Messaggio di Pasqua dei capi delle Chiese cristiane di Gerusalemme. Insieme nella terra di Gesù
Mentre non meno di 35.000 persone — più del doppio rispetto allo scorso anno — hanno partecipato alla tradizionale processione che, nella domenica delle Palme, dal Monte degli Ulivi è giunta fino alla città vecchia di Gerusalemme, un appello a «visitare le nostre Chiese» e a «camminare con le pietre vive di questa Terra sulle orme di Cristo Risorto» è stato lanciato dai capi delle Chiese cristiane di Gerusalemme in occasione della Pasqua. Un appello ecumenico, nel quale si ricorda come «la presenza cristiana qui nella Città Madre della nostra fede continua a essere un faro di luce di Cristo risorto, del quale i primi discepoli furono testimoni davanti al sepolcro vuoto». Non manca, ovviamente, un pressante invito ad adoperarsi in favore della pace nella regione. «Invitiamo tutti gli uomini di fede e di buona volontà nel mondo, in particolare quelli che rivestono ruoli di autorità, a lottare per la giustizia e la pace tra le nazioni. In particolare preghiamo per la Siria, il Libano, la Palestina e Israele, l’Egitto, l’Iraq, e ovunque ci siano agitazioni politiche. Preghiamo per tutte le vittime della violenza e dell’oppressione, per i prigionieri, per chi vive con la mancanza di sicurezza, e coloro che sono sfollati e rifugiati, soprattutto qui nella nostra terra». E a coloro che non possono compiere il pellegrinaggio in Terra Santa, i leader cristiani chiedono di «sostenere i popoli di questa terra nelle loro preghiere, in particolare la presenza cristiana che continua a diminuire».
Alla pace e alla semplicità dei cuori portata da Cristo si sono ispirate, al temine della processione delle Palme, anche le parole del Patriarca di Gerusalemme dei Latini, Fouad Twal, il quale ha ricordato come il senso della celebrazione sia il «rifiuto di ogni violenza». Infatti, «la nostra processione è quella della salvezza, il Signore stesso è la nostra salvezza. Gesù, il Re della Pace, è entrato a Gerusalemme, città che non ha mai conosciuto la pace».
Quest’anno poi la celebrazione della Pasqua in Terra Santa assume un’ulteriore rilevanza ecumenica. Infatti, gran parte delle comunità cattoliche presenti in Israele, Territori palestinesi, Giordania e Cipro si apprestano a celebrare le liturgie della Settimana santa non in questi giorni, ma nella prima settimana di maggio, secondo il calendario giuliano seguito dalle comunità ortodosse. L’unificazione delle date delle festività pasquali in gran parte dell’area rappresenta un’applicazione della direttiva emanata il 15 ottobre 2012 dall’assemblea degli ordinari cattolici della Terra Santa, con la quale è stato stabilito che entro due anni tutti i cattolici delle diocesi di rito latino e dei diversi riti orientali celebreranno la Pasqua secondo il calendario giuliano (quest’anno il 5 maggio) in concomitanza con le liturgie pasquali celebrate nelle Chiese ortodosse. L’adozione della data di Pasqua secondo il calendario giuliano entra in vigore ad experimentum da quest’anno in tutta la Terra Santa, con l’eccezione delle aree di Gerusalemme e di Betlemme, dove si continuerà a seguire il calendario gregoriano sia per rispettare i vincoli imposti nella Città Santa dal sistema dello Status quo (che regola la convivenza tra le diverse Chiese cristiane nei luoghi santi) sia per tener conto dell’afflusso dei pellegrini che da tutto il mondo vengono a celebrare la Pasqua a Gerusalemme e a Betlemme. Secondo quanto dichiarato all’agenzia Fides dal vescovo ausiliare di Gerusalemme dei Latini, William Hanna Shomali, «anche le comunità di lavoratori stranieri di Tel Aviv hanno chiesto di celebrare la Pasqua seguendo il rito gregoriano, anche perché potranno godere dei giorni di ferie in coincidenza della Pasqua ebraica». L’unificazione della data con cui i cristiani di diverse confessioni celebrano la Pasqua — dato ormai acquisito da decenni in Giordania e a Cipro — suscita ancora qualche perplessità nella comunità maronita. Essa comunque rappresenta per il vescovo Shomali un passo eloquente dal punto di vista ecumenico: «Membri della stessa famiglia o dello stesso villaggio, che appartengono a realtà ecclesiali diverse, ora possono celebrare negli stessi giorni la passione, la morte e la resurrezione di Gesù Cristo. In modo da dare anche una testimonianza di unità ai nostri vicini non cristiani».
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Intervista con il Custode di Terra Santa padre Pierbattista Pizzaballa.
(Robert Cutala) «Qui la Chiesa
è una realtà viva, piena di contraddizioni, certo, forse più che altrove, ma
anche capace di vitalità»: è quanto, alla vigilia della Pasqua, sottolinea in
un’intervista al nostro giornale, il Custode di Terra Santa, padre Pierbattista
Pizzaballa, per il quale non è esagerato dipingere la comunità cristiana di
Gerusalemme come il “cuore pulsante” della Chiesa nel mondo.
«Non a caso la
chiamiamo “Chiesa Madre”, non solo perché da essa sono nate le Chiese sparse
nel mondo, ma perché ancora oggi custodisce in maniera unica e particolare il
luogo che fa memoria della morte e risurrezione di Cristo. In Gerusalemme
ancora oggi si ritrovano, insieme, anche se ferite nelle loro relazioni, tutte le
denominazioni cristiane. Tutti insomma si ritrovano ancora oggi nella Città
Santa, che è un microcosmo della vita della Chiesa nel mondo. In questo senso
la possiamo definire “cuore pulsante”, perché dona la vita a tantissimi
credenti nel mondo, dal quale a sua volta riceve impulso e linfa. In essa
ancora oggi si concretizza la profezia di Isaia, che parla di Gerusalemme come
la casa di preghiera per tutte le genti».
Crede che su questo aspetto ci sia scarsa consapevolezza anche tra i
cristiani stessi, visto che la
Terra Santa viene ricordata quasi sempre solo per l’annoso
problema del conflitto israelo-palestinese?
Non c’è dubbio, che quando si parla di Terra Santa, il pensiero va
innanzitutto alla politica e all’interminabile conflitto israelo-palestinese o,
ultimamente, al complesso e contraddittorio periodo di transizione che sta
attraversando tutto il Medio Oriente. È necessario, tuttavia, che le comunità
cristiane recuperino il loro legame con la Terra Santa, con la
terra cioè che custodisce la “geografia della salvezza”, senza la quale non
sarebbe oggi possibile parlare di storia della salvezza.
Forse perché abbiamo perso la capacità di cogliere i segni tangibili di
Cristo nella quotidianità?
Forse, in certi ambienti, soprattutto quelli culturali e occidentali, vi è
la tendenza a ridurre la vita di fede ad attività intellettuali, rendendo
astratta l’esperienza di Cristo. Ma per la stragrande maggioranza dei fedeli,
la folla delle persone semplici, dei credenti delle periferie, la presenza di
Cristo nella quotidianità è un fatto spontaneo. Non hanno bisogno di astrazioni
o di ricostruzioni teologiche, hanno bisogno di sentire la Sua presenza vicina. Lo
sperimentiamo quotidianamente incontrando e osservando i milioni di pellegrini
che giungono qui in Terra Santa da tutto il mondo. I pellegrini vogliono
incontrare Gesù, toccare qualcosa della Sua esperienza terrena, depositare in
questi luoghi le loro attese e il loro dolore, cercare una consolazione, unirsi
alla Sua esperienza.
Qual è attualmente il più significativo problema per i cristiani in Terra
Santa, ammesso che di problemi possiamo parlare?
I problemi sono tantissimi: oltre alla nota questione politica
israelo-palestinese, che influisce sui cristiani non meno che sulle altre
comunità, dobbiamo ricordare la diminuzione costante in grandi parti dei Paesi
mediorientali del numero delle comunità cristiane (l’Irak prima e ora la Siria); la situazione
economica nei territori palestinesi e la mancanza di prospettive chiare di
sviluppo; la divisione tra le diverse comunità cristiane; la difficoltà a
mantenere unita la comunità. Va facendosi inoltre serio il problema di come
ravvivare nelle giovani generazioni la coscienza e l’identità cristiana. Vi è
un problema di secolarizzazione soprattutto nelle comunità residenti in
Israele. I problemi sono innumerevoli, ma se dovessi parlare del problema
principale, per restare alla domanda, forse è la paura. Le nostre comunità
sembrano spaventate dai cambiamenti in atto nel Medio Oriente e anche in Terra
Santa.
Il numero dei cattolici in Terra Santa è passato dal 40-50 per cento del
1967 al 12 per cento di oggi. Perché, cosa sta succedendo?
È un argomento complesso, che ha diverse motivazioni. Vi è l’aumento
demografico della comunità musulmana che è più del doppio rispetto ai
cristiani. Dopo il 1967 sono arrivate a Betlemme migliaia di famiglie rifugiate
che ancora oggi occupano due grandi campi profughi, vi è l’emigrazione
all’estero di tante famiglie cristiane. Ci sono poi le ragioni legate alla
questione politica. A tutte queste ragioni si devono aggiungere le scarse
prospettive economiche, che sono a mio avviso la causa principale, che non
consente a molti di pianificare un futuro sereno.
Premesso che la realtà è molto complessa, di cosa avrebbero bisogno
attualmente i cristiani di Terra Santa?
I cristiani non sono un popolo a parte e hanno perciò gli stessi bisogni dei
loro vicini sul piano politico, economico e sociale. Sul piano religioso, hanno
bisogno di essere uniti, e di sentirsi uniti alla grande famiglia universale
della Chiesa. Il pellegrinaggio, in questo senso è importante perché rende
quest’unione concreta e tangibile.
Mentre in alcuni Paesi del Medio Oriente e nei Paesi africani non si
placano i disordini, in Terra Santa al momento la situazione sembra piuttosto
stabile. Perché?
Se ci confrontiamo con il resto del Medio Oriente, siamo certamente un’oasi
tranquilla. Non abbiamo grazie a Dio i gravi problemi che attanagliano i Paesi
vicini. Ma non possiamo dire che la Terra Santa sia una realtà stabile. Il conflitto
israelo-palestinese ci garantisce una buona percentuale di instabilità. Le
società palestinese e israeliana, inoltre, sono di fronte alle sfide dei grandi
mutamenti sociali, che hanno colpito questo Paese nella stessa misura di altri.
La molteplicità religiosa di Terra Santa potrebbe disorientare i fedeli.
Oppure vale il criterio che se una fede è vissuta in profondità ti porta a non
temere gli altri?
I fedeli che vengono in Terra Santa possono, forse per la prima volta,
toccare con mano l’esistenza di questa complessità. Per loro è necessario un
accompagnamento perché possano approfondire meglio la bellezza della loro
appartenenza. Detto questo, è vero che la fede vissuta come esperienza non solo
non teme il confronto, ma ne ha bisogno. In Terra Santa questo è quotidianità.
Le mie domande su Gesù sarebbero state diverse, se non avessi incontrato amici
ebrei che mi avessero interrogato con rispetto e simpatia sul Vangelo.
Esperienze simili sono innumerevoli.
La sfida per la pace dei popoli di Terra Santa passa anche attraverso
l’ambito culturale?
«Certamente. Se è vero che la convivenza tra credenti delle diverse fedi
passa attraverso i piccoli segni della quotidianità, è altrettanto vero che è
necessario che le istituzioni culturali di Terra Santa creino occasioni di
incontro, per aiutare a comprendere le differenti storie, a dare le chiavi di
lettura dei fenomeni complessi che ci hanno condotto a questa situazione, a
capire le diverse mentalità. Senza un supporto culturale, non sarà possibile costruire
modelli di convivenza seri e stabili.
Come è stata accolta in Terra Santa la rinuncia di Benedetto XVI?
Il Medio Oriente cristiano, soprattutto ortodosso, non è abituato alle
dimissioni. I patriarchi sono a vita. Per cui è stata una grande sorpresa, che
ha lasciato un segno profondo. Un gesto di umiltà che ha impressionato.
Cosa auspica il piccolo gregge della terra di Gesù al nuovo Papa
Francesco?
Abbiamo bisogno di guardare al futuro con speranza, senza paura. Abbiamo
bisogno di un leader che ci scaldi il cuore e ci aiuti a camminare uniti. Papa
Francesco, con la sua visione, in pochi giorni ha già fatto tutto questo.
Papa Francesco sta adoperando di frequente due sostantivi: misericordia e
custodia. È un invito a familiarizzare ancor di più con Dio?
Papa Francesco sta cercando di convincere gli uomini che l’arcobaleno che un
giorno ha siglato il patto di alleanza tra Dio e l’uomo non si è dissolto, ma è
stato rinnovato nella Croce di Cristo. Insiste nel ripetere che Dio non si è
stancato dell’uomo, nemmeno del rifiuto dell’uomo. All’uomo, che sperimenta di
aver esaurito le sue risorse e aver sciupato quelle del creato e di aver perso
ogni possibilità di ripresa, Dio offre di nuovo la sua mano generosa, le sue
braccia accoglienti, il suo cuore di Padre. È un invito ad alzare lo sguardo su
ciò che di più vero possiamo sperimentare, il Dio con noi.
L'Osservatore Romano., 28 marzo 2013.
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Vedi anche in questo blog il post seguente:
10 Nov 2012
Avevo conosciuto il gesuita Ignace de la Potterie, uno dei migliori esegeti contemporanei, fedele al Magistero della Chiesa, gli chiesi se poteva chiarire i miei dubbi riguardanti la corretta interpretazione della Sacra Scrittura.