domenica 28 aprile 2013

Come fa il Papa un gesuita?





«Buonasera, mi passa padre Miguel Yáñez per favore?».
«Chi devo dire?»
«Sono Papa Francesco».
Docente di teologia morale alla Gregoriana, padre Yáñez è stato il secondo gesuita che Jorge Mario Bergoglio ha voluto chiamare appena eletto al soglio di Pietro. Prima di lui, ha telefonato a suo nipote, padre José Luis Narvaja, anch’egli gesuita, direttore dell’Istituto Thomas Falkner per lo studio delle fonti, e docente di teologia e patristica in Salvador, in Germania e alla stessa Gregoriana.
Non si è trattato semplicemente di un saluto, piuttosto della volontà di marcare il terreno, di ricordare anzitutto ai propri confratelli che della Gregoriana, l’università dei gesuiti ritenuta da sempre la più prestigiosa fra quelle pontificie, egli non intende fare a meno.
La sfida, infatti, è improba. Primo Papa religioso dai tempi del camaldolese Gregorio XVI (1831-’46) che seppe respingere gli assalti dei «lupi rapaci» e cioè della stampa che, disse, «divulgava scritti di qualunque genere», Papa Francesco deve fare di più: non solo respingere l’attacco alla fortezza da parte dei lupi più duro di sempre – nessuno ricorda, in tempi recenti, nulla di paragonabile all’affaire Vatileaks – ma anche ribaltare le carte in tavola, rilanciare una Chiesa in affanno anche a motivo di inadeguatezze e scandali di coloro che, per citare Joseph Ratzinger, «nel sacerdozio dovrebbero appartenere completamente a lui».
Ce la farà? «Non ho dubbi in merito», dice padre Rogelio García Mateo, gesuita spagnolo, non soltanto docente fra i più preparati alla Gregoriana di spiritualità ignaziana, ma anche testimone diretto degli esordi di padre Bergoglio in quel di Buenos Aires oltre trent’anni fa: era rettore del «collegio massimo», la facoltà di filosofia e teologia dei gesuiti argentini, il primo incarico di pregio del futuro Papa. Dice: «Allora Bergoglio guidava il collegio come oggi guida la Chiesa. Non era un manager, ma rettore e insieme compagno di cammino dei suoi alunni. Azione e contemplazione nello stesso tempo, in questo del tutto discepolo di sant’Ignazio di Loyola».
Sempre in itinere il rapporto dei gesuiti col papato. Dice Rogelio García: «Pio XII, alunno della Gregoriana, ci amava, anche grazie al suo segretario “nascosto”, il gesuita tedesco Robert Leiber, professore di storia della Chiesa sempre in Gregoriana. Giovanni XXIII forse meno: quando prese possesso del Laterano non si fermò a salutare i padri schierati davanti alla Chiesa del Gesù a Roma: “Che schiaffo!”, commentarono i cronisti del tempo. Paolo VI fu anch’egli alunno della Gregoriana. Molto sostenne la spinta del preposito generale padre Pedro Arrupe verso l’essenzialità e la povertà ignaziana. Giovanni Paolo I avrebbe voluto addirittura farsi gesuita. Era seminarista a Vittorio Veneto quando venne folgorato da una predicazione di un padre. In fila dietro ai futuri padri gesuiti Busa e Strim, chiese al vescovo di poter entrare nella Compagnia. Questi gli disse: “Due sì, tre no, mi spiace”. Prima di Benedetto XVI, col quale abbiamo tutt’ora un rapporto di grande cordialità, Giovanni Paolo II. Con lui fu un riconosciuto rapporto d’incomprensione. Sembra che non capisse la Compagnia, così il suo entourage».
Anni di missione in terre ostili quelli di Wojtyla. La fede conficcata come spada in un mondo chiamato a risorgere dalle grandi ideologie che negavano il divino. Tempi non semplici per padre Arrupe e i suoi gesuiti: il loro modello di Chiesa, infatti, povera ed essenziale, sembrava non piacere al Papa polacco. Prediligeva i Legionari di Cristo, che spesso non mancavano di dire di essere loro «i veri gesuiti», perché retti in modo militare.
Arrupe, invece, aveva preso il vento del Concilio e, riscoprendo il carisma ignaziano, provava a far veleggiare la Compagnia verso lidi al cui centro vi fossero abbassamento evangelico e beatitudini, bisognosi ed ultimi. La Santa Sede, anche per colpa degli stessi gesuiti che non si espressero nei modi migliori, interpretò la svolta come un’apertura alle istanze marxiste vicine a una certa teologia della liberazione e chiuse le porte ad Arrupe che pensò di dimettersi, ma Giovanni Paolo II non accettò le dimissioni.
Dice ancora García Mateo: «Fu un momento difficile. Dopo la malattia che immobilizzò Arrupe, Wojtyla commissariò la Compagnia affidandola ai gesuiti italiani Paolo Dezza e Giuseppe Pittau. I due delegati pontifici furono abili nel “traghettare”, in soli due anni, la Compagnia fino allo svolgimento della trentatreesima Congregazione generale, che il 13 settembre ’83 elesse Peter Hans Kolvenbach preposito generale il quale, successivamente, fu anche il primo “Papa nero” a dimettersi nella storia dei gesuiti. Che dire? Forse in Vaticano non avevano compreso che la svolta di Arrupe, sebbene rischiosa, non mirava ad altro che ad applicare l’opzione preferenziale per i poveri secondo il Vangelo, come missione della Compagnia oggi, senza per questo dimenticare l’apostolato intellettuale nei collegi e nelle università».
L’opzione per i poveri come un ritorno alla purezza dei primi tempi, al fondatore, a Sant’Ignazio. Spiega Antonio Spadaro, direttore de La Civiltà Cattolica: «Bergoglio ha il piglio tipico gesuitico. Colpisce subito la sua retorica, plasmata dagli “Esercizi Spirituali” di Ignazio. Ogni suo discorso è diviso in tre punti, spesso tre parole. Le sue omelie in genere sono così, come erano così quelle del cardinale Martini. “Non multa sed multum”. Poche cose ma dense, insomma. E sempre riferite a un interlocutore non generico, ma a un “tu” personale. Nella pedagogia ignaziana il vero criterio è la “cura personale”. Un’altra dimensione ignaziana che mi sembra ben presente in questi primi giorni di papato è legata al fatto che il superiore prima di prendere una decisione si consulta a lungo e ad ampio raggio, ma poi l’ultima parola è sua. È una struttura di governo essenziale e dinamica, molto utile per un “corpo apostolico” come il nostro inviato in missione. Il gesuita è abituato a partire e stare in frontiera, a volte anche in solitudine. I nostri grandi modelli sono Francesco Saverio e Matteo Ricci, abitatori di frontiere fisiche e metaforiche. L’obbedienza per la missione è poi al Papa perché Ignazio vedeva in lui la persona che nella chiesa ha una visione più universale e sa dove sono le urgenze più impellenti. Di qui il nostro quarto voto di obbedienza al Papa, appunto».
Obbedire al Papa, dopo i voti di castità, fedeltà ed obbedienza. Quattro voti che segnano l’adesione a una vita di sacrifici. Si lascia tutto per Cristo, si diventa poveri fra poveri. Un tema, quello della Chiesa povera, che non a caso ritorna spesso nelle parole di Papa Francesco e che magari potrà tornare in futuro in nuovi testi. Così l’ecclesiologia del Vaticano II con quel teologo gesuita citato più volte Henri de Lubac. Questi fu maestro di Hans Urs Von Balthasar, il teologo fondatore di Communio, grande “amore” di Ratzinger. Con Jean Daniélou, altro gesuita poi divenuto cardinale, fondò la collana Sources Chrétiennes, un modo per fomentare lo studio dei padri della Chiesa.
Dice padre Giacomo Costa, gesuita, direttore della rivista Aggiornamenti Sociali che fu di padre Bartolomeo Sorge: «Il riferimento a De Lubac ci riporta soprattutto ai padri della Chiesa, a un’epoca in cui spiritualità e teologia non erano ancora separate. Anche per Papa Francesco, come per molti gesuiti, è vitale far dialogare fede vissuta e teologia, perché la riflessione teologica stia “con i piedi per terra” e l’esperienza di chi crede sia rafforzata e aiutata a dare ragione di sé. Del resto Papa Francesco dice di aver molto imparato dalla fede delle persone semplici che ha incontrato, prime fra tutti sua nonna o la vecchina ricordata in una delle sue prime omelie. Analogamente, ci sono altri due elementi in tensione che Bergoglio mette insieme “in carne e ossa”, anche con la scelta del proprio nome: carisma e istituzione. Scegliere da papa il nome Francesco comunica la volontà di trasformare la tradizionale separazione, e talvolta opposizione, tra Chiesa carismatica e Chiesa istituzionale in una sorgente di fedeltà creativa alla propria missione. La vera sfida non è tanto quella di essere carismatico, ma rendere carismatica l’istituzione. È questo il compito di ogni autentica leadership. La potenzialità irrinunciabile delle istituzioni è, infatti, quella di attivare delle dinamiche in grado di coinvolgere un numero di persone che nessuno, da solo, sarebbe in grado di raggiungere. Alcuni primi segni di come i gesti carismatici possono avere portata istituzionale sono già intuibili e toccano il modo di concepire la Chiesa come sempre in movimento e decentrata da se stessa, le prospettive di un governo maggiormente collegiale, il rapporto con le altre confessioni cristiane non cattoliche e con le altre religioni».(P. Rodari)