sabato 20 aprile 2013

I Padri orientali e il Concilio Vaticano II




Sul tema «Il concilio Vaticano II e gli orientali» il cardinale prefetto della Congregazione per le Chiese Orientali ha tenuto un intervento — sintetizzato per noi in questa pagina — giovedì pomeriggio, 18 aprile, presso il Pontificio Collegio Pio Romeno, a Roma. L’incontro si è svolto nell’ambito del ciclo di conferenze sull’Anno della fede promosso dallo stesso Collegio e dall’ambasciata di Romania presso la Santa Sede, con il patrocinio del dicastero per la Chiese orientali.(Leonardo Sandri) Al Vaticano II parteciparono quasi duecento orientali (per “orientali” in questa riflessione intendo i cattolici delle antiche tradizioni d’Oriente: non sarà, però, un discorso riduttivo, perché è il concilio a volerli come un ponte sul vasto mondo dell’Oriente cristiano), su oltre duemila vescovi latini, desiderosi di offrire un apprezzabile insegnamento contenuto nei seguenti testi: la costituzione dogmatica Lumen gentium al numero 23 sottolinea l’origine apostolica delle Chiese orientali e in particolare delle Chiese patriarcali; il decreto Orientalium Ecclesiarum interamente dedicato alle Chiese orientali cattoliche (e ai numeri 24-29 nei rapporti con le Chiese ortodosse); il decreto Unitatis redintegratio, sull’ecumenismo, riguardante direttamente le Chiese ortodosse e le comunità ecclesiali provenienti dalla Riforma, nel numero 17 si riferisce ai cattolici orientali; il decreto Christus Dominus, che illustra ai numeri 23 e 38 la sollecitudine pastorale richiesta ai vescovi latini verso i fedeli orientali nelle rispettive diocesi e di quelli orientali nei cui territori esistono più Chiese di diverso rito; il decreto Presbyterorum ordinis, infine, al numero 16 tratta del celibato e dei sacerdoti orientali uniti in matrimonio.
Tra i presuli si distinse il patriarca greco-melchita, Maximos IV. Egli precisò che le ragioni dell’interesse ecumenico degli orientali vanno ricercate negli elementi provvidenziali della loro vocazione, come anche nel clima di libertà che i Papi Giovanni XXIII e Paolo VI hanno saputo dare alle deliberazioni del concilio. Come primo dato indicò il desiderio di riservare un posto all’“assente”, a quella ortodossia dalla quale provenivano e mai rinnegata, ma che avevano con sincerità creduto di dover concludere in una unione con il cattolicesimo romano. Il contatto, tuttavia, li portò a nutrirsi non solo dalle fonti esclusive del pensiero occidentale, bensì di risalire alle fonti viventi e vivificanti della verità cristiana, stabilendo un legame specialmente con i padri d’Oriente, conosciuti e vissuti attraverso una liturgia dove tutto il pensiero è condensato, e che avevano cercato di conservare puro da ogni deformazione.
Determinante fu l’apporto degli orientali ai due decreti: Orientalium Ecclesiarum e Unitatis redintegratio. Nutrendosi dell’ecclesiologia conciliare essi descrivono l’identità delle Chiese orientali nella comunione cattolica e la loro missione ecumenica, costituendo la fonte immediata della successiva codificazione canonica distinta da quella della Chiesa latina.
Nel 1990, il beato Giovanni Paolo II avrebbe effettivamente promulgato il Codice dei Canoni delle Chiese Orientali (Cceo), distinto dalla codificazione latina. Ma una autentica perla è costituita dal riconoscimento dell’origine apostolica delle Chiese cattoliche orientali. La sua peculiarità sta nella comunione piena con la Chiesa apostolica di Roma. Il decreto Orientalium Ecclesiarum configura per tale motivo le Chiese orientali in seno all’unica Chiesa di Cristo, che sussiste nella Chiesa cattolica, in una mirabile comunione, di modo che la varietà non solo non nuoce all’unità, ma anzi, la manifesta. Per questo il concilio è preso da sollecitudine per le Chiese orientali, che di questa tradizione sono testimoni viventi, desiderando che esse fioriscano e assolvano con nuovo vigore apostolico la missione loro affidata. Lo attesta, del resto, il decreto sull’ecumenismo: in esso il concilio, ringraziando Dio che molti orientali figli della Chiesa cattolica, i quali custodiscono questo patrimonio e desiderano viverlo con maggior purezza e pienezza, vivano già in piena comunione con i fratelli che seguono la tradizione occidentale (latina), dichiara che tutto questo patrimonio spirituale e liturgico, disciplinare e teologico, nelle diverse sue tradizioni appartiene alla piena cattolicità e apostolicità della Chiesa. Chiese orientali e Chiesa latina formano l’unica Chiesa cattolica e perciò sono uguali in dignità e godono della parità di diritti e doveri.
Fino al Vaticano II ancora si percepiva, infatti, il principio della praestantia ritus latini, che risaliva a Benedetto XIV, benché la questione fosse già chiarita nei documenti pontifici a cominciare da Leone XIII. L’idea sottostante era che il solo rito liturgico latino fosse garante in pienezza della cattolicità della vera fede cattolica. Il concilio instaurò una prospettiva nuova, dichiarando che le Chiese, sia di oriente che d’occidente (la Chiesa latina), godono di pari dignità, così che nessuna di loro prevale sulle altre per ragione del rito. L’identità ecclesiale e rituale accompagna gli orientali ovunque! Il concilio li esorta a conservarne sempre i riti liturgici legittimi e la disciplina, consentendo cambiamenti soltanto per motivi di progresso organico.
Il dicastero orientale ha, perciò, pubblicato il 6 gennaio 1996 un’istruzione per l’applicazione delle prescrizioni liturgiche del Codice dei Canoni delle Chiese Orientali onde assisterle al riguardo. È la sfida della fedeltà: a Cristo e alla Chiesa, al vangelo immutabile, ma anche all’uomo e alla storia, che sono invece mutevoli; fedeltà alle origini ma anche al presente proiettato verso un futuro che l’oggi sta già edificando e che è sicuro se ben ancorato nei suoi stessi inizi. Tanto più inderogabile diviene questa esigenza in considerazione del fenomeno inarrestabile delle migrazioni, che è un autentico «segno dei tempi». A salvaguardia dei fedeli orientali è riconosciuto il diritto di vigilanza dei patriarchi e degli arcivescovi maggiori ovunque nel mondo, che si intreccia con la sollecitudine della Sede apostolica, tramite la Congregazione orientale.
Siamo giunti così alla vera sintesi del messaggio conciliare per i cristiani orientali. La religiosa fedeltà alle antiche tradizioni, assieme alla preghiera, agli esempi di vita, alla mutua e migliore conoscenza, alla collaborazione e fraterna stima delle cose e degli animi, contribuiscono al massimo grado affinché le Chiese orientali che sono in piena comunione con la Sede apostolica romana adempiano al compito di promuovere l’unità di tutti i cristiani, specialmente orientali: ecco la missione conciliare!
È questa ansia per l’unità che dobbiamo chiedere insistentemente allo Spirito del Risorto per le Chiese orientali. Essa traspariva dal cuore del beato Giovanni XXIII allorché aprendo il concilio esortava la Chiesa a rallegrarsi per la comunione di tanti suoi figli (Gaudet mater Ecclesia!) e proponeva la «medicina della misericordia» — evitando la condanna — per avvicinarli. Chiedeva che si combattesse l’errore ma supplicava di salvare l’errante.
È l’ansia dalla quale scaturisce la gioia dell’evangelizzazione insegnata dal grande Paolo VI. La sentiamo tanto attuale in questo Anno della fede, che pone tutti — e a che livello i cristiani d’oriente — sulle vie — spesso strette ma evangeliche e perciò sicure — della nuova evangelizzazione. La respirava il beato Giovanni Paolo II, fin da giovane vescovo presente al Concilio. La esperimentiamo nella lettera apostolica Orientale lumen, come nella enciclica Ut unum sint. Col Patriarca Teoctist a Bucarest del resto aveva ascoltato e mai più dimenticato il grido di tutto il popolo romeno: Unitate! Unitate!
Papa Benedetto condivise pienamente l’anelito all’unità: rimane indimenticabile il suo monito allorché visitando la nostra Congregazione ribadì senza alcun dubbio che «la scelta ecumenica operata dal concilio è irreversibile» e che le tradizioni dell’Oriente cristiano sono patrimonio di tutta la Chiesa, compresa quella latina, e riferimento indispensabile per il futuro.
Così possiamo concludere con Papa Francesco per indicare a tutti gli orientali — cattolici e ortodossi — la parola di unità che egli ha pronunciato il Venerdì santo al Colosseo: «I cristiani devono rispondere al male con il bene, prendendo su di sé la Croce, come Gesù. Questa sera abbiamo sentito la testimonianza dei nostri fratelli del Libano... la bellezza e la forza della comunione dei cristiani di quella Terra e dell’amicizia di tanti fratelli musulmani e di molti altri. È stato un segno di speranza. Camminiamo insieme sulla via della Croce, portando nel cuore questa Parola di amore e di perdono. Camminiamo aspettando la Risurrezione di Gesù, che ci ama tanto. È tutto amore».
La croce tutti ci unisce! Ecco l’augurio pasquale e pienamente conciliare per i cristiani di ogni confessione nei loro rapporti con le altre religioni e con ogni uomo e donna di buona volontà. Pensiamo ai cristiani di Terra Santa, Siria, Iraq. Ma anche a quelli di Romania e a ciascuno di noi. L'Osservatore Romano, 20 aprile 2013.

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 Visita del cardinale Leonardo Sandri al Monastero Russo della Dormizione della Madre di Dio Sala stampa della Santa Sede
Il Cardinale Leonardo Sandri, Prefetto della Congregazione per le Chiese Orientali, accompagnato dal Sotto-Segretario Mons. Malvestiti e da alcuni Officiali del Dicastero, nella solennità dell'Annunciazione del Signore si è recato in visita l’8 aprile sorso al Monastero (...)