sabato 23 marzo 2013

In un tempo nuovo





Benedetto XVI tra l’enciclica «Deus caritas est» e la rinuncia al pontificato

Il pendolo della storia della Chiesa nella tarda mattina dell’11 febbraio 2013 per un attimo si era fermato. Nella sala del Concistoro del Palazzo Apostolico si svolgeva un rito ordinario per approvare tre canonizzazioni. Tutto agli occhi della cinquantina di cardinali presenti pareva scorrere nella consueta routine.


 Ma dopo l’attimo di silenzio degli astanti che sempre precede un discorso del papa, dalle prime parole in latino si ebbe la percezione improvvisa che stesse accadendo qualcosa di straordinaria importanza. Benedetto XVI in piena tranquillità leggeva una dichiarazione sconvolgente: annunciava la sua rinuncia al ministero del vescovo di Roma successore di san Pietro. Voleva cessare di essere papa e stava comunicandolo ai suoi più stretti collaboratori come fosse una decisione tra le tante. Mille settecento ottantatré caratteri in latino per motivare davanti al mondo quella decisione sorprendente, rarissima nella storia della Chiesa cattolica. Il papa fissava anche un percorso per rendere esecutiva la sua volontà presa “in piena coscienza davanti a Dio” e “con piena libertà”. Poco dopo un flash dell’agenzia Ansa faceva il giro del mondo e quella notizia mandava in soffitta tutti i palinsesti televisivi innescando una frenetica giornata per gli operatori dell’informazione e gli amanti del web in ogni continente. Il pontefice che annunciava l’inizio della Sede vacante a cominciare dalle ore 20 del 28 febbraio, invitava le autorità competenti a convocare il conclave per la nomina di un successore. L’immaginazione di alcuni romanzieri e cineasti era divenuta realtà.
Quando, tra lo sconcerto generale dei presenti, il pendolo riprese a cullarsi nel tempo, la Chiesa di Benedetto XVI che tutti avevano atteso, ma pochi erano riusciti a individuare nei tratti caratteristici, si era ritrovata sbalzata come d’improvviso in un tempo nuovo. Quest’uomo, stimato per dottrina e semplicità, avversato da tanti critici e avversari dentro e fuori la Chiesa, costringeva ora l’opinione pubblica internazionale e in particolare le gerarchie cattoliche a porsi domande severe. A riflettere sulla direzione imboccata che con crescente chiarezza andava impigliandosi in una crisi epocale. Superata l’emozione immediata, anche i cardinali presenti nell’aula del Concistoro, smarriti e increduli, avvertivano confusamente che nessuna cosa nella Chiesa di Roma sarebbe rimasta come prima.
E forse tra loro, ma certamente tra quanti ne serbavano memoria, era tornato in mente lo smarrimento seguito alla fumata bianca del 19 aprile 2005. Quel pomeriggio con il nome di Benedetto, Joseph Ratzinger, eletto papa, dava l’impressione di una figura umile ma solida. In tanti pensavano a una marcia trionfale per lui, nei presumibili pochi anni che si pensava potesse guidare la Chiesa. Come per Papa Giovanni XXIII, quello che poi convocò il concilio Vaticano II, per Ratzinger si era parlato di pontificato breve di transizione breve. I suoi critici dichiarati o nascosti speravano per lui governo breve, lo stretto necessario per traghettare la Chiesa verso un tempo stabile di continuità.
Joseph Ratzinger aveva già mischiato le carte una volta, scrivendo nel nono mese del suo pontificato una enciclica sull’amore. Divenuto Benedetto XVI cogliendo di sorpresa i più, dopo essere stato un’icona dell’intransigenza cattolica per lunghi anni, con quell’enciclica sparigliava costringendo tutti a ripartire dall’inizio. Quel testo rivelava anzitutto una verità: quanto poco egli fosse conosciuto e compreso. L’enciclica affondava le radici nella sua prima giovinezza. Era rimasta quasi ibernata per decenni, tornando alla luce dopo l’elezione a successore di Pietro che lo aveva liberato dalle funzioni di controllore della dottrina cattolica. All’età di 19 anni, appena entrato in seminario, aveva scritto la sua prima ricerca sulla carità in san Tommaso. E poi, era stato affascinato da una citazione di Soren Kierkegaard: «Il cristianesimo non è una dottrina, ma il comunicarsi di una vita».
Tanti anni dopo quegli inizi, a ridosso della pubblicazione dell’enciclica Deus caritas est un famoso cardinale belga, che godeva allora della massima autorevolezza, aveva raccontato l’opinione che si era fatto di Ratzinger dal tempo del conclave da cui era uscito eletto con il nome di Benedetto XVI. «È un uomo discreto. Un uomo che insegna con calma: non è uno showman, assolutamente. E nemmeno un uomo delle folle. Ma è posato. La sua prima enciclica è molto chiara: non parla di temi scottanti, parla dell’essenziale, di amare Dio e di amare gli altri. È una bella enciclica, anche se, due giorni dopo la sua pubblicazione, nei media già non se ne parlava più […] Direi che a fianco di temi controversi, è bene tornare alla bellezza e all’essenza del cristianesimo. Credo che lui lo faccia molto bene. Dopo 20 anni che lo conosco, sapevo che non era il panzerkardinal che si dipingeva. È un uomo molto dolce, molto affabile, che ha il dono della preghiera. Un professore che è se stesso, che non imita il suo predecessore. È chiaramente un uomo solido. A me piace».
È stato questo uomo che ha scritto un’enciclica che rovescia L’essenza del cristianesimo di Ludwig Feuerbach. Quasi divertito a cogliere tutti di sorpresa per la scelta dell’argomento — primo papa della storia a farlo — e per i contenuti in essa disegnati, con i quali la sua Chiesa si ritira, in quanto istituzione, dall’arena politica, delegando ai soli laici credenti la concreta lotta per la giustizia.
In molti, anche tra i cattolici, neppure lontanamente ritenevano pensabile e possibile un’enciclica sull’amore, un tema di largo consumo nella società moderna sotto la categoria dell’eros e tanto essenziale per la fede cristiana da sembrare persino banale trattarlo in un “documento-manifesto” di un papato.
Joseph Ratzinger con le idee chiare di un teologo conciliare, desideroso di dialogo, chiariva finalmente davanti a tutti l’attualità della proposta cristiana nel mondo globalizzato e secolarizzato.
Convinto della fine epocale della società cristiana, quando la Chiesa si riconosceva nel Sillabo, e non desideroso di ricostituirla, Benedetto XVI puntava a una Chiesa della testimonianza religiosa e della fede proposta, non imposta, confidando specialmente sull’attrazione che può nascere da vite di esemplari seguaci di Gesù Cristo. E convinto che la fede si accoglie specialmente con la purezza di cuore tipica dei poveri e dei semplici.
Partendo da un manifesto fondato sull’amore, la Chiesa di Benedetto era attesa a un esame fin dagli inizi impegnativo: vedere fino a che punto — trascorso l’anno di lutto per la morte di Wojtyła e di luna di miele per la sua elezione — il nuovo papa si sarebbe rivelato capace di spingerla coerentemente sulla scia richiesta dal primo posto dato all’amore.
Una verifica da portare sul versante della riforma interna e sulla capacità effettiva di incontro con le diverse comunità internazionali. Vedere fino a che punto il suo appello a ripartire dall’amore sortisse frutti efficaci, a cominciare dalla sua Chiesa, o invece restasse un comodo alibi vuoto per mascherare nella Chiesa la permanenza su vecchi sentieri.
  Carlo Di Cicco