giovedì 21 marzo 2013

Nomen omen

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Da oltre mille anni i Papi assumono subito dopo l’elezione un nome nuovo. L’importanza dei nomi è ben nota in molte tradizioni. Come sintesi, il detto latino nomen omen esprime una realtà molto presente nella tradizione biblica, ebraica e cristiana: il nome racchiude un destino, e appunto nelle Scritture sacre e nelle interpretazioni successive, sia ebraiche sia cristiane, sono frequenti tanto le spiegazioni (anche se spesso sono fantasiose) quanto i cambiamenti dei nomi, da Abramo a Pietro. Così dalla scelta di chi viene eletto vescovo di Roma e prende per sé un nuovo nome si cerca di dedurre o indovinare qualche tratto del pontificato che inizia.A volte è lo stesso Papa a spiegarsi. Di recente lo ha fatto poco dopo l’elezione Benedetto XVI, dicendo che voleva così richiamarsi a Benedetto XV, il predecessore che ostinatamente predicò la pace durante la prima guerra mondiale, e a san Benedetto, che nella sua Regola monastica raccomandava di non anteporre nulla a Cristo. Molto più immediato è stato capire la scelta di Jorge Mario Bergoglio, succeduto a Joseph Ratzinger, primo Papa non europeo da quasi tredici secoli e primo proveniente dall’America, che ha voluto chiamarsi Francesco. 
Anzi, nei giorni che hanno preceduto il conclave — mai tanto atteso anche al di fuori della Chiesa cattolica — molte sono state le voci che auspicavano questo nome per il nuovo successore dell’apostolo Pietro, un nome peraltro mai assunto nella pur lunga serie delle successioni papali, nemmeno dai diversi Papi francescani della storia. Eppure l’auspicio di molti si spiega facilmente. Francesco è un nome che non appartiene alla più antica tradizione ebraica e cristiana, come per esempio quello di Giovanni, il più scelto dai Papi (da ben ventitré legittimi, senza contare gli antipapi). Di per sé significa solo “francese” ed è divenuto cristiano nel Duecento grazie alla vicenda di Francesco di Assisi, esemplare e affascinante al punto da venire chiamato addirittura da testi coevi un “secondo messia” (alter Christus). 
Ma l’attrazione del santo medievale, canonizzato solo due anni dopo la morte, ha presto superato i confini cristiani, divenendo un simbolo universale e ammirato di radicalità e coerenza evangeliche. E così infatti lo ha spiegato Papa Francesco, descrivendolo come “l’uomo della povertà, l’uomo della pace, l’uomo che ama e custodisce il creato”. Con parole immediatamente comprensibili e condivisibili da tutti. Anche dai non cattolici, che il nuovo vescovo di Roma rispetta profondamente, sapendo che ognuno è figlio di Dio.
L'Osservatore Romano, 21 marzo 2013.

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Il rabbino amico del Papa su «El Mundo». Fratelli per davvero

Pubblichiamo in una nostra traduzione l’articolo del rabbino rettore del Seminario rabbinico latino-americano di Buenos Aires Marshall T. Meyer uscito sul quotidiano spagnolo «El mundo» di mercoledì 20 marzo.
(Ahraham Skorka) L’amicizia vera e sincera, a detta dei sapienti del Talmud, è quella in cui l’uno schiude l’intimità del proprio cuore all’altro. È attraverso questa conoscenza che l’uno acquisisce dell’altro che entrambi possono costruire un solido cammino nella vita. Così ho camminato negli ultimi quindici anni con l’attuale Papa Francesco. È difficile mettere da parte il pudore e l’umiltà e raccontare ai quattro venti l’intimità di questa amicizia. Ma ci sono circostanze che lo meritano. Il mondo indaga su Francesco e, vista la mia conoscenza, sento il dovere di rendere testimonianza della sua persona. Il suo linguaggio è semplice, ma trasmette concetti molto profondi. È un uomo di una meditata religiosità, che ritiene che si onora Dio solo attraverso il rispetto e l’onore che si rende al prossimo, così come c’insegnano i profeti. Ha sempre dimostrato un impegno particolare verso i bisognosi, i diseredati, le persone oltraggiate e umiliate nella società. Li accompagna nel loro dolore. Ha sviluppato una capacità empatica straordinaria. La modestia e l’umiltà caratterizzano ogni suo atto. Non si limita a declamarle, le pratica con fervore. Non c’è un discorso doppio in lui. Ritiene che debba realizzarsi un profondo avvicinamento tra ebrei e cattolici. Non con propositi di proselitismo, non per favorire sterili e inutili polemiche teologiche, come è accaduto in passato. Bensì perché ogni parte approfondisca le proprie radici, promuova gli aspetti più genuini della propria tradizione e della propria fede, al fine di plasmare, mediante un lavoro comune, una realtà di giustizia e di pace. Parla di “fratelli maggiori nella fede” non come un mero eufemismo, ma come descrizione reale dell’intimo rapporto esistente tra i membri dei due credo. Cerca vie per avvicinare le diverse denominazioni cristiane e per mantenere un dialogo franco con tutte le fedi. Il dialogo comporta sempre la conoscenza dell’altro e il farsi conoscere dall’altro, non un mero atto di simpatia. Una volta instaurato il dialogo, la sfida che esso propone è di creare progetti impegnati e comuni nella costruzione di una realtà migliore. 
Aborre l’imposizione di un discorso univoco e incontestabile in tutte le materie che riguardano la vita. Ascolta con attenzione e rispetto il punto di vista del suo interlocutore. 
Negli ultimi tre anni ci siamo visti almeno una volta al mese. Nel 2010 abbiamo scritto il libro Sobre el cielo y la tierra, che contiene i nostri dialoghi su temi molto diversi come Dio, il diavolo, gli atei, la morte, l’eutanasia, l’aborto, il divorzio, e altri ancora. Tutto ciò con cui l’uomo si confronta. Poi, tra il 2011 e il 2012, abbiamo fatto un programma televisivo. Mi sorprendeva sempre con un gesto con cui accarezzava il mio cuore. Dopo essere stato eletto Sommo Pontefice mi ha chiamato. Abbiamo parlato di tante cose! Gli ho chiesto se ricordava qual era il tema che avevamo deciso di registrare per il prossimo programma televisivo. Senza esitare mi ha risposto: «Sì, l’amicizia». 
L'Osservatore Romano, 21 marzo 2013.