come il riconoscimento «universale» e l’integrazione nella regione – per fare solo alcuni esempi.


È in questo ambito che chi governa ha un ruolo fondamentale per valutare e favorire scenari che possano contribuire allo sviluppo di una democrazia partecipativa e sempre più sociale.
Fonte: Vatican Insider